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sabato, aprile 10, 2010

In una luce bianca

Villaggio del Kuzbass
di Vadim Mesjac


a mio padre
In una luce bianca, lontano lontano
alla festa dei fiori nella cittadina mineraria,
dove gli uccelli fanno amicizia con l'acetosa amara
piange nel vaso di miele la signora
e il puledro pezzato si scalda al sole,
ci hanno baciati e poi dimenticati,

e noi giochiamo con le bambole per terra,
è così caldo – e presto farà un caldo
muto come le lacrime di una madre.
Alla stazione un'armonica s'impunta,
brilla una scarpa accanto alla stampella,
avide e nere sbuffano le locomotive.

È stato tanto tempo fa, e come se non ci toccasse.
Mio dolce, mite giorno – tempo felice,
siamo ancora qui ad attendere ora la felicità, ora il traghetto,
e si piange, e si crede a malapena,
e non ci sono semplicità né furto.
C'è stata una guerra. E noi siamo rimasti a casa.

"Кузбасский поселок", Цыганский хлеб, 2009

Traduzione: Manuela Vittorelli.



Vadim Gennadievič Mesjac, poeta e prosatore, è nato nel 1964 a Tomsk, in Siberia. Figlio del celebre fisico A. M. Mesjac, ha preso a sua volta il dottorato in fisica prima di presiedere la cattedra di Letteratura Moderna all'Accademia russa delle Scienze. Dal 1993 vive negli Stati Uniti. Ha fondato e dirige la casa editrice Russian Gulliver.

[Grazie, Sten, per la benzina.]

giovedì, aprile 08, 2010

Alla sinistra del cuore

La grande rabbia
di Roque Dalton

Paese mio non esisti
Sei solo una mia brutta proiezione
una parola del nemico a cui ho creduto

Prima ti pensavo soltanto molto piccolo
e incapace di avere
entrambi, Nord e Sud
ma adesso so che non esisti
pare che tu non serva a nessuno
e non si sente una sola madre parlare di te

Me ne rallegro
perché dimostra che mi sono inventato un paese
anche se significa che sono pronto per il manicomio

Sono dunque un piccolo dio a tue spese

(Voglio dire: se io sono ex-patriato
tu allora sei ex-patria)

"El gran despecho", Taberna y otros lugares, 1969

Traduzione: Manuela Vittorelli.


Roque Dalton nasce il 14 maggio 1935 a San Salvador, El Salvador. Studia prima dai Gesuiti e poi diritto e antropologia alle Università di El Salvador, Cile e Messico. Si dedica presto al giornalismo, alla letteratura e alla militanza politica. Dopo essere avventurosamente scampato alla fucilazione per ben due volte, finisce assassinato dai suoi stessi compagni dell'Ejército Revolucionario del Pueblo il 10 maggio 1975 perché ingiustamente sospettato di essere un uomo della CIA e per difformità ideologica.
I suoi resti non furono più ritrovati. Aveva scritto: "Los elegidos de los dioses seguimos estando a la izquierda del corazón: debidamente condenados como herejes", "Noi eletti dagli dei continuiamo a stare alla sinistra del cuore: debitamente condannati come eretici".

[Grazie, Sten, per le cartoline dal Sud.]

giovedì, aprile 01, 2010

Elegia di marzo

Elegia di marzo
di Anna Achmatova

I tesori degli anni passati
mi resteranno a lungo, mio malgrado.
Quanto me sai che la memoria feroce
Non ne lascerà andare neanche la metà:
Una piccola cupola sbilenca,
Il gracchiare delle cornacchie, l'urlo della locomotiva,
E come appena uscita di prigione
Una betulla che arranca sul campo,
Un segreto conclave notturno
Di enormi querce bibliche,
E una barchetta a remi emersa dai sogni di qualcuno,
semiaffondata.
L'inverno ha già indugiato qui
imbiancando appena questi campi
Gettando una nebbia impenetrabile
che copre il mondo fino all'orizzonte.
E sembrava che dopo la fine
non sarebbe rimasto più nulla.
Ma chi cammina nuovamente nel portico
e ci chiama per nome?
Chi preme la faccia sul vetro ghiacciato
E agita la mano come un ramo?
Per risposta, in un angolo polveroso
Un lampo di sole danza nello specchio.

1960

Originale: Мартовская элегия


Traduzione: Manuela Vittorelli.


[Sten, grazie per il finestrino.]

martedì, marzo 16, 2010

sabato, marzo 13, 2010

Una passeggiata per la letteratura

Una passeggiata per la letteratura

di Roberto Bolaño

per Rodrigo Pinto e Andrés Neuman


1. Ho sognato che Georges Perec aveva tre anni e veniva a trovarmi. Lo abbracciavo, lo baciavo, gli dicevo che era un bambino molto bello.

2. Siamo rimasti a metà, padre, né cotti né crudi, persi nella grandezza di questa discarica interminabile, a sbagliare ed equivocare, a uccidere e chiedere perdono, maniaci depressivi nel tuo sogno, padre, il tuo sogno che non aveva limiti e che abbiamo sviscerato mille volte e poi mille volte ancora, come detective latinoamericani persi in un labirinto di vetro e di fango, a vagare sotto la luna, a vedere film in cui apparivano vecchi che urlavano tornado! tornado!, a guardare le cose per l'ultima volta, ma senza vederle, come fantasmi, come rane sul fondo di un pozzo, padre, persi nella miseria del tuo sogno utopistico, persi nella varietà delle tue voci e dei tuoi abissi, maniaci depressivi nella grande sala dell'Inferno in cui si cucina il tuo Umorismo.

3. A metà, né crudi né cotti, bipolari capaci di cavalcare l'uragano.

4. In queste desolazioni, padre, dove della tua risata rimanevano solo resti archeologici.

5. Noi, i nec spes nec metus.

6. E qualcuno ha detto:

Sorella della nostra memoria feroce,
del valore è meglio non parlare.
Chi ha saputo vincere la paura
è diventato coraggioso per sempre.
Balliamo, poi, mentre passa la notte
come una gigantesca scatola di scarpe
sopra la scogliera e la terrazza,
in una piega della realtà, del possibile,
dove la gentilezza non è un'eccezione.
Balliamo nel riflesso incerto
dei detective latinoamericani,
una pozzanghera d'acqua piovana che riflette le nostre facce
ogni dieci anni.

Poi è arrivato il sonno.

7. Ho poi sognato che visitavo la casa di Alonso de Ercilla. Io avevo sessant'anni ed ero tormentato dalla malattia (cadevo letteralmente a pezzi). Ercilla ne aveva una novantina e agonizzava su un enorme letto con baldacchino. Il vecchio mi guardava con disprezzo e poi mi chiedeva un bicchiere di acquavite. Io cercavo e cercavo l'acquavite ma trovavo solo finimenti.

8. Ho sognato che camminavo sul lungomare di New York e che vedevo in lontananza la figura di Manuel Puig. Portava una camicia celeste e dei pantaloni di tela leggera, azzurro chiaro o azzurro scuro, dipende.

9. Ho sognato che Macedonio Fernández appariva nel cielo di New York in forma di nuvola: una nuvola senza naso né orecchie, ma con gli occhi e la bocca.

10. Ho sognato che stavo su una strada africana che presto si trasformava in una strada messicana. Seduto su uno scoglio, Efraín Huerta giocava a dadi con i poeti mendicanti del DF.

11. Ho sognato che in un cimitero dimenticato dell'Africa trovavo la tomba di un amico di cui non riuscivo più a ricordare la faccia.

12. Ho sognato che una sera bussavano alla mia porta. Stava nevicando. Io non avevo né stufa né soldi. Credo che stessero anche per tagliarmi la luce. E chi c'era, dietro la porta? Enrique Lihn con una bottiglia di vino, un pacchetto di cibo e un assegno dell'Università Sconosciuta.

13. Ho sognato che leggevo Stendhal nella Stazione Nucleare di Civitavecchia: sulla ceramica dei reattori scivolava un'ombra. È il fantasma di Stendhal, diceva un giovane con gli stivali nudo dalla cintola in su. E tu chi sei?, gli ho chiesto. Sono il tossico della ceramica, l'ussaro della ceramica e della merda, ha detto.

14. Ho sognato che stavo sognando, avevamo perso la rivoluzione prima ancora di farla e avevamo deciso di tornare a casa. Mentre cercavo di mettermi a letto trovavo De Quincey addormentato. Svegliati, don Tomás, gli dicevo, già albeggia, deve andarsene. (Come se De Quincey fosse stato un vampiro.) Però nessuno mi ascoltava e uscivo nuovamente nelle strade buie di Città del Messico.

15. Ho sognato che vedevo nascere e morire Aloysius Bertrand nello stesso giorno, quasi senza una pausa, come se entrambi vivessimo in un calendario di pietra perduto nello spazio.

16. Ho sognato che ero un detective vecchio e malato. Così malato che cadevo letteralmente a pezzi. Seguivo le tracce di Gui Rosey. Camminavo per i quartieri di un porto che poteva essere Marsiglia oppure no. Un vecchio cinese affabile mi portava infine in uno scantinato. Questo è ciò che resta di Rosey, diceva. Un mucchietto di cenere. Così com'è potrebbe essere Li Po, rispondevo.

17. Ho sognato che ero un detective vecchio e malato e che cercavo gente scomparsa da tempo. A volte mi guardavo casualmente in uno specchio e riconoscevo Roberto Bolaño.

18. Ho sognato che Archibald McLeish piangeva — solo tre lacrime — sulla terrazza di un ristorante di Cape Cod. Era passata la mezzanotte e nonostante non sapessi come tornare finivamo a bere e a brindare per il Nuovo Mondo Coraggioso.

19. Ho sognato i Morti e le Spiagge Dimenticate.

20. Ho sognato che il cadavere tornava alla Terra Promessa cavalcando una Legione di Tori Meccanici.

21. Ho sognato che avevo quattordici anni e che ero l'ultimo essere umano dell'Emisfero Sud che leggeva i fratelli Goncourt.

22. Ho sognato che incontravo Gabriela Mistral in un villaggio africano. Era un po' dimagrita e aveva preso l'abitudine di dormire seduta in terra con la testa appoggiata sulle ginocchia. Perfino le zanzare sembravano conoscerla.

23. Ho sognato che tornavo dall'Africa su un autobus pieno di animali morti. A una frontiera qualsiasi appariva un veterinario senza volto. La sua faccia era come un gas, però io sapevo chi era.

24. Ho sognato che Philip K. Dick passeggiava per la Stazione Nucleare di Civitavecchia.

25. Ho sognato che Archiloco attraversava un deserto di ossa umane. Si faceva coraggio da solo: «Su, Archiloco, non perderti d'animo, dai, dai.»

26. Ho sognato che avevo quindici anni e che andavo a casa di Nicanor Parra per dirgli addio. Lo trovavo in piedi, appoggiato a un muro nero: Dove vai, Bolaño?, ha detto. Lontano dall'Emisfero Sud, gli ho risposto.

27. Ho sognato che avevo quindici anni e che in effetti me ne andavo dall'Emisfero Sud. Mentre mettevo nello zaino il mio unico libro (Trilce, di Vallejo), questo prendeva fuoco. Erano le sette della sera e gettavo dalla finestra il mio zaino bruciacchiato.

28. Ho sognato che avevo sedici anni e che Martín Adán mi dava lezioni di pianoforte. Le dita del vecchio, lunghe come quelle di Mr. Fantastic, l'Uomo di Gomma, sprofondavano nel pavimento e tasteggiavano su una catena di vulcani sotterranei.

29. Ho sognato che traducevo Virgilio con una pietra. Ero nudo su una grande lastra di basalto e il sole, come dicono i piloti di caccia, fluttuava pericolosamente a ore 5.

30. Ho sognato che stavo morendo in un cortile africano e che un poeta di nome Paulin Joachim mi parlava in francese (capivo solo frammenti come «il conforto», «il tempo», «gli anni che verranno») mentre una scimmia impiccata dondolava dal ramo di un albero.

31. Ho sognato che c'era la fine del mondo. E che l'unico essere umano che contemplava la fine era Franz Kafka. Nel cielo i Titani lottavano a morte. Da una sedia di ferro battuto del parco di New York Kafka vedeva il mondo bruciare.

32. Ho sognato che stavo sognando e che rincasavo troppo tardi. Nel mio letto trovavo Mario de Sá-Carneiro che dormiva con il mio primo amore. Alzando le coperte mi accorgevo che erano morti e mordendomi le labbra fino a farle sanguinare tornavo sulle strade di campagna.

33. Ho sognato che Anacreonte costruiva il suo castello sulla cima di una collina spoglia e poi lo distruggeva.

34. Ho sognato che ero un detective latinoamericano molto vecchio. Vivevo a New York e Mark Twain mi assoldava per salvare la vita a una persona senza volto. Sarà un caso maledettamente difficile, signor Twain, dicevo.

35. Ho sognato che mi innamoravo di Alice Sheldon. Lei non mi amava. Così io tentavo di farmi uccidere in tre continenti. Passavano gli anni. Alla fine, quando ero molto vecchio, lei appariva all'altro capo del lungomare di New York e a gesti (come quelli che si fanno sulle portaerei per guidare i piloti all'atterraggio) mi diceva che mi aveva sempre amato.

36. Ho sognato che facevo un 69 con Anais Nin sopra un'enorme lastra di basalto.

37. Ho sognato che scopavo con Carson McCullers in una camera in penombra nella primavera del 1981. E ci sentivamo entrambi irrazionalmente felici.

38. Ho sognato che tornavo al mio vecchio Liceo e che Alphonse Daudet era il mio professore di francese. Qualcosa di impercettibile ci indicava che stavamo sognando. Daudet guardava tutto il tempo fuori dalla finestra e fumava la pipa di Tartarino.

39. Ho sognato che mi addormentavo mentre i miei compagni di Liceo tentavano di liberare Robert Desnos dal campo di concentramento di Terezin. Quando mi svegliavo una voce mi ordinava di muovermi. Rapido, Bolaño, rapido, non c'è tempo da perdere. Uscendo incontravo solo un vecchio detective che scavava tra le macerie fumanti dell'assalto.

40. Ho sognato che una tempesta di numeri fantasma era tutto ciò che restava degli esseri umani tremila milioni di anni dopo che la Terra aveva cessato di esistere.

41. Ho sognato che stavo sognando e che nei tunnel dei sogni incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.

42. Ho sognato che avevo diciotto anni e che vedevo il mio amico di allora, diciottenne anche lui, fare l'amore con Walt Whitman. Lo facevano su una poltrona, guardando il tramonto burrascoso di Civitavecchia.

43. Ho sognato che ero in prigione e che Boezio era mio compagno di cella. Guarda, Bolaño, diceva allungando la mano e la penna nella semioscurità: non tremano!, non tremano! (Dopo un po' aggiungeva con voce tranquilla: però tremeranno riconoscendo quel cornuto di Teodorico.)

44. Ho sognato che traducevo il Marchese de Sade a colpi d'ascia. Ero impazzito e vivevo in un bosco.

45. Ho sognato che Pascal parlava della paura con parole cristalline in un'osteria di Civitavecchia: «I miracoli non servono per convertire, ma per condannare», diceva.

46. Ho sognato che ero un vecchio detective latinoamericano e che una Fondazione misteriosa mi incaricava di trovare i certificati di morte dei Sudamericani Volanti. Giravo il mondo: ospedali, campi di battaglia, pulquerías, scuole abbandonate.

47. Ho sognato che Baudelaire faceva l'amore con un'ombra in una camera in cui era stato commesso un crimine. Ma a Baudelaire non importava. È sempre la stessa cosa, diceva.

48. Ho sognato che un'adolescente di sedici anni entrava nel tunnel dei sogni e ci svegliava con due tipi di bastone. La ragazzina viveva in un manicomio e diventava a poco a poco sempre più pazza.

49. Ho sognato che nelle diligenze che entravano e uscivano da Civitavecchia vedevo il volto di Marcel Schwob. La visione era fugace. Un volto quasi trasparente, con gli occhi stanchi, impregnato di felicità e di dolore.

50. Ho sognato che dopo la tempesta uno scrittore russo e i suoi amici francesi sceglievano la felicità. Senza chiedere né pretendere nulla. Come chi si abbatte privo di sensi sul suo tappeto preferito.

51. Ho sognato che i sognatori erano andati a combattere nella guerra fiorita. Nessuno aveva fatto ritorno. Sui tabelloni di caserme dimenticate sui monti riuscivo a leggere alcuni nomi. Da un luogo remoto una voce trasmetteva ripetutamente gli ordini in base ai quali erano stati condannati.

52. Ho sognato che il vento muoveva l'insegna logora di un'osteria. All'interno James Mathew Barrie giocava a dadi con cinque uomini minacciosi.

53. Ho sognato che mi rimettevo in viaggio sulle strade, però questa volta non avevo quindici anni ma più di quaranta. Possedevo solo un libro, che tenevo nel mio zainetto. All'improvviso, mentre stavo camminando, il libro si incendiava. Albeggiava, e non passava quasi nessuna macchina. Mentre gettavo in un fosso lo zaino bruciacchiato ho sentito che la spalla mi pizzicava come se avesse le ali.

54. Ho sognato che le strade dell'Africa erano piene di gambusinos, bandeirantes, sommisti.

55. Ho sognato che nessuno muore la vigilia.

56. Ho sognato che un uomo si voltava a guardare il paesaggio anamorfico dei sogni, e che il suo sguardo era duro come l'acciaio ma si frammentava anche in sguardi multipli sempre più innocenti, sempre più indifesi.

57. Ho sognato che Georges Perec aveva tre anni e piangeva sconsolato. Io cercavo di calmarlo. Lo prendevo in braccio, gli compravo ghiottonerie, libri da colorare. Poi andavamo sul lungomare di New York e mentre lui giocava sullo scivolo io mi dicevo: non servo a niente, ma il mio unico scopo sarà prendermi cura di te, nessuno ti farà del male, nessuno cercherà di ucciderti. Poi si metteva a piovere e tornavamo tranquillamente a casa. Ma dov'era la nostra casa?


Blanes, 1994

Originale: "Un paseo por la literatura", Tres, 2000.

Traduzione: Manuela Vittorelli.

sabato, marzo 06, 2010

La stupidità non è il nostro forte

Nel 1975 il giovane poeta messicano Mario Santiago Papasquiaro conosce il cileno Roberto Bolaño. L'incontro avviene al caffè La Habana, che diventerà poi il ritrovo degli infrarealisti. Lì Mario Santiago consegna a Bolaño un fascio di poesie che il cileno leggerà fino all'alba. È l'inizio di una stretta amicizia che andrà oltre la morte di Papasquiaro nel 1998 e che è in parte anche l'origine e il nucleo del movimento infrarealista.

Una mattina del 1975, all'alba, Mario Santiago porta uno dei suoi compagni del seminario di poesia dell'UNAM, Ramón Méndez, a conoscere Roberto Bolaño. Durante questo incontro nasce l'impulso di creare un nuovo movimento poetico. Così Ramón Méndez ricorda quel giorno: “Quando Santiago e io lasciammo la casa di Bolaño lo avevamo convinto della nostra sovversione vitale contro l'ufficialità della cultura, e lui ci aveva paragonato ai beatniks: “Tu sei Ginsberg – aveva detto a Santiago – e questo è Corso: i beatniks del Messico”.

Tra la fine del 1975 e gli inizi del 1976 irrompe nel panorama culturale messicano il movimento infrarealista. Il vagabondare, l'alcol e una passione incorruttibile per la poesia sono i principi fondamentali che danno coesione a questo gruppo di giovani che cercarono in ogni gesto e in ogni verso un nuovo modo di spiegare il mondo e di esprimerlo in una poesia lontana dalla burocrazia, dagli spazi del potere e da anchilosate legittimazioni.

Andrea Cobas Carral, "La estupidez no es nuestro fuerte". Tres manifiestos del infrarrealismo mexicano .

Come sognare l'utopia e svegliarsi urlando, ancora una volta.
Il fondamentale saggio di Andrea Cobas Carral sulle linee guida dell'infrarealismo e le avanguardie latinoamericane degli anni Settanta è tradotto integralmente su 2.0 a questo indirizzo.

[Un grazie a Carmelo di archiviobolano.it per i suggerimenti preziosi e puntuali, l'entusiasmo e l'instancabile lavoro di ricerca e a tutti i bolañani che leggono e condividono appassionatamente questi materiali.]

sabato, febbraio 27, 2010

Mollate tutto, di nuovo

"Mai troppo tempo in uno stesso posto, come i guerriglieri, come gli ufo, come gli occhi bianchi degli ergastolani."

Roberto Bolaño, Primo manifesto infrarealista, 1976.

Ho fatto un primo imperfetto tentativo di traduzione di "Déjenlo todo, nuevamente": sta su mirumir 2.0 a questo indirizzo.

domenica, gennaio 31, 2010

Godzilla in Messico

Godzilla in Messico

di Roberto Bolaño

Ascolta, figlio mio: cadevano le bombe
su Città del Messico
ma nessuno se ne accorgeva.
L'aria portò il veleno attraverso
le vie e le finestre aperte.
Tu avevi appena finito di mangiare e guardavi
i cartoni alla TV.
Io leggevo nella camera accanto
quando mi resi conto che saremmo morti.
Malgrado le vertigini e la nausea mi trascinai
in cucina e ti trovai sul pavimento.
Ci abbracciammo. Tu mi chiedesti cosa succedeva
e io non ti dissi che stavamo nel programma della morte
ma che saremmo partiti per un viaggio,
ancora uno, insieme, e di non aver paura.
Quando se ne andò, la morte
neanche ci chiuse gli occhi.
Cosa siamo? mi domandasti una settimana o un anno dopo,
formiche, api, numeri sbagliati
nella grande zuppa marcia del caso?
Siamo esseri umani, figlio mio, quasi uccelli,
eroi pubblici e segreti.

"Godzila en México", Los perros romanticos, Lumen 2000.

Traduzione: Manuela Vittorelli.

venerdì, gennaio 08, 2010

Bolaño in Messico

Nel suo Manifesto infrarealista Bolaño scriveva:

I borghesi e i piccoli borghesi passano da una festa all'altra. Ce n'è una ogni fine settimana. Il proletariato non ha feste. Solo funerali con ritmo. Le cose cambieranno. Gli sfruttati faranno una gran festa. Memoria e ghigliottine.

Bolaño aveva ragione, letteralmente, a proposito delle feste (ma fortunatamente la profezia giacobina non si realizzò). Il mondo letterario era piccolo e coeso, e noi passavamo davvero da una festa all'altra, se si contano tutti i reading, le conferenze, le inaugurazioni e gli incontri nei caffè. Ci vedevamo sempre. Ricorderò cinque di queste feste, svoltesi tra il 1973 e il 1976.
Carmen Boullosa, "Bolaño in Mexico", The Nation, 23 aprile 2007.

Il clima letterario di Città del Messico alla metà anni Settanta, le feste, la guerra tra pooeti octaviani ed efrainiti e le incursioni degli Infrarealisti nei ricordi della scrittrice Carmen Boullosa, amica di Roberto Bolaño. La traduzione integrale è qui.

sabato, gennaio 02, 2010

Stella distante. L'ultima intervista di Roberto Bolaño

[Come promesso. Buon anno, m.]

L'ultima intervista di Roberto Bolaño

Stella distante

di Mónica Maristain

Sabato 19 luglio 2003

Martedì scorso è morto a cinquant'anni lo scrittore e poeta cileno Roberto Bolaño. Per molti era il migliore scrittore latinoamericano dei nostri tempi. Autore di culto per buona parte della sua vita, a partire dal Premio Rómulo Gallegos al romanzo I detective selvaggi nel 1998 la sua opera si è trasformata in oggetto di devozione per più di una generazione. Negli ultimi tempi, oltre agli elogi entusiastici ricevuti da giornali come “Libération” e “Le Monde” e da personalità come Susan Sontag, alcuni hanno perfino fantasticato di vederlo premiato con il Nobel. Nella settimana della sua morte, la giornalista Mónica Maristain ha pubblicato per l'edizione messicana di Playboy questa lunga intervista nella quale Bolaño parla di tutto: della letteratura, degli anni passati in povertà, della sua fiducia nei lettori, della grammatica dei disperati, del paradiso immaginario e dell'inferno tanto temuto.

Nel confuso panorama della letteratura in lingua spagnola, dove ogni giorno che passa appaiono nuovi scrittori più preoccupati di vincere borse di studio e incarichi nei Consolati che di contribuire in qualche modo alla creazione artistica, spicca la figura di un uomo magro, zaino blu in spalla, occhiali dalla montatura enorme, eterna sigaretta tra le dita, sottile ironia a bruciapelo sempre pronta in caso di necessità.
Roberto Bolaño, nato in Cile nel 1953, è quanto di meglio sia accaduto al mestiere di scrivere da molto tempo. Da quando il suo monumentale I detective selvaggi, forse il grande romanzo messicano contemporaneo, è diventato famoso e ha ricevuto i premi Herralde (1998) e Rómulo Gallegos (1999), la sua influenza e la sua figura sono andati crescendo: tutto quello che dice con il suo umorismo tagliente e la sua raffinata intelligenza, tutto quello che scrive con la sua abile penna, di grande audacia poetica e profonda complessità creativa, è degno dell'attenzione di coloro che lo ammirano e, naturalmente, di quelli che lo detestano. L'autore appare come personaggio nel romanzo Soldati di Salamina di Javier Cercas e viene omaggiato nell'ultimo romanzo di Jorge Volpi, El fin de la locura. Come tutti gli uomini di genio fa discutere, genera acerrime antipatie malgrado il suo carattere affettuoso, la voce tra l'acuto e l'aspro con cui risponde – con cortesia da bravo cileno – che non scriverà un racconto per la rivista perché il suo prossimo romanzo, che tratterà degli omicidi di donne a Ciudad Juárez, pur essendo arrivato già a 900 pagine non è ancora finito. Roberto Bolaño vive a Blanes, in Spagna, ed è molto malato. Spera che un trapianto di fegato gli permetterà di vivere con l'intensità celebrata da chi ha avuto la fortuna di conoscerlo in privato. I suoi amici dicono che a volte si dimentica di andare alle visite mediche per continuare a scrivere. A 50 anni, quest'uomo che ha girato l'America Latina in sacco a pelo ed è sfuggito alle fauci del regime di Pinochet perché uno dei suoi carcerieri era stato suo compagno di scuola, che ha vissuto in Messico (e forse un giorno un tratto della calle Bucareli prenderà il suo nome), che conobbe i militanti del Farabundo Martí che sarebbero poi diventati gli assassini del poeta Roque Dalton a El Salvador, che fece il guardiano in un campeggio catalano, il venditore di bigiotteria in Europa e fu ladro di buoni libri perché leggere non è solo un problema di atteggiamento, quest'uomo, possiamo dirlo, ha cambiato il corso della letteratura latinoamericana. E l'ha fatto senza avvertire né chiedere il permesso, come avrebbe fatto Juan García Madero, l'antieroe adolescente dei gloriosi Detective selvaggi: “sono al primo semestre di giurisprudenza. Io non volevo studiare giurisprudenza, bensì lettere, però mio zio insisteva e alla fine ho dovuto cedere. Sono orfano. Diventerò avvocato. Fu questo che dissi a mio zio e a mia zia e poi mi chiusi in camera e piansi tutta la notte”. Il resto si trova nelle restanti 608 pagine di un romanzo la cui importanza è stata paragonata dai critici a Il gioco del mondo di Julio Cortázar e persino a Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Di fronte a una simile iperbole, lui direbbe: non esiste. Meglio allora passare a quello che conta in questo momento: l'intervista.


L'essere nato dislessico ha avuto una qualche importanza nella sua vita?
Nessuno. Problemi quando giocavo a calcio, sono mancino. Problemi quando mi masturbavo, sono mancino. Problemi quando scrivevo, sono destro. Come vedi, nessun problema importante.

Enrique Vila-Matas è ancora suo amico dopo la lite con gli organizzatori del Premio Rómulo Gallegos?

La mia lite con la giuria e gli organizzatori era dovuta principalmente al fatto che pretendevano che avallassi, da Blanes e alla cieca, una selezione alla quale non avevo partecipato. I loro metodi, che una pseudo-poetessa chavista mi comunicò al telefono, sembravano troppo simili alle argomentazioni dissuasive della Casa de las Américas di Cuba. Per esempio, mi sembrava che fosse un errore enorme eliminare subito Daniel Sada o Jorge Volpi. Dissero che quello che volevo era viaggiare con mia moglie e i miei figli, cosa completamente falsa. Dalla mia indignazione per questa menzogna ebbe origine la lettera in cui li chiamavo neostalinisti e altre cose, temo. Di fatto, fui informato che fin dall'inizio volevano premiare un altro autore, che non era Vila- Matas, il cui romanzo mi pare buono e che era certamente uno dei miei candidati.

Perché nel suo studio non c'è l'aria condizionata?
Perché il mio motto non è “Et in Arcadia ego”, ma “Et in Esparta ego”.

Non pensa che se si fosse ubriacato con Isabel Allende e Ángeles Mastretta valuterebbe diversamente i loro libri?
Non lo penso. Primo, perché queste signore evitano di bere con uno come me. Secondo, perché io non bevo più. Terzo, perché neanche nelle peggiori sbronze ho mai perso una sia pur minima lucidità, un senso della prosodia e del ritmo, un certo rifiuto davanti al plagio, alla mediocrità o al silenzio.

Qual è la differenza tra una scribacchina e una scrittrice? Una scrittrice è Silvina Ocampo.
Una scribacchina è Marcela Serrano. Gli anni luce che le separano.

Cosa le ha fatto credere di essere migliore come poeta che come narratore?
Il mio grado di rossore quando, per puro caso, apro un mio libro di poesia o uno di prosa. Quello di poesia mi fa arrossire di meno.

Lei è cileno, spagnolo o messicano?
Sono latinoamericano.

Cos'è per lei la patria?
Mi spiace darti una risposta molto pacchiana. La mia unica patria sono i miei due figli, Lautaro e Alexandra. E forse, ma secondariamente, certi istanti, certe vie, certi visi o scene o libri che stanno dentro di me e che un giorno dimenticherò, che è la cosa migliore che si possa fare con la patria.

Cos'è la letteratura cilena?
Probabilmente gli incubi del più risentito e grigio e forse più codardo dei poeti cileni: Carlos Pezoa Véliz, morto all'inizio del XX secolo, autore di due sole poesie memorabili, ma – questo sì – veramente memorabili, e che continua a sognarci e a patire. È possibile che Pezoa Véliz non sia mai morto, magari sta agonizzando e il suo ultimo minuto è abbastanza lungo, no?, da contenerci tutti. O almeno da contenere tutti noi cileni.

Perché vuole sempre fare il bastian contrario?
Non faccio mai il bastian contrario.

Ha più amici che nemici?
Ho abbastanza amici e nemici, tutti gratuiti.

Chi sono i suoi amici più cari?
Il mio migliore amico era il poeta Mario Santiago, morto nel 1998. Attualmente tre dei miei migliori amici sono Ignacio Echevarría e Rodrigo Fresán e A. G. Porta.

Antonio Skármeta l'ha mai invitata al suo programma?
Una volta mi ha telefonato una sua segretaria, forse la sua amante. Le ho detto che ero troppo occupato.

Javier Cercas ha spartito con lei i premi vinti da Soldati di Salamina?
No, naturalmente.

Enrique Lihn, Jorge Teillier o Nicanor Parra?
Nicanor Parra su tutti, compresi Pablo Neruda e Vicente Huidobro e Gabriela Mistral.

Eugenio Montale, T. S. Eliot o Xavier Villaurrutia?
Montale. Se al posto di Eliot ci fosse stato James Joyce, allora Joyce. Se al posto di Eliot ci fosse stato Ezra Pound, senza dubbio Pound.

John Lennon, Lady Di o Elvis Presley?
The Pogues. O i Suicide. O Bob Dylan. Però, dai, non facciamo i pignoli: Elvis forever. Elvis con un cappello da sceriffo che guida una Mustang e si impasticca, e con la sua voce d'oro.

Chi legge di più, lei o Rodrigo Fresán?
Dipende. L'Ovest è per Rodrigo. L'Est è per me. Poi contiamo i libri delle nostre rispettive aree e sembrerebbe che li abbiamo letti tutti.

Qual è secondo lei la poesia migliore di Pablo Neruda?
Quasi tutte quelle di Residenza sulla terra.

Cosa avrebbe detto a Gabriela Mistral se l'avesse conosciuta?
Mamma, perdonami, sono stato cattivo, però l'amore di una donna mi ha fatto diventare buono.

E a Salvador Allende?
Poco o niente. Chi ha il potere (anche se per poco tempo) non sa niente di letteratura, si interessa solo al potere. E io posso essere il pagliaccio dei miei lettori, se ne ho veramente voglia, ma mai dei potenti. Suona un po' melodrammatico. Suona come la dichiarazione di una puttana onorata. Però in fin dei conti è così.

E a Vicente Huidobro?
Huidobro mi annoia un po'. Troppo trallallì trallallà, troppo paracadutista che scende cantando come un tirolese. Sono meglio i paracadutisti che scendono avvolti nelle fiamme, o ancor più quelli a cui non si apre il paracadute.

Octavio Paz continua a essere il nemico?
Per me certamente no. Non so cosa penseranno i poeti che all'epoca, quando vivevo in Messico, scrivevano come suoi cloni. È da molto che non so niente della poesia messicana. Rileggo José Juan Tablada e Ramón López Velarde, all'occasione posso perfino recitare Suor Juana, ma non so niente di ciò che scrivono quelli che, come me, si avvicinano a cinquant'anni.

Adesso non assegnerebbe questo ruolo a Carlos Fuentes?
È da molto che non leggo niente di Carlos Fuentes.

Come la fa sentire il fatto che Arturo Pérez Reverte sia attualmente lo scrittore più letto in spagnolo?
Pérez Reverte o Isabel Allende. È lo stesso. Feuillet era l'autore francese più letto della sua epoca.

E il fatto che Arturo Pérez Reverte sia stato ammesso alla Real Academia?
La Real Academia è un covo di privilegiati. Non c'è Juan Marsé, non c'è Juan Goytisolo, non c'è Eduardo Mendoza né Javier Marías, non c'è Olvido García Valdez, non ricordo se ci sia Alvaro Pombo (se sì, probabilmente è per un equivoco), ma c'è Pérez Reverte. Be', anche Coelho è entrato nell'Accademia brasiliana.

Si pente di aver criticato il menù servitole da Diamela Eltit?
Non ho mai criticato il suo menù. Semmai ho criticato il suo umorismo, un umorismo vegetariano, o meglio dietetico.

Le dispiace che Diamela la consideri una cattiva persona dopo quella sfortunata cena?
No, povera Diamela, non mi dispiace. Sono altre le cose che mi danno dispiacere.

Ha versato qualche lacrima per le molte critiche dei suoi nemici?
Moltissime, ogni volta che leggo qualcuno parlar male di me mi metto a piangere, mi rotolo sul pavimento, mi graffio, smetto di scrivere per un periodo di tempo indefinito, mi cala l'appetito, fumo di meno, faccio sport, esco a camminare in riva al mare, che tra parentesi sta a meno di trenta metri da casa mia, e chiedo ai gabbiani, i cui antenati si mangiarono i pesci che si mangiarono Ulisse, perché io, perché io, che non ho mai fatto del male a nessuno?

Qual è per lei il parere più importante sulle sue opere?
I miei libri li leggono Carolina (mia moglie) e poi (Jorge) Herralde (editore di Anagrama) e poi cerco di dimenticarli per sempre.

Cos'ha comprato con i soldi del Premio Rómulo Gallegos?
Non molto. Una valigia, da quel che ricordo.

Al tempo in cui viveva di concorsi letterari c'è stato qualche premio che non è riuscito a incassare?
Nessuno. Gli enti locali spagnoli, sotto questo aspetto, sono di una correttezza al di sopra di ogni sospetto.

Era un bravo cameriere o era meglio come venditore di bigiotteria?
Il lavoro che ho svolto meglio è stato quello di guardiano di notte in un campeggio vicino a Barcellona. Mentre stavo lì non c'è stato nessun furto. Ho evitato delle risse che avrebbero potuto finire molto male. Ho evitato un linciaggio (anche se dopo avrei volentieri linciato o strangolato io stesso il tipo in questione).

Ha mai provato la fame feroce, il freddo che penetra nelle ossa, il caldo che lascia senza fiato?
Come dice Vittorio Gassman in un film: modestamente, sì.

Ha mai rubato un libro che poi non le è piaciuto?
Mai. Il bello del rubare libri (e non casseforti) è che si può esaminarne il contenuto con calma prima di commettere il crimine.

Ha mai camminato in mezzo al deserto?
Sì, e per giunta in un'occasione particolare, a braccetto con mia nonna. La vecchia signora era instancabile e pensai che non se saremmo usciti vivi.

Le è mai capitato di vedere pesci colorati sott'acqua?
Certo. Ad Acapulco, senza andare più indietro nel tempo, nel 1974 o nel 1975.

Si è mai bruciato la pelle con una sigaretta?
Mai volontariamente.

Ha mai inciso il nome della persona amata sul tronco di un albero?
Ho commesso eccessi anche peggiori, ma stendiamo un velo di pietoso silenzio.

Ha mai visto la donna più bella del mondo?
Sì, quando lavoravo in un negozio, sarà stato nell''84. Il negozio era vuoto, quando entrò una donna indù. Sembrava una principessa, e forse lo era. Mi comprò alcuni pendenti di bigiotteria. Io, naturalmente, ero sul punto di svenire. Aveva la pelle ramata, i capelli lunghi, rossi, e per il resto era perfetta. La bellezza atemporale. Quando dovetti incassare provai molta vergogna. Mi sorrise come per farmi intendere che lo capiva, e che non mi preoccupassi. Poi scomparve, e non mi è più capitato di vedere una donna come lei. A volte ho l'impressione che fosse proprio la dea Kali, protettrice dei ladri e degli orefici, solo che Kali era anche la divinità degli assassini, e questa indù non solo era la donna più bella della Terra ma sembrava anche una brava persona, molto dolce e assennata.

Preferisce i cani o i gatti?
Le cagne, ma adesso non possiedo animali.

Cosa ricorda della sua infanzia?
Tutto. Non ho una cattiva memoria.

Collezionava figurine?
Sì. Di calcio e di attori e attrici di Hollywood.

Aveva un monopattino?
I miei genitori commisero l'errore di regalarmi un paio di pattini quando vivevamo a Valparaíso, che è una città costruita sulle colline. Il risultato fu disastroso. Ogni volta che mi mettevo i pattini era come se volessi suicidarmi.

Qual è la sua squadra di calcio preferita?
Adesso nessuna. Quelle che sono finite in serie B e poi in serie C e in D, fino a scomparire. Le squadre fantasma.

A quali personaggi della storia universale avrebbe voluto somigliare?
A Sherlock Holmes. Al capitano Nemo. A Julien Sorel, nostro padre, al principe Miškin, nostro zio, ad Alice, nostra professoressa, a Houdini che era un misto di Alice, di Sorel e di Miškin.

Si innamorava delle vicine più grandi di lei?
Naturalmente.

Le compagne di scuola le prestavano attenzione?
Non credo. O almeno io ero convinto di no.

Cosa deve alle donne della sua vita?
Moltissimo. Il senso della sfida e della scommessa. E altre cose che taccio per decoro.

Loro le devono qualcosa?
Niente.

Ha sofferto molto per amore?
La prima volta molto, poi ho imparato a prendere le cose con maggiore ironia.

E per odio?
Benché possa suonare pretenzioso, non ho mai odiato nessuno. O almeno sono certo di essere incapace di un odio costante nel tempo. E se l'odio non ha costanza non è odio, no?

Come ha conquistato sua moglie?
Cucinandole del riso. Allora ero molto povero e la mia dieta era principalmente a base di riso, e dunque avevo imparato a cucinarlo in molti modi.

Com'è stato diventare padre per la prima volta?
Era notte, poco prima delle 24, ero solo, e dato che nell'ospedale non si poteva fumare mi feci una sigaretta dopo essermi praticamente arrampicato sul soffitto a cassettoni del quarto piano. Fortuna che dalla strada non mi vide nessuno. Solo la luna, avrebbe detto Amado Nervo. Quando rientrai un'infermiera mi disse che mio figlio era nato. Era molto grande, quasi del tutto calvo e con gli occhi aperti, come a chiedersi chi fosse quel demonio che lo teneva in braccio.

Lautaro farà lo scrittore?
Io spero solo che sia felice. Dunque è meglio che faccia qualcos'altro. Pilota di aerei, per esempio, o chirurgo plastico, o editore.

Cosa vede in lui di suo?
Per fortuna somiglia molto di più a sua madre che a me.

La preoccupano le vendite dei suoi libri?
Il minimo indispensabile.

Le capita mai di pensare ai suoi lettori?
Quasi mai.

Tra tutte le cose che le hanno detto i suoi lettori a proposito dei suoi libri, quali l'hanno commossa?
Mi commuovono i lettori e basta, quelli che hanno ancora il coraggio di leggere il Dizionario filosofico di Voltaire, che è una delle opere più piacevoli e moderne che conosco. Mi commuovono i giovani di ferro che leggono Cortázar e Parra, così come li ho letti io e come intendo continuare a leggerli. Mi commuovono i giovani che dormono con un libro sotto la testa. Un libro è il miglior cuscino che esista.

Cosa l'ha fatta arrabbiare?
A questo punto arrabbiarsi è una perdita di tempo. E purtroppo alla mia età il tempo conta.

Ha mai avuto paura dei suoi fan?
Ho avuto paura dei fan di Leopoldo María Panero, che, d'altra parte, mi sembra uno dei tre migliori poeti spagnoli viventi. A Pamplona, durante un ciclo organizzato da Jesús Ferrero, Panero doveva chiudere la rassegna e, man mano che si avvicinava il giorno della sua lettura, la città o il quartiere in cui si trovava il nostro albergo si riempì di freak che sembravano scappati da un manicomio e che, d'altro canto, sono il miglior pubblico cui possa aspirare un poeta. Il problema era che alcuni sembravano non solo dei pazzi ma anche degli assassini, e Ferrero ed io avevamo paura che qualcuno da un momento all'altro si alzasse e dicesse: ho ammazzato Leopoldo María Panero, per poi scaricare quattro pallottole nella testa del poeta e, già che c'era, riservarne una a Ferrero e una a me.

Cosa prova quando critici come Darío Osses la considerano lo scrittore americano con più avvenire?
Deve essere uno scherzo. Io sono lo scrittore latinoamericano con meno avvenire. È invece vero che sono tra quelli che hanno più passato, che dopo tutto è quello che conta.

La incuriosisce il libro critico che sta preparando la sua connazionale Patricia Espinoza?
No. Espinoza mi sembra una critica molto brava, indipendentemente da come mi tratterà nel suo libro, suppongo non molto bene, però il lavoro di Espinoza è necessario in Cile. Di fatto, la necessità di una – chiamiamola così – nuova critica comincia a farsi urgente in tutta l'America Latina.

E il libro dell'argentina Celina Mazoni?
Conosco Celina personalmente e le voglio molto bene. Le ho dedicato uno dei racconti di Puttane assassine.

Che cosa la annoia?
Il discorso vuoto della sinistra. Il discorso vuoto della destra lo do per scontato.

Che cosa la diverte?
Veder giocare mia figlia Alexandra. Far colazione in un bar in riva al mare e mangiare un cornetto leggendo il giornale. La letteratura di Borges. La letteratura di Bioy. La letteratura di Bustos Domecq. Fare l'amore.

Scrive a mano?
La poesia sì. Il resto con un vecchio computer del 1993.

Se chiude gli occhi, tra tutti i paesaggi dell'America Latina che ha conosciuto qual è il primo che le torna in mente?
Le labbra di Lisa nel 1974. Il camion di mio padre guasto in una strada nel deserto. Il padiglione dei tubercolosi di un ospedale di Cauquenes e mia madre che dice a mia sorella e a me di trattenere il respiro. Un'escursione al Popocatépetl con Lisa, Mara e Vera e qualcun altro che non ricordo, ma ricordo le labbra di Lisa, il suo sorriso straordinario.

Com'è il paradiso?
Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e di italiani. Un luogo da usare e consumare e che sa che niente dura, neanche il paradiso, e che questo in fondo non conta.

E l'inferno?
Come Ciudad Juárez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri.

Quando ha saputo di essere gravemente malato?
Nel '92.

Cosa ha cambiato del suo carattere la malattia?
Niente. Ho saputo che non ero immortale, e a 38 anni era ora che lo sapessi.

Cosa vorrebbe fare prima di morire?
Niente di speciale. Be', preferirei non morire, chiaro. Però prima o poi la distinta signora arriva, il problema è che a volte non è una signora né tanto meno è distinta, ma piuttosto, come dice Nicanor Parra in una poesia, è una puttana insaziabile che fa tremare anche i più intrepidi.

Chi le piacerebbe incontrare nell'aldilà?
Non credo nell'aldilà. Se esistesse, che sorpresa. Mi iscriverei subito ai corsi di Pascal.

Ha mai pensato di suicidarsi?
Naturalmente. In qualche occasione sono sopravvissuto proprio perché sapevo come suicidarmi se le cose fossero peggiorate.

Le è capitato di pensare che stava impazzendo?
Naturalmente, ma mi ha sempre salvato il senso dell'umorismo. Mi raccontavo storie che mi facevano ridere come un pazzo. O mi ricordavo situazioni che mi facevano rotolare dalle risate.

La pazzia, la morte e l'amore: quale di queste tre cose ha avuto di più nella sua vita?
Spero con tutto il cuore di aver avuto più amore.

Cosa la fa ridere sonoramente?
Le mie e le altrui disgrazie.

Cosa la fa piangere?
Lo stesso: le mie e le altrui disgrazie.

Le piace la musica?
Molto.

Vede la sua opera come tendono a vederla i suoi lettori e critici, prima di tutto I detective selvaggi e poi tutto il resto?
L'unico romanzo di cui non mi vergogno è Anversa, forse perché continua a essere incomprensibile. Le critiche negative che ha ricevuto sono medaglie guadagnate in combattimento, non in scaramucce a salve. Il resto della mia “opera”, be', non è male, sono romanzi divertenti, il tempo ci dirà se sono qualcosa di più. Per ora mi fanno guadagnare, vengono tradotti, mi servono per farmi degli amici molto generosi e simpatici, mi permettono di vivere, e anche abbastanza bene, di letteratura, e dunque lamentarsi sarebbe gratuito e ingrato. Ma la verità è che non do molta importanza ai miei libri. Sono molto più interessato ai libri degli altri.

Non taglierebbe alcune pagine dei Detective selvaggi?
No. Per tagliarle dovrei rileggerlo e la mia religione me lo proibisce.

Non la spaventa che qualcuno voglia fare la versione cinematografica del romanzo?
Ah, Mónica, mi spaventano altre cose. Diciamo: cose più terrificanti, infinitamente più terrificanti.

“Silva, detto l'Occhio” [1] è un omaggio a Julio Cortázar?
Assolutamente no.

Quando finì di scrivere “Silva, detto l'Occhio” non ha sentito di aver creato un racconto all'altezza, di “Casa occupata”, [2] per esempio?
Quando finii di scrivere “Silva, detto l'Occhio” smisi di piangere o qualcosa di simile. Quanto al paragone con un racconto di Cortázar, non avrei potuto chiedere di meglio, anche se “Casa occupata” non è uno dei miei preferiti.

Quali sono i cinque libri che hanno segnato la sua vita?
I miei cinque libri sono in realtà cinquemila. Nomino questi solo come punta di diamante o perversa ambasciata: Don Chisciotte di Cervantes. Moby Dick di Melville. Le Opere complete di Borges. Il gioco del mondo di Cortázar. Una banda di idioti di Kennedy Toole. Ma dovrei citare anche: Nadja di Breton. Le Lettere di Jacques Vaché. Tutto l'Ubu di Jarry. La vita istruzioni per l'uso di Perec. Il castello e Il processo di Kafka. Gli aforismi di Lichtenberg. Il Tractatus di Wittgenstein. L'invenzione di Morel di Bioy Casares. Il Satyricon di Petronio. La Storia di Roma di Tito Livio. I Pensieri di Pascal.

Va d'accordo con il suo editore?
Abbastanza. Herralde è una persona intelligente e spesso affascinante. Forse mi converrebbe di più che non fosse tanto affascinante. Il fatto è che lo conosco da otto anni, e almeno da parte mia l'amore cresce sempre di più, come dice un bolero. Anche se forse mi converrebbe non amarlo tanto.

Cosa dice di quelli che considerano I detective selvaggi il grande romanzo messicano contemporaneo?
Che lo dicono per pietà, che mi vedono decaduto o mentre svengo nei luoghi pubblici e non gli viene in mente niente di meglio di una pietosa menzogna, che del resto è la cosa più indicata in questi casi e non è nemmeno un peccato veniale.

È vero che fu Juan Villoro a convincerla a non intitolare Tormenta de mierda (“Tormenta di merda”) il suo romanzo Notturno cileno?
Villoro e Herralde.

Da chi altri accetta consigli sulla sua opera?
Non accetto i consigli di nessuno, nemmeno del mio medico. Do consigli a destra e a sinistra, ma non ne ascolto nessuno.

Com'è Blanes?
Un bel paese. O una piccola città di trentamila abitanti, abbastanza bella. Fu fondata duemila anni fa dai romani, e poi passò di qui gente di tutte le provenienze. Non è una spiaggia di ricchi, ma di proletari. Operai del Nord o dell'Est. Alcuni si fermano per sempre. La baia è bellissima.

Le manca qualcosa della sua vita in Messico?
La mia giovinezza e le camminate interminabili con Mario Santiago.

Quale scrittore messicano ammira profondamente?
Molti. Della mia generazione ammiro Sada, il cui progetto di scrittura mi pare il più audace, Villoro, Carmen Boullosa; tra i più giovani mi interessa molto quello che fanno Alvaro Enrigue e Mauricio Montiel, o Volpi e Ignacio Padilla. Continuo a leggere Sergio Pitol, che scrive sempre meglio. E Carlos Monsiváis, che, da quanto mi ha raccontato Villoro, ha soprannominato Taibo 2 o 3 (o 4) “Pol Pit”, il che mi sembra una bella trovata poetica. Pol Pit, è perfetto, no? Monsiváis continua a usare le sue unghie affilate. Mi piace molto quello che fa Sergio González Rodríguez.

Esiste un rimedio per il mondo?
Il mondo è vivo e niente di ciò che è vivo ha rimedio, e questa è la nostra sorte.

Ripone speranze? in che cosa, in chi?
Mia cara Maristain, lei mi trascina nuovamente nei pascoli della pacchianeria, che sono i miei pascoli natali. Io spero nei ragazzini. Nei ragazzini e nei guerrieri. Nei ragazzini che scopano come ragazzini e nei guerrieri che combattono come eroi. Perché? Mi rimetto alla lapide di Borges, come direbbe l'inclito Gervasio Montenegro, dell'Academia (come Pérez Reverte, pensi un po'), e non parliamone più.

Quali sentimenti le suscita la parola postumo?
Sembra il nome di un gladiatore romano. Un gladiatore invincibile. O almeno questo ama credere il povero Postumo per farsi coraggio.

Cosa pensa di quelli che pensano che vincerà il Premio Nobel?
Sono sicuro, cara Maristain, che non lo vincerò, come sono sicuro che lo vincerà invece qualche barbone della mia generazione e che non mi nominerà neanche di sfuggita nel suo discorso di Stoccolma.

Quando è stato più felice?
Sono stato felice quasi tutti i giorni della mia vita, almeno per un istante, anche nelle circostanze più avverse.

Cose le sarebbe piaciuto essere, se non fosse stato scrittore?
Mi sarebbe piaciuto essere un detective della omicidi, molto più che uno scrittore. Di questo sono assolutamente certo. Un piedipiatti della omicidi, qualcuno che può tornare solo, nottetempo, sulla scena del crimine, e non avere paura dei fantasmi. Allora sì che forse sarei impazzito, però questo, essendo un poliziotto, si risolve con un colpo in bocca.

Confessa di aver vissuto?
Be', continuo a vivere, continuo a leggere, continuo a scrivere e a guardare film, e come disse Arturo Prat ai suicidi della Esmeralda, finché vivrò questa bandiera non si ammainerà.

[1] Nella raccolta di racconti Puttane assassine, Sellerio editore, Palermo 2009.
[2] Nella raccolta di Julio Cortázar Bestiario, Einaudi, Torino 1965.

Originale: Estrella distante

Articolo originale pubblicato il 19 luglio 2003

Traduzione: Manuela Vittorelli

domenica, dicembre 27, 2009

Questa poesia

Questa poesia è stata scritta dall'autore di notte.
È la ventitremilioninovecentocinquantatremilacentoottantaseiesima poesia dopo Auschwitz (calcolo approssimativo).
Esprime sentimenti come la nostalgia per la madrepatria, l'amore per le persone amate e l'amicizia tra amici.
Tutto questo è espresso con le parole.

Originale: "Это стихотворение…"


Poeta e filologo, Michail Gronas (Taškent, 1970) si è laureato all'Università di Stato moscovita. Attualmente vive negli Stati Uniti, dove insegna al Trinity College di Hartford. Ha tradotto versi e testi scientifici dal tedesco (Celan, Trakl) e dal francese (Pierre Bourdieu). Nel 2002 ha vinto il Premio Andrej Belyj.

Traduzione: Manuela Vittorelli.

[Grazie a Sten per il pettirosso.]

sabato, dicembre 19, 2009

Ancora uno, l'ultimo testo in versi

ancora uno, l'ultimo testo in versi,
diciannovesimo tra i più recenti. In fila
si allontanano da me in una prospettiva vacua: zitti,
attendono pazienti l'uno accanto all'altro,
esangui, deboli, accigliati profughi bambini
in coda allo sportello: ecco che si apre, e l'Esercito della Salvezza notturno
comincia nel mezzo dell'abisso
a distribuire pane e lacrime.

quello sportello dà sull'altro lato: laggiù,
oltre le distorsioni della nebbia, c'è la patria presunta.
quando sento un suono, lo schiocco di una corda che si spezza nel mio cuore,
allora so: là, a casa,
un altro lettore e amico, che si fidava,
mi ha dimenticato per sempre. e poi ancora un altro.
e un altro ancora.

Originale: "Еще один, последний стихотворный текст", Снятие Змия со креста, 2003.

Sergej Gennad'evič Kruglov, nato nel 1966 a Minusinsk, nella regione di Krasnojarsk, ha studiato giornalismo a Krasnojarsk e ha poi lavorato come reporter nel giornale locale Vlast' Trudu. Scrive poesie dal 1993. Nel 1999 è stato ordinato sacerdote della Chiesa ortodossa russa. Vive in Siberia. È sposato e ha tre figli. Nel 2008 ha ricevuto il premio Andrej Belyj. Ha un blog: http://kruglov-s-g.livejournal.com/ (rus)
Traduzione di Manuela Vittorelli.

giovedì, dicembre 17, 2009

Solo tra i fantasmi: 2666 di Roberto Bolaño/traduzione


Poco prima di morire per insufficienza epatica nel luglio del 2003, Roberto Bolaño disse che avrebbe preferito il mestiere del detective a quello dello scrittore. Aveva 50 anni, ed era già ampiamente considerato il più importante romanziere latinoamericano dopo Gabriel García Márquez. Ma nell'intervista pubblicata dall'edizione messicana di “Playboy” Bolaño fu esplicito. “Mi sarebbe piaciuto essere un investigatore della omicidi, molto più che uno scrittore” disse alla rivista. “Di questo sono assolutamente sicuro. Una serie di omicidi. Qualcuno che possa tornare, nottetempo, sulla scena del delitto, e non avere paura dei fantasmi.”

I polizieschi e le uscite provocatorie erano due passioni di Bolaño – una volta definì James Ellroy uno dei migliori scrittori viventi in lingua inglese – ma il suo interesse per le storie di piedipiatti non si limitava esclusivamente alla trama e allo stile. I racconti polizieschi sono essenzialmente indagini sui moventi e i meccanismi della violenza, e Bolaño – che era andato a vivere in Messico nel 1968, l'anno del massacro di Tlatelolco, ed era finito in carcere durante il golpe militare del 1973 nel suo paese, il Cile – era ossessionato anche da questo. Il grande tema della sua opera è il rapporto tra arte e infamia, mestiere e crimine, scrittore e Stato totalitario.

Marcela Valdes, “Alone Among the Ghosts: Roberto Bolano's '2666'”, The Nation, 8 dicembre 2008.

L'avete poi letto, Bolaño?
La traduzione dell'articolo di Valdes in ogni caso è qui in formato .pdf oppure su mirumir 2.0.

Sten non vuole essere ringraziato né citato. Dice che non è responsabile della revisione e dei riscontri sui testi, e tanto meno dei preziosi chiarimenti su Auxilio Lacouture o su quello che succede da pagina 299 a pagina 360 di 2666. Va bene. Grazie, zombi.

sabato, dicembre 12, 2009

Un giorno Iosif Brodskij

Un giorno Iosif Brodskij

di Sergej Kruglov

Un giorno Iosif Brodskij,
impronta culturale di un'epoca, sua coscienza stanca
ma anche noto letterato,
mi disse dal suo ritratto in bianco e nero
qualcosa come: «Finché la lingua
russa è morta, si può evitare
la poesia». Ricordo che allora ero d'accordo; però
con il trascorrere degli anni, nel susseguirsi impercettibilmente,
irreparabilmente uguale delle diverse immagini di fondo stagionali
su questa nostra stessa pagina fitta di monologhi e di marginalia,
mi sono convinto che l'arte di evitare la poesia
è abbastanza complicata, e accessibile solo a esperti
d'alto livello. In Russia, dio ti ringrazio, non ce ne sono
e dubito
che ne spunterà qualcuno: il tempo passa, l'età vaneggia con sospetto
di un lirismo delicato,
sulla foto di Brodskij, come una macchia di colore, appare
il bubbone della malattia del secolo: la giovinezza; e la lingua russa
non muore, la poesia
continua a riempire il mondo fino all'orlo, tanto che quello
è illividito fino a scoppiare
e ormai esplode.

E ben gli sta! non mi dispiace. Questo sentire,
naturalmente, entra in contrasto con le nuove religioni,
con i comandamenti di tristi premi nobel morti –
però, senza timori per la vita dell'anima immortale,
io resto quasi calmo: che il mondo affoghi pure
nella poesia, nelle convulsioni che precedono la morte
pronunciando con voce roca di densa saliva slava
preziosi ma già incoerenti anglicismi ebraici.

Originale: "Однажды Иосиф Бродский"(inedito)


Sergej Gennad'evič Kruglov, nato nel 1966 a Minusinsk, nella regione di Krasnojarsk, ha studiato giornalismo a Krasnojarsk e ha poi lavorato come reporter nel giornale locale Vlast' Trudu. Scrive poesie dal 1993. Nel 1999 è stato ordinato sacerdote della Chiesa ortodossa russa. Vive in Siberia. È sposato e ha tre figli. Nel 2008 ha ricevuto il premio Andrej Belyj. Ha un blog: http://kruglov-s-g.livejournal.com/ (rus)
Traduzioni: Manuela Vittorelli.

[Grazie a Sten per il ritratto.]

sabato, dicembre 05, 2009

Goethe

Goethedi Sergej Kruglov

Grido con foga: “Avrei voluto tanto
restare a lungo giovane,
un lattante! E che il mio corpo
non si squagliasse, come una brocca gelida
piena di mercurio ardente.
L'anima corrode la mia carne: mi piacerebbe essere
un consigliere segreto – diciamo – settantaduenne,
forte e vivace, pronto a bruciar d'amore, –
come Goethe!”
Tu scoppi a ridere: “Purtroppo, amico mio,
sei un poeta. Che ci vuoi fare,
è la poesia che brucia.
Chi non scrive poesie vive tranquillo
e attivo, come una macina
che non ha mai visto il grano.
Che sarà mai quel Goethe!
Fosse stato scrittore
mica avrebbe vissuto così a lungo.
La sua salvezza fu
non scrivere neanche una riga,
non è così?” – e alzi lo sguardo.
L'orrore
mi paralizza. La stanza si logora
e si guasta, come una mente superstiziosa.
L'aria diviene opaca. Avvampano da sole le candele,
simili alle dita di un eretico.
Un bicchiere di vino oscilla incerto
e vola giù dal tavolo. Per tutto il tempo della sua caduta
tu mi guardi (un sorriso maligno
come albugine notturna che preme contro i vetri),
e non dici una parola.

Originale: ГЕТЕ, Снятие Змия со креста, 2oo3


Sergej Gennad'evič Kruglov, nato nel 1966 a Minusinsk, nella regione di Krasnojarsk, ha studiato giornalismo a Krasnojarsk e ha poi lavorato come reporter nel giornale locale Vlast' Trudu. Scrive poesie dal 1993. Nel 1999 è stato ordinato sacerdote della Chiesa ortodossa russa. È sposato e ha tre figli. Nel 2008 ha ricevuto il premio Andrej Belyj.


Traduzione di Manuela Vittorelli.



[Grazie a Sten per il bicchiere.]

sabato, novembre 28, 2009

Armageddon

Armageddon

di Sergej Kruglov

E si fronteggiano così,
immobili e in silenzio,
senza combattere.

Non lo faranno forse mai, tutte le forze
spese già
per prepararsi alla battaglia.
Sono rimasti solo il bene e il male in quanto tali.
Ecco, guarda, li vedi ancora,
e tutto anche da qui appare fermo. Il vento
muove i vessilli sacri
(il che è abbastanza strano:
da dove spunta questo vento
nello spazio assoluto, privo d'aria?)

Originale: "АРМАГЕДДОН", Снятие Змия со креста, 2003.




Sergej Gennad'evič Kruglov, nato nel 1966 a Minusinsk, nella regione di Krasnojarsk, ha studiato giornalismo a Krasnojarsk e ha poi lavorato come reporter nel giornale locale Vlast' Trudu. Scrive poesie dal 1993. Nel 1999 è stato ordinato sacerdote della Chiesa ortodossa russa. È sposato e ha tre figli. Nel 2008 ha ricevuto il premio Andrej Belyj.


Traduzione: Manuela Vittorelli.


[Grazie a Sten per il mo' me lo segno.]

domenica, novembre 22, 2009

I sottopassi odorano di bagni

I sottopassi odorano di bagni
di Gennadij Kanevskij

I sottopassi odorano di bagni
carne sudata e larve
giudicare dalle apparenze, andarsene bestemmiando
arrivare all'alba, accompagnare l'alba
qui tutto nella vita è cibo unto
bevande calde coca cola
grandi seni seni piatti
ragazze provocanti dai capelli corti
e ragazzini (per i pervertiti)
bazar stazione autostazione cessi

dico gli sms non passano
dico metti la segreteria
so che non riesci a raggiungermi
ma un giorno uscirò di qui
no non ho spento sono irraggiungibile
sì temporaneamente sì spero presto
pure mi tirerai fuori di qui
per me è la stessa cosa in cielo o in terra
per me è lo stesso sai per me è lo stesso.

Gennadij Kanevskij, "в подземных переходах пахнет баней", Novyj Bereg 2006 n. 13.

Gennadij Kanevskij è nato a Mosca nel 1965. Laureatosi all'Istituto di Elettronica di Mosca, ha scritto tre libri di poesie. I suoi testi sono apparsi sulle riviste letterarie Znamja, Oktjabr' e Novyj Bereg. Nel 2007 ha vinto con Anna Russ il Bolšoj Slem. È redattore di Novosti elektroniki.
Il suo personaggio letterario preferito è Il'ja Il'ič Oblomov.


Traduzione: Manuela Vittorelli

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sabato, novembre 07, 2009

Poscritto

Poscritto
di Seamus Heaney

E trovare il tempo a volte di andare in auto a Ovest,
Nel Clare, lungo la Flaggy Shore,
A settembre oppure ottobre, quando il vento
E la luce si contrastano
Così che da una parte l'oceano è pazzo
Di schiuma e di bagliori, mentre all'interno tra le pietre
La superficie di un lago grigio ardesia è illuminata
Dal lampo terreno di uno stormo di cigni
Le piume arruffate e mosse, bianco su bianco
Le teste adulte e testarde
Chine o affioranti o indaffarate sott'acqua.
Inutile pensare di parcheggiare e di afferrarlo
Meglio. Non sei né qui né là,
Nel premere e passare di cose estranee e note
Mentre soffici e forti raffiche prendono l'auto di traverso
E colgono il cuore alla sprovvista, e lo spalancano.

Seamus Heaney, "Postscript", The Spirit Level, 1996.

Traduzione: Manuela Vittorelli




[Grazie a Sten per il bel sorriso su quel faccino.]

sabato, ottobre 17, 2009

Aporia

Aporia
di Jurij Arabov

Hai fatto un po' di soldi
Hai fatto molti soldi
Sono comunque pochi.

Hai avuto qualche donna
Hai avuto molte donne
Sono comunque poche.

Sapevi qualche preghiera
a memoria - briciole, per lo più.
Sono comunque tante.

Jurij Arabov, "Апория", Попытка плача, 2005.

Jurij Nikolaevič Arabov è nato nel 1954 a Mosca. Nel 1980 si è laureato alla VGIK, l'Università pansovietica del cinema S. A. Gerasimov. Debutta nel cinema con il film di Aleksandr Sokurov La voce solitaria di un uomo (Odinokij golos čeloveka), girato nel 1978 ma uscito nelle sale solo nel 1987.
Strettissimo collaboratore di Sokurov, viene premiato a Cannes per la sceneggiatura di Moloch (1999).
Scrive poesie
dal 1972. Tra gli organizzatori del club informale "Poesia" di Mosca, si colloca nella corrente del metametaforismo*.
Riceve il premio Pasternak nel 2005.
Dal 1992 è titolare della cattedra di sceneggiatura alla VGIK.

*Il termine metametafora è stato coniato dal poeta Konstantin Kedrov (n. 1942) e pubblicato per la prima volta nella rivista Literaturnaja Učëba
, N° 1 1984. Appare poi nell'opera di Kedrov Poetičeskij Kosmos (1989), nel capitolo "Noi metametaforisti".
La principale particolarità del metametaforismo è la doppia inversione interno-esterno (vyvoračivanie, cioè rovesciamento, o insideout): "L'uomo è il rovescio del cielo - Il cielo è il rovescio dell'uomo", scrive Kedrov in "Komp'juter ljubvi" (1983), poesia da lui considerata il manifesto della metametafora.
La prima metametafora di Kedrov risale al 1960: i versi furono letti ad Aleksej Kru
čënych, il quale a sua volta li mostrò a David Burljuk. L'approvazione dei due maestri futuristi convinsero Kedrov a continuare a comporre versi, benché in clandestinità, sviluppando l'idea del metametaforismo. Fu così che produsse il primo anagramma-palindromo della poesia russa ("Dopotopnoe Evangelie", 1976).
"Si può definire metametafora la prospettiva rovesciata della parola, con la differenza che nella prospettiva rovesciata l'infinito abbraccia l'uomo, mentre nella metametafora l'uomo abbraccia l'universo", ha scritto Kedrov.


Ma magamagari mi invinvento tutto, metametafora compresa.

(Grazie a Sten per il cappello.)


Traduzione Manuela Vittorelli

sabato, ottobre 03, 2009

Guarda, amico caro, guarda qui

Guarda, amico caro, guarda qui
di Vitalij Kal'pidi

Guarda, amico caro, guarda qui:
la vita è una carezza, cioè: non lotta,
ma un premere di bimbi, ed erba, e gatti,
e di ragazze attorno al collo, o contro il braccio...
Guarisci, amico caro, mentre guarisco,
come l'insetto angelo dei moscerini estivi.

Vitalij Kal'pidi, Смотри, дружок, скорей смотри сюда..., Ресницы, 1997



Nato nel 1957 a Čeljabinsk, Kalpidi è stato espulso dall'università a diciassette anni per "immaturità ideologica" e ha poi lavorato come scaricatore e caldaista. Dopo aver vissuto a Perm' (per circa quindici anni) e poi a Sverdlovsk, nel 1990 ha fatto ritorno a Čeljabinsk. Autore di otto libri di poesie, ha pubblicato sulle riviste Junost', Snamja, Ural', Literaturnaja Učëba, Rodnik e Labirint-Ekscentr. Ha curato due antologie di poesia moderna degli Urali. La sua raccolta di poesie Resnicy (Ciglia, 1997) ha ricevuto il Premio dell'Accademia della letteratura russa contemporanea. È stato insignito del premio Boris Pasternak e del Gran Premio "Moskva-Transit".



Traduzione: Manuela Vittorelli

(Grazie a Sten per la garza.)