– Ma.
– L'avevo scritto e poi tagliato per incollartelo rapidamente quando sarebbe successo.– ...
– Non ho resistito alla tentazione di compiere un gesto scaramantico.
Andrej faceva parte di quel ristretto numero di persone la cui carriera aveva prosperato grazie alla grande rivoluzione socialista d'Ottobre. Proprio grazie alla rivoluzione e al compagno Lenin nel nostro Paese si era stabilita la tradizione dei subbotnik comunisti, le giornate festive di lavoro volontario in cui i lavoratori sovietici di ogni categoria si mettevano a fare le grandi pulizie, gettando nella spazzatura immondizie, ciarpame e apparecchiature in disuso. Se le apparecchiature erano ancora funzionanti, prima di gettarle bisognava distruggerle con asce, mazze o piedi di porco per renderle inutilizzabili. Andrej Tropillo partecipava tutti gli anni al subbotnik comunista leninista. Si preparava a lungo per quel giorno: comprava grandi scorte di vodka e vino, si informava, faceva telefonate e giunto il gran giorno si presentava in qualche teatro, istituto o altra istituzione e aspettava pazientemente. Aspettava che i lavoratori sudati e allegramente bestemmianti trascinassero nel cortile vecchi mixer, casse e amplificatori. E quando i volontari, dopo essersi fatti una sigaretta e una bevuta, si accingevano a fare allegramente a pezzi le apparecchiature in un tripudio di fili colorati e di transistor, ecco che Tropillo gentilmente li fermava.E così Viktor e Aleksej, accompagnati da BG, nella primavera del 1982 entrano in un grigio edificio di quattro piani sul friume Ochta, in ulica Panfilova numero 23. Fuori della porta è appesa una vecchia insegna di vetro con su scritto "Casa dei Pionieri e degli Scolari". All'ultimo piano c'è lo studio di Andrej Tropillo, costruito anno dopo anno e subbotnik dopo subbotnik: lì sono stati registrati tutti gli album degli Akvarium, lì nasce 45, il primo dei KINO. 45 è la durata in minuti della registrazione.
Una volta Grebenščikov ha detto che in quegli anni il rock'n'roll era l'unica cosa giusta fino in fondo di questo paese. Sono completamente d'accordo con lui. Solo questo ci dava gioia. E intendo proprio gioia, non risate o ghigni. Quelli che fanno la coda per rendere bottiglie vuote e comprare bottiglie piene e che si sentono liberi solo dopo averle svuotate non sanno cos'è la gioia. Ridono sempre: per una barzelletta sporca, o per un film, o per le storie degli scrittori satirici su com'è terribile vivere in questo paese. Ridono della miseria, della povertà e della depravazione, ma non sanno cos'è la gioia. Noi quella gioia l'abbiamo cercata e trovata. Nel rock'n'roll di Elvis e nelle ballate dei Beatles scoprivamo più significati che nei testi di Lenin studiati a scuola. Criticare ciò che accadeva attorno a noi ci ripugnava, e anche se qualche volta ci lasciavamo coinvolgere nelle discussioni cercavamo soprattutto di evitarle. Dialogare con lo Stato significava accettare le regole del suo gioco, e questo ci disgustava profondamente. I valori che ci venivano proposti erano ridicoli: sembravano così assurdi e improbabili che era inutile perderci tempo ed energie."Avresti potuto essere un eroe, se solo ci fosse stata una causa", canta Viktor Coj in "Podrostok" ("Adolescente"). I testi delle sue prime canzoni sono semplici, non politicizzati, spesso parlano di solitudine ed esprimono un vago senso di ribellione. Lui e i suoi amici non combattono lo Stato sovietico: meglio li definisce il concetto di vnutrennaja emigracija, emigrazione interna, lo stare contemporaneamente fuori e dentro il sistema e tutta l'ambivalenza che deriva da questa condizione oscillante.
Le regole del gioco ci venivano da BG. Quell'anno avevamo ascoltato il Sinyj Al'bom e ne eravamo rimasti storditi. Non assomigliava a niente di quello che si suonava allora in Russia, dai seminterrati sporchi alle sale del Palazzo dei Soviet. Nei seminterrati c'erano dei ragazzi pelosi che cantavano l'amore usando espressioni pompose e astruse, nei saloni ufficiali c'erano uomini e donne dall'aspetto curatissimo che cantavano l'amore in una lingua da malati di mente. Grebenščikov cantava l'amore come noi ne parlavamo nelle birrerie, con gli amici, a casa, solo che lui lo faceva in modo molto più sintetico e chiaro, e con un vocabolario più ricco.Una sera Viktor Coj conosce Boris Grebenščikov: lo incontra per caso su un treno locale, di ritorno da un concerto in periferia.
Non riuscivamo a immaginare come si potesse parlare di Dio, Amore, Libertà e Vita, e soprattutto cantarne, senza neanche nominarli. Era incredibile.
[...]
E poi Grebenščikov non era per niente aggressivo, non prendeva a pugni i muri, non si schiantava contro le porte chiuse, non si batteva con nessuno, stava semplicemente da parte, apriva un'altra porta – invisibile alla sorveglianza – e ci entrava. Nella sua semplicità e mancanza di aggressività c'era più forza che negli urli selvaggi e nel fragore dei rocker primitivi. Loro volevano la libertà, combattevano disperatamente per ottenerla. BG invece era già libero, non combatteva: gli bastò decidere, ed ecco che divenne libero.
Ci chiamavamo "bitniki", anche se non eravamo beatnik nel significato tradizionale del termine. Era una via di mezzo tra il tipo classico del beatnik e una specie di proto-punk. A essere veramente punk era forse solo il gruppo di Svin [soprannome di Andrej Panov, fondatore degli Avtomatičeskie Udovletvoriteli, N.d.T]. Gradualmente sviluppammo atteggiamenti, riti e abitudini tutti nostri. Ogni gesto, quotidiano o rituale che fosse, era caratterizzato da una specifica dinamica. Quando si incontravano, i bitniki si stringevano la mano in un modo particolare, le dita piegate a formare un gancio, ed emettevano un breve suono gutturale, "yarrtcchhrrr". Per le occasioni speciali avevamo elaborato la "postura del bitnik": ginocchia leggermente flesse, corpo piegato in avanti, la schiena quasi ricurva, le braccia diritte, le dita delle mani strette a pugno, gli occhi scintillanti: una postura che doveva mostrare potenza e determinazione.
Quando ci incontravamo non ci chiedevamo quanti anni hai, dove lavori. Ci interessava solo sapere quale musica ascoltasse l'altro. La musica era il principale criterio di valutazione, e così ci tenevamo in contatto con un sacco di idioti, se questi idioti avevano collezioni di dischi interessanti. Invece di chiedere: "Dove lavori?", noi chiedevamo: "Suoni?"
Suonavano o volevano suonare tutti.
Viktor Coj comincia prestissimo a suonare la chitarra. Alla scuola d'arte conosce il giovane musicista Maksim Paškov e a 13 anni fonda con lui il gruppo Palata No. 6 (Reparto 6). Per qualche anno i due suonano insieme, passando gradualmente dalle cover dei Black Sabbath a un repertorio originale.