giovedì, dicembre 07, 2017

Johnny

È stato durante la conferenza stampa del Prefetto di Parigi dedicata ai dispositivi di sicurezza e alle misure di ordine pubblico per il corteo funebre di sabato (400 biker, musicisti che suoneranno lungo il percorso, schermi giganti, centinaia di migliaia di persone, forse mezzo milione), quando il signor Prefetto ha voluto ricordare quella volta che Johnny è venuto a visitare la prefettura perché aveva con essa un legame particolare, e quella volta che lui, il Prefetto, è andato a un concerto di Johnny e poi è stato ricevuto personalmente nel suo albergo,

insomma è stato dieci minuti fa e comunque dopo due giorni di rocchettari, reumatiche, inconsolabili, scolaretti, garagisti, armonicisti, harleydavidsonisti e dopo la notizia di 250.000 ascolti di "Je te promets" su Spotify che mi sono accorta che questa cosa di Johnny è piacevolmente

piacevolmente

piacevolmente

sfuggita di mano.

venerdì, dicembre 01, 2017

Ça va

Così vanno le cose. Con i vicini, in panetteria, al supermercato le cose vanno così:
Persona: Ça va?
Vittorelli: Ça va. Ça va?
Persona: Ça va, ça va.
Ma. Ci sono eccezioni.
Persona: Vous allez bien?
La Miru: Ça bien merci bonjour grumh buh va.
E la Miru si allontana sconfitta.

martedì, novembre 28, 2017

Trentatré



Nella cittadina di Verchnie Jamki un dentista scopre che l’operaio Ivan Sergeevič Travkin ha in bocca ben 33 denti. Il dolorante Ivan Sergeevič viene così portato a Mosca, dove gliene capitano di tutti i colori: prima finisce in manicomio vittima delle macchinazioni di un invidioso (che finirà ricoverato a sua volta) e poi diventa famoso grazie alla sua particolarità. Gli scienziati ipotizzano che con i suoi 33 denti sia un discendente dei marziani e lo scelgono per una pericolosa missione spaziale.
E "Trentatré" è il titolo del film.
In bella immagine, Ivan Sergeevič torna nel suo paesino.

Il fatto che Verchnie Jamki non esista non gli impedisce di venire nominata altre due volte nel cinema sovietico: in Šla sobaka po rojalju (1978) e in Afonja (1975) dello stesso Danelija.

Tridcat tri (1965)

Regia: Georgij Nikolaevič Danelija
Direttore della fotografia: Sergej Arkad’evič Vronskij

giovedì, ottobre 19, 2017

I bless the rains down in Africa

La macchina da presa inquadra un mappamondo che ruota e sfuma in un ventilatore a soffitto, poi scende, passa in rassegna scaffali pieni di grossi volumi e si ferma su uno con un mezzo vokuhila che canta assorto mentre sullo sfondo una bella ragazza nera con gli occhiali siede a una scrivania coperta di libri. (Primo piano della ragazza nera che si lecca un dito per sfogliare un libro.)

Poi c'è nuovamente il mappamondo rotante, lui che canta, una mano che timbra un passaporto, lui che canta dietro pile di libri alla luce di una LAMPADA a olio. In seguito appaiono un batterista, un percussionista, un tastierista e un chitarrista affaccendati con gli strumenti loro, mentre Mezzo Vokuhila canta e la ragazza lancia uno sguardo seducente o dubbioso al di sopra degli occhiali. Ma a cosa lo lanci non si sa, forse al tizio che canta da solo.

Mappamondo che ruota, sfogliare furioso di pagine, e infine il mappamondo si ferma per permettere alla macchina da presa di zoomare su AFRICA.
La band suona sopra una pila di volumi, in particolare su un librone intitolato AFRICA.
Ma Mezzo Vokuhila durante le sue ricerche bibliografiche ha trovato un brandello di carta, cosa sarà?
Intanto fuori, in mezzo a una vegetazione tropicale, succede qualcosa, c'è qualcuno. Qualcuno con una LANCIA.
Ma da dove verrà quel pezzetto di carta?
Mezzo Vokuhila (visibilmente sudato) prende un libro, ed è finalmente soddisfatto. Sulla copertina c'è scritto: AFRICA.
Una mano nera con braccialetto di piume e perline scaglia infine la sua LANCIA che sfiora una pila di libri e va a conficcarsi sulla parete tra un paio di maschere africane. Sul pavimento, gli occhiali rotti della ragazza nera.
A questo punto però i vari membri della band spuntano cantando dietro gli scaffali della libreria, nei varchi aperti tra un libro e l'altro, occupandosi serenamente del refrain.
Comunque a posto, abbiamo scoperto dove stava il pezzo di carta, solo che la LANCIA ha fatto cadere i libri che hanno rovesciato la LAMPADA e il libro si incendia. La montatura di plastica degli occhiali della ragazza si scioglie.
Poi c'è Mezzo Vokuhila adagiato sul librone in modalità colazione sull'erba, mentre il libro intitolato AFRICA brucia.

E noi? Noi riservavamo a queste scene uno sguardo imperturbato e sornionamente "goriziano", una sovrana sprezzatura.
Erano gli anni Ottanta.

martedì, settembre 05, 2017

Una cosa che ho fatto quest'estate

Il tema dal titolo “Una cosa che ho fatto quest’estate” lo aprii quell’anno con sintetica franchezza: “Quest’estate con i miei familiari siamo stati sul Lago di Raibl e all’andata io ho gomitato nella vettura di mio papà”.
“Ma dove sta il Lago di Raibl?” si informò poi la Claudia che vantava una passione per la geografia. “Praticamente in Isvizzera” risposi io con un gesto nobile che abbracciava un esteso arco montuoso in cui la Carnia fraternizzava con le Dolomiti e le Alpi Graie, e i laghi erano un unico specchio d’acqua che emergeva e scompariva, addormentandosi furlano e svegliandosi elvetico.

La Svizzera era sinonimo di lungo soggiorno fatto di passeggiate, sedie a sdraio e pranzi al sacco, di albergatori riservati e puntigliosi, di versanti cordiali. Invece noi al Lago di Raibl ci eravamo andati in giornata, partendo all’alba carichi di canne stivaloni e mulinelli per partecipare al Torneo di pesca a coppie “Lui e Lei”. Lui era mio padre, Lei ero io.
Antonia era addetta alla distribuzione delle cotolette impanate, mentre il contributo di mia madre si esauriva in un tifo un po’ scolastico (“Dai dai”, “Tiralo su tiralo su”) che si spegneva alla vista delle esche vive. Io in quanto Lei sapevo maneggiare i lombrichi, sapevo lanciare, sapevo dosare lo strattone, sapevo recuperare. A papà bastava. Papà faceva tutto il resto.
Quel giorno appena scesa dall’auto mi ero innamorata, all’improvviso, con le gambe che ancora mi facevano Giacomo Giacomo. Lui era mio coetaneo, era biondo, indossava una polo a righe rosse e blu ed era il figlio del Pagorani, nostro avversario, acerrimo rivale pescasportivo del padre mio. Naturalmente non ci scambiammo neanche una parola, solo sorrisi ebeti. Io lì, con la canna in una mano e una cotoletta impanata nell’altra, mentre mia madre faceva “Dai dai!” e mio padre bisbigliava “Quando mangia, polso fermo e tac. Polso fermo e tac!”. Lui là, a sorridere abbracciato a un barattolo di vermi.
Vincemmo noi, non so perché. Un buon posto, pasturato bene. Fortuna nel sorteggio. Bilance truccate. Giudici corrotti.
Con il figlio del Pagorani ci salutammo nel parcheggio facendo ciao con la mano in mezzo ai clacson e alle auto in retromarcia, avvolti in una nuvola di polvere, moscerini e freschìn. Così voleva il nostro destino di Montecchi e Capuleti del Lago di Raibl, nel Friuli svizzero. Io però almeno mi tenevo stretta la coppa “Lui e Lei”.
Sulla strada del ritorno lui gomitò in macchina, ma questo me lo raccontò poi mio padre ridendo sotto i baffi.
Nel tema furono naturalmente omessi gli aspetti romantici.
“Mi piace la tua sintesi” commentò la maestra Burziani. “Vomitare, però, con la V.”
“Maestra, a me solo scrivere o dire la V mi fa gomitare!”
“Va bene” disse lei, e con la matita fece un segno morbido come una traccia lieve di rossetto.

martedì, agosto 15, 2017

La cornacchia

Tre giorni fa al citofono: "Manu aprimi. C'è qui un signore che cerca una cornacchia, lo lascio entrare in giardino?" "Ok."
Stasera, davanti al cancello di casa: "Scusate avete mica visto una cornacchia?" "Vuole entrare in giardino?" "Grazie."
Certe volte si sta come in un film di Carpenter Sam Neill.

giovedì, giugno 08, 2017

Cosa ho fatto ieri sera

C'era questa maestra, la maestra Burziani, che ogni tanto ci buttava il tema "Cosa ho fatto ieri sera". Allora io personalmente la sera:

andavo con mio papà a prendere la mamma all'uscita dal lavoro ma prima ci fermavamo in un baretto di Straccis dove gli amici gli dicevano "I te gà riciamà", "Ti hanno richiamato", per via della camicia kaki stile militare, e mio papà rideva sotto i baffi a ferro di cavallo, poi mi diceva scegli un gelato pìciula e io prendevo sempre la Cristallo, cioè stracciatella in una tazzetta di plastica blu trasparente;

oppure guardavo la tv.

La maestra Burziani accettava di buon grado la storia della coppa Cristallo, se la gustava ogni volta come una bella replica a volte condita da un seguito come la mamma che saliva sull'auto sbagliata o papà che fermava la macchina sul marciapiede, scendeva e poi tornava con un mazzetto di erbe per la frittata, mentre io dicevo "papà ma è legale?", "siamo sicuri che è legale?" e lui diceva "tira giù la testa che c'è la polizia".

Sulla tv la maestra Burziani aveva qualche riserva. Aveva qualche dubbio.
Non è corretto dire ho guardato la tv, diceva. Ho guardato il televisore? No, perché così sembra che hai guardato l'apparecchio spento. (Risate.) Ho guardato la televisione?
La maestra Burziani faceva la faccia pensosa.
Poi sentenziava: ho assistito alla televisione. Ho assistito a un programma televisivo.
Ma la vedevo incerta, e per non darle un dispiacere il tema lo facevo sempre sulla Coppa Cristallo, una storia on the road piena di tappe bellissime e prevedibili, di finestrini abbassati, di profumi di prati annaffiati di fresco e della mamma che saliva sull'auto sbagliata.

Tranne quando c'era la partita.
Allora lì dicevo abbiamo assistito alla partita.
Per la verosimiglianza.
Però ci infilavo la camicia kaki di papà anche se magari a casa stava in canottiera.
Per l'arte.
La maestra Burziani non si è mai lamentata.