SIAMO ANCORA QUI
NOTA. Sì, lo so che è la terza volta che la mostriamo, questa scena. Ma sono due minuti di ripasso che levati: un piano sequenza di perfetta semplicità, almeno in apparenza. Panoramica di 90°, poi mdp inchiodata a guardare il lungomare della versiliana, con profondità di campo infinita e punto di fuga prospettico centrale, a perdita d'occhio (anche nel senso del "Boom", con lo stesso attore). Eyes Wide Shut con ottusa ostinazione, nella luce "tra cane e lupo" del crepuscolo. (Non so chi fosse Leonida Barboni, ma di certo non è mio suocero.) Intenso sviluppo economico e sociale promesso a tutti da un Paese sul punto di diventare Terra di Nessuno, mostruoso circolo vizioso la cui circonferenza non è da nessuna parte e il centro in una località che si chiama Ronchi Poveromo (manco a farlo apposta). Pasolini e Antonioni forse in segreto se la sognavano, una scena così. (Il secondo credo che lo dichiarò apertamente.) Come sfondo sonoro, una gran bella canzone in oscena versione "melodia d'ascensore", aspettando di sentirla risuonare nelle grandi Stande di Milanodue a uso e consumo di zombi leghisti. La mdp copre uno spazio infinito, come dicevo, ma in realtà non si allontana mai dal perno (l'uscita del locale). In attesa di buttarlo in faccia a qualcuno, all'epoca un treppiede serviva ancora a quello: far credere allo spettatore che Piove sia musica di commento, mentre è ancora, è sempre e solo musica di scena. (E infatti Modugno era cliente abitudinario dell'"Oliviero" di Comparini, topos cinematografico per eccellenza.) Il carrello non è sempre necessario, a volte anche una piccolissima panoramica può essere una questione morale.
In mezzo all'inquadratura, gesticola il più grande attore di tutti i tempi. Si vede solo lui, anche quando ormai è un puntino che corre in lontananza: non come nei finali di Charlot, dove lui si allontana con fiduciosa sprezzatura. No, lui qui sta scappando: è lui, il punto di fuga.
Un minuto e quaranta di cinema puro.
Notare che per quasi tutto il tempo dà le spalle allo spettatore. Un interprete fuori classe si riconosce dal fatto che recita anche di spalle (in Toro scatenato è così per quasi tutta la scena, quando lui chiede a Joe Pesci "Iufacmaiuaif?"). Dice: "Ahio. Me so' fatto male. A 'a mano". Il resto è danza, grazia terminale di uno sbronzo elegantissimo, metronomo naturale, a bello e apposta: cravatta a pois annodata alla brutt'e peggio, camicia bianca sgualcita e mezza fuori dai calzoni neri (sbraco millimetrato), giacchetta agitata in una tauromachia che Hemingway, Leiris e Manolete non siete nessuno, e mocassini pronti a inciampare in un ultimo inaudito tip o tap di claquettes (lui iniziò imitando Fred Astaire, infatti).
Quello stendersi in mezzo all'autostrada, tra un Anno Karenino di Frosinone e il vago ricordo di griffithiane donzelle in distress legate alle rotaie del cinema delle origini, per poi rialzarsi subito dopo, in un sussulto pupazzesco. Non tanto perché la vita, sebbene difficile, meriti di essere vissuta, ma quando mai: no, solo perché c'è ancora (sempre) una spider (o una Seicento, o un bus di turisti) su cui scatarrare. Il suicidio può aspettare: intanto ammazziamo gli altri.
Sospetto l'improvvisazione del genio, nell'evidenza di quell'Hitler sputacchiato ai tedeschi.
Magari ce lo meritassimo ancora, Alberto Sordi.
[continua su G.O.D.]