lunedì, agosto 30, 2010

Sotto una stella chiamata Sole/5. Elvis e Lenin

Il rock'n'roll è morto, ma io ancora no
Akvarium, "Rok-n-roll mёrtv", Radio Afrika (1983)

Scrive Aleksej Rybin in Kino s samogo načala:
Una volta Grebenščikov ha detto che in quegli anni il rock'n'roll era l'unica cosa giusta fino in fondo di questo paese. Sono completamente d'accordo con lui. Solo questo ci dava gioia. E intendo proprio gioia, non risate o ghigni. Quelli che fanno la coda per rendere bottiglie vuote e comprare bottiglie piene e che si sentono liberi solo dopo averle svuotate non sanno cos'è la gioia. Ridono sempre: per una barzelletta sporca, o per un film, o per le storie degli scrittori satirici su com'è terribile vivere in questo paese. Ridono della miseria, della povertà e della depravazione, ma non sanno cos'è la gioia. Noi quella gioia l'abbiamo cercata e trovata. Nel rock'n'roll di Elvis e nelle ballate dei Beatles scoprivamo più significati che nei testi di Lenin studiati a scuola. Criticare ciò che accadeva attorno a noi ci ripugnava, e anche se qualche volta ci lasciavamo coinvolgere nelle discussioni cercavamo soprattutto di evitarle. Dialogare con lo Stato significava accettare le regole del suo gioco, e questo ci disgustava profondamente. I valori che ci venivano proposti erano ridicoli: sembravano così assurdi e improbabili che era inutile perderci tempo ed energie.
"Avresti potuto essere un eroe, se solo ci fosse stata una causa", canta Viktor Coj in "Podrostok" ("Adolescente"). I testi delle sue prime canzoni sono semplici, non politicizzati, spesso parlano di solitudine ed esprimono un vago senso di ribellione. Lui e i suoi amici non combattono lo Stato sovietico: meglio li definisce il concetto di vnutrennaja emigracija, emigrazione interna, lo stare contemporaneamente fuori e dentro il sistema e tutta l'ambivalenza che deriva da questa condizione oscillante.
Avrebbero potuto essere eroi.
Invece trovano la felicità nel rock'n'roll.

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