giovedì, giugno 05, 2008

La pista gialla



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Gorizia, 1972, ultimi giorni di maggio.

Budicin Giorgio, ventisette anni. Sarebbe stato un bravo calciatore, ma l'hanno rovinato l'amore per la vita comoda, per le belle macchine e per le moto. Fa il rappresentante per Gorizia e Trieste per conto di un'azienda del settore anti-infortunistico.
Il 27 maggio Budicin, che ormai vive a Verona, arriva a Gorizia per lavoro e per giocare una partita di calcio in un torneo tra bar. Va all'albergo Transalpina, si cambia, esce in tuta e scarpe da ginnastica. Ma è in ritardo, può giocare soltanto un tempo. La partita finisce due a due. Il campo non è attrezzato con docce e spogliatoi e Budicin torna in albergo con le scarpe ancora sporche di terra e le lava nel lavandino.
Le tre sere successive Budicin le trascorre con amici in un night di Nova Gorica. La sera del 31 cena e poi si mette a guardare la finale di Coppa Campioni, Ajax-Inter. Finita la partita fa un giro e infine va a letto.
Il mattino dopo si sente chiamare. Sotto c'è il suo amico Maurizio che gli grida: “Ciò, mona, te ga visto i tuoi amici? I li ga fati saltàr”.

Larocca Furio, ventotto anni, sposato da poco, un figlio. Lavora malvolentieri in un bar del cognato, a Tarcento, vicino a Udine. Ha fatto anche l'imbianchino e il carrozziere.
Quel mese di maggio va a lezioni di guida per prendere la patente da camionista e la sera torna a casa presto perché è già stato denunciato per lite e non vuole guai. Così fa anche la sera del 31 maggio. Sul primo c'è Ajax-Inter, ma sua madre insiste per guardare il film sul secondo.
Il mattino dopo gli dice: “Visto cossa che xe successo? Meno mal che te ieri a casa soto i miei oci!” E lui risponde: “Ma cossa te va a pensar?”

Gianni Mezzorana, ventinove anni, imbianchino. Timidissimo, molto miope. Non è sposato. Appartenente alla malavita locale, dicono i carabinieri, in realtà un ambiente di ladruncoli, balordi e piccoli delinquenti.
La sera del 31 maggio è a casa di sua sorella Maria, perché il suo televisore non funziona e vuole vedersi la partita in pace, non in un bar. C'è un'amica di Maria, che vorrebbe guardare il film sul secondo. I due discutono. Finita la partita Gianni torna a casa a dormire.
Il mattino dopo va a comprare il Piccolo, ma il giornalaio gli dice che è già finito. “Perché?” domanda lui. “Xe successo qualcossa de grave”. Allora lui compra il Messaggero.

Qualche mese prima: Gorizia, febbraio 1972.

Tra il 1971 e il 1972 Larocca, Budicin e Mezzorana fanno gruppo fisso, sono amici di bar e di bevute. Larocca lavora nell'autofficina dei fratelli Brigadin; da quelle parti c'è un'altra officina, quella dei fratelli Fabris.
Alla fine di febbraio del 1972 nell'osteria Piemontese, anch'essa di proprietà dei Fabris, scoppia una lite tra Mezzorana, Budicin e Larocca da una parte e i fratelli Fabris dall'altra. Quella stessa notte ignoti danneggiano alcune auto fuori uso davanti all'officina dei Fabris. L'episodio, non si sa come, giunge all'orecchio dei carabinieri: Larocca, Budicin e Mezzorana sospettano di due ex amici, i fratelli Rustja, uno dei quali diventerà poliziotto. Sera dopo, stesso bar, altra lite: questa volta tra i tre amici e i fratelli Rustja. Nel mezzo della lite Budicin urla al Rustja che entrerà in polizia le parole fatali “Sporca spia dei carabinieri!”
Anche questo giunge a conoscenza dei carabinieri, ma nella versione (almeno così dicono le forze dell'ordine) “Spia degli sporchi carabinieri!”
Per quella sera finisce lì: i fratelli Rustja si nascondono nel retro del bar, Larocca li attende per un po' e poi se ne va.
Notte successiva. Con una lanterna a petrolio viene dato fuoco alla porta dell'officina Fabris. Il cane di Lineo Fabris, Dick, si brucia un po' il pelo nel piccolo incendio. I carabinieri denunciano Mezzorana, Budicin e Larocca. Processualmente è cosa da poco, ma il fatto assumerà proporzioni emblematiche. Al processo i tre dovranno rispondere, oltre che dei danneggiamenti, anche di vilipendio ai carabinieri, per quella frase che si è trasformata da “Sporca spia dei carabinieri” a “Spia degli sporchi carabinieri”. E poco importa che Budicin venga assolto dal reato di vilipendio (“Perché avrei dovuto dare degli sporchi ai carabinieri, se ce l'avevo coi Rustja?”): a un certo punto importerà solo che quell'accusa ci sia stata.

Gorizia.

Gorizia in quei primi anni Settanta è una cittadina povera, con più caserme che fabbriche, con tante osterie, priva di altri svaghi. A Gorizia, soprattutto in quegli anni, i matrimoni con i rappresentanti delle forze dell'ordine sono molto ambiti perché sinonimo di stabilità economica. Va da sé che si tratta spesso di ragazzi e uomini del Sud. I meridionali, a Gorizia come a Trieste, ancora oggi li chiamano “taliàni”, “italiani”, in senso vagamente dispregiativo.
In quei primi anni Settanta questo piccolo embolo del Nord Est non è particolarmente politicizzato, tenendo conto del clima dell'epoca e della posizione geografica della città: la vita scorre tranquilla, in assenza di benessere, sul confine. I due settori industriali portanti, quello metalmeccanico e quello tessile, sono in crisi e i disoccupati stentano a trovare impiego altrove. Sono anni di insicurezza e di cassa integrazione. La sostanziale separazione delle fabbriche e dei quartieri dei lavoratori dal centro cittadino e la mancanza di una coscienza e di una cultura operaie hanno portato a un'emarginazione del ceto operaio. Quello medio, storicamente nazionalista, è omogeneamente democristiano.
A Gorizia la criminalità è di piccolo calibro, e a fare notizia sono furti maldestri, risse in privata, piccole vendette tra nemici o rivali. Le zone associate al disagio e alla delinquenza sono via Lunga, via Rabatta, il quartiere di Montesanto, in particolare la zona delle Casermette addossata al confine, verso Salcano.
Gorizia è una città povera.
Quando si spargerà la notizia che per l'attentato è stata usata una Cinquecento imbottita di esplosivo rubata fuori dell'osteria di via del Brolo saranno in tanti a commentare, senza cinismo e sgranando gli occhi, “I gà usà una machina nova! Una Cinquecento!”
Una Cinquecento per fare a pezzi tre carabinieri.

31 maggio 1972.

Questa parte l'avrete letta, la conoscerete più meno bene, ve l'avranno raccontata.
Comunque.
La strada è quella che porta da Sagrado a Savogna costeggiando l'Isonzo: tranquilla e ombreggiata, è zona di coppiette e pescatori, e quella sera qualche pescatore in effetti c'è, perché è maggio e la notte si pescano le anguille. Tanti invece hanno deciso di guardarsi la partita alla tv, perché quella sera sul primo canale c'è la finale di Coppa Campioni che si concluderà con la vittoria dell'Ajax sull'Inter per due a zero, due reti di Crujff.
Alle 22.35 al Pronto Intervento dei carabinieri di Gorizia arriva la telefonata, un po' in italiano e un po' in dialetto, fatta da un telefono a gettone: “Senta, vorrei dirle che la xe una machina che la ga due busi sul parabrezza. La xe una cinquecento bianca, vizin la ferovia, sula strada per Savogna”.
La chiamata viene registrata.
Vengono inviati sul posto i carabinieri di Gradisca, competenti per quella zona: parte una gazzella con l'appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni. Dieci minuti dopo i due sono sul posto e trovano la Cinquecento. È visibile in un viottolo di terra battuta, subito dopo una curva, al chilometro 5. È targata GO 45902. I buchi sul parabrezza ci sono, sembrano sparati dall'interno. Mango decide di chiamare il suo ufficiale, il tenente Tagliari, che parte anche lui accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro e dal carabiniere Donato Poveromo. La seconda gazzella arriva alle 23.05.
Tagliari perquisisce l'interno della Cinquecento e non trova niente. Ma a questo punto da Gorizia parte, abbastanza inspiegabilmente, una terza gazzella.
23.25. Tagliari a quel punto decide di dare un'occhiata al portabagagli. Si china, allunga il braccio sotto il volante della Cinquecento per cercare la leva che apre il cofano. Tre uomini sono davanti alla macchina. Lui trova la leva e tira.
Il Braghetto, che sta pescando lì sotto - con l'ombrello, perché piove - racconterà a mio padre: “Gò sentì un sciòpo cussì forte che me la gò fata in braghe. Con rispeto parlando”.
La leva, scattando, ha fatto scoppiare una bomba nascosta nel portabagagli. Ferraro, Dongiovanni e Poveromo sono investiti in pieno dall'esplosione e fatti a pezzi. L'ufficiale, protetto dalla portiera aperta, resta gravemente ferito.
Le salme vengono portate nella caserma dei carabinieri di via Nazario Sauro, le bare allineate sul biliardo.
Questa è la strage, o più correttamente l'eccidio di Peteano.
Antonio Ferrero, trentun anni, siciliano, sposato da poco e in attesa del primo figlio.
Donato Poveromo, trentatre anni, lucano, anche sua moglie è incinta.
Franco Dongiovanni, di Lecce, ventitre anni.
E una Cinquecento nova.

L'Italia.

Il Settantadue per l'Italia è un anno pesante. Nel febbraio il capo del Sid Vito Miceli riceve dall'ambasciatore americano 800.000 dollari per finanziare la propaganda delle elezioni anticipate del 7 maggio con l'aiuto di un estremista di destra (“legato a un gruppo giovanile e membro del comitato centrale del movimento politico di estrema destra”, lo definisce Otis Pike nel suo rapporto sull'attività della CIA in Italia).
Il 14 marzo salta in aria Giangiacomo Feltrinelli.
Il 21 marzo viene rinviata alla magistratura milanese l'istruttoria Freda-Ventura su Piazza Fontana, segnando un punto di svolta nelle indagini sul terrorismo, finora condotte a senso unico e cioè a sinistra.
Il 5 maggio la polizia uccide a Pisa l'anarchico Franco Serantini durante una manifestazione.
7 maggio, elezioni anticipate e balzo dell'MSI con l'8,67%.
17 maggio: omicidio Calabresi.
31 maggio, Peteano.
25 agosto: omicidio di Mariano Lupo, Lotta Continua.
E poi la strategia della tensione, che tra il 1971 e il 1972 comincia ad agire soprattutto nelle zone in cui le forze militari sono più numerose: Trento, Gorizia, Trieste.
26 marzo 1971: bombe sulla linea ferroviaria Trieste-Venezia.
27 marzo 1971: bombe sulla Udine-Venezia.
15 settembre 1971: bomba al monumento ai caduti di Latisana.
Nel dicembre 1971 e nel gennaio 1972, attentati dimostrativi a Udine, in omaggio alla politica degli opposti estremismi, contro due fascisti e un onorevole missino.
Fine febbraio-inizi marzo 1972: in una grotta di Aurisina, vicino a Trieste, viene trovato un grosso quantitativo di esplosivo T4.
1° aprile 1972: attentato alla linea ferroviaria Trento-Malè, con l'intento di far deragliare un treno di pendolari.
Corrono voci insistenti di un imminente colpo di stato fascista.
A tutto questo si aggiungono altri due episodi. L'attentato al deposito costiero dell'oleodotto Trieste-Baviera, il 4 agosto 1972, e soprattutto il tentato dirottamento di un aereo a Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia, il 6 ottobre 1972. I responsabili dell'azione sono l'ex-parà Ivano Boccaccio, che viene ucciso dalla polizia, e Carlo Cicuttini, che riesce a fuggire inaugurando così una lunghissima latitanza.
In casa di Boccaccio la polizia trova un giornale del 1° giugno con i particolari della strage di Peteano. Il processo lampo, durante il quale Cicuttini è giudicato in contumacia e condannato, dura in tutto due ore. Nessuna perizia sulle voci dei dirottatori registrate durante le trattative, nessuna perizia sulla Calibro 22 trovata accanto al corpo di Boccaccio. E perché mai?
Nel mese di novembre le indagini per l'eccidio di Peteano si spostano decisamente sulla “malavita” goriziana: la cosiddetta pista gialla.

All'inizio fu la pista rossa.

Il responsabile dell'indagine sull'eccidio è Dino Mingarelli, comandante della Legione Udine: in quel momento è in attesa della promozione a generale ed è giunto nel nord-est da Milano: qui era capo dello stato maggiore della divisione Pastrengo ed era stato coinvolto nello scandalo Sifar, che rivelò il suo ruolo di braccio destro del generale De Lorenzo nell'attuazione del “Piano Solo”, il progetto di colpo di stato che stava per essere attuato nel 1964.
Nelle indagini sull'eccidio di Peteano Mingarelli punta subito a sinistra. Ora non è più così facile addossare tutte le colpe agli anarchici, e così si cerca tra i gruppuscoli della sinistra extraparlamentare più esposti alle infiltrazioni, in particolare tra alcuni universitari appartenenti a Lotta Continua che studiano a Trento. Un classico.
I giudici di Milano lo indirizzano invece a destra, visto che a Udine ci sono elementi della cellula rivoluzionaria che secondo Giovanni Ventura sono in contatto con Freda (va notato che Mingarelli userà l'espressione “un certo Freda” per riferirsi all'imputato principale della strage di Piazza Fontana). Le informazioni dei giudici di Milano costringono dunque i carabinieri a chiudere a malincuore la “pista rossa”. Intanto se ne sono andati circa tre mesi.
Per liquidare la “pista nera” ci mettono ancora meno: identificano la cellula rivoluzionaria di Udine – della quale fanno parte Vincenzo Vinciguerra e il suo gemello Gaetano, Ivano Boccaccio (morto nel dirottamento di Ronchi), Carlo Cicuttini (latitante) – ma si limitano alla raccolta di informazioni anagrafiche.
L'8 novembre Mingarelli riceve un “invito” da parte del Sid di interrompere le indagini sulla cellula nazista del Veneto orientale. Mingarelli, fedelissimo del Sid, ubbidisce, chiude la pista nera e ne apre subito un'altra. C'è un gruppetto di balordi che i carabinieri tenevano già d'occhio: eccoli, i mostri.

I mostri.

Il 21 marzo 1973 il colonnello Mingarelli annuncia che dopo indagini durate dieci mesi i carabinieri hanno arrestato sei appartenenti alla malavita goriziana.
Accusa: la strage di Peteano.
Movente: vendetta.
Ci sono Mezzorana, Budicin e Larocca, che anche grazie al fondamentale contributo della stampa locale e nazionale sono dipinti come delinquenti pronti a tutto: sono dei vandali (hanno dato fuoco alla carrozzeria di Fabris, in passato si sono resi colpevoli di atti teppistici nel cimitero di Piuma), odiano i carabinieri (“sporca spia dei carabinieri!” o “spia degli sporchi carabinieri!”), hanno tendenze sadiche (il cane di Fabris si è solo bruciacchiato il pelo, ma si dirà che è morto), è gente capace di diabolica premeditazione (una volta, per compiere un furto in un magazzino di alimentari indossarono scarpette da calciatore: per non lasciare impronte, dicono i carabinieri).
I tre esecutori materiali dunque ci sono.
Mancano la mente, la dark lady e l'esperto di esplosivi. E ci sono anche quelli: si chiamano Romano Resen, Maria Mezzorana ed Enzo Badin.

La mente.

Romano Resen, trentasei anni, è un tipo avventuroso, spirito libero ma buon lavoratore. Riceve un'educazione di stampo nazionalistico, anche per questioni di storia familiare: il papà è morto nella campagna di Russia, uno zio ha partecipato all'impresa di Fiume con D'Annunzio, un altro zio ha fatto la campagna d'Africa. “Quando mi sono venuti i calli alle mani ho cambiato idee politiche”, racconterà poi.
Ha un matrimonio fallito alle spalle e tre figli: uno di questi avuto dalla nuova compagna, Annamaria Scopazzi. Resen è un bravissimo cuoco, ma per vivere a un certo punto è costretto a fare il camionista. Nei suoi viaggi lo accompagna Walter Di Biaggio, uno spiantato e un poco di buono amante di Maria Mezzorana: Resen lo aiuta e lo ospita in casa insieme a Maria.
All'inizio del 1972 Resen ha un alterco con un carabiniere per una multa. Viene denunciato e il suo avvocato gli consiglia di andarsene per un po'. Non solo, ma è nei guai anche perché Di Biaggio, che nel frattempo ha cacciato, gli ha lasciato in casa una radiolina rubata.
Così Resen decide di imbarcarsi su una nave come cuoco.
Pomeriggio del 26 maggio. Resen, che fa nuovamente il cuoco all'Hotel Aci di via Trieste, è al bar Goriziano. Annamaria gli porta di corsa un telegramma dall'agenzia marittima di Genova che lo informa che c'è un posto su una nave che parte da Amburgo tra qualche giorno. La mattina dopo deve trovarsi a Genova. Allora va alla Telve (i telefoni pubblici) a confermare che accetta il lavoro.
Poi corre all'Hotel Aci per preparare l'ultima cena prima della partenza.
In tarda serata incontra la compagna e un paio di amici, con i quali passa il resto della serata. Vanno a ballare da Bepi, a Oslavia. La mattina dopo prende il treno per Genova, poi parte per Amburgo. Il 1° giugno vola a Londra e di lì a Dubai, dove si imbarca sulla petroliera Glor Nicku.
Gli inquirenti diranno che Resen quella sera non ci è andato, al ristorante, se non molto più tardi, dopo aver organizzato l'eccidio con Larocca e i fratelli Gianni e Maria Mezzorana: ha detto loro di rubare una macchina, di nasconderla in una legnaia a casa di Mezzorana, di riempirla di esplosivo, di telefonare ai carabinieri. Ha poi consegnato ai tre il T4, da affidare all'esplosivista del gruppo. Poi, dopo la prima e ultima riunione con gli esecutori materiali, li ha salutati ed è andato ballare. Sempre secondo i carabinieri, Resen non è neanche stato ad Amburgo.
La descrizione che Mingarelli dà di lui è: “autenticamente antisociale”, “mente perversa”, “irrequieto”, “ora esercente, ora camionista, talaltra cuoco e talaltra marittimo”, “un violento”. E poi coverebbe nei confronti dei carabinieri “un odio profondo e assurdo”.
Così dopo il suo ritorno a Gorizia (si è ammalato e viene sbarcato per curarsi) cominciano a interrogare anche lui.
Ma Resen l'ultima sera al ristorante Aci se la ricorda bene: quel 26 maggio cucina una scarpena, un piatto raffinato che fa una gran bella figura. Tanto che il gestore del ristorante, il signor Veronese, infila mezzo limone nell'occhio del pesce e dice soddisfatto: “Così è più bello”. Ed era proprio un bel piatto, ricorderà Resen.

La dark lady.

Maria Mezzorana, quarant'anni, sorella di Gianni. Separata, ha una figlia ormai grande. Fa la cameriera. Tra i suoi fidanzati c'è stato Walter Di Biaggio, ladro, che a un certo punto finisce in galera. Allora Maria si mette con Bruno Furlan, un altro balordo. A causa di Di Biaggio e di Furlan i carabinieri (o forse la polizia) le perquisiscono la casa: è in quel momento, si dirà, che Maria matura il fermissimo proposito di vendicarsi.
In quel mese di maggio del 1972 lavora alla trattoria da Sonia, vicino a Peteano. Qualcuno racconterà di averla vista fare autostop su quella strada, la sera del 31 maggio. Del resto è così che il colpevole si allontana dal luogo della strage: in autostop. Al limite in taxi, come Valpreda (in questo caso è raccomandabile che il tassista-testimone di lì a poco muoia all'improvviso di polmonite secca senza febbre).
Maria viene interrogata molti mesi dopo l'eccidio: entra in caserma alle 10 del mattino e la lasciano andare alle 6 di sera. Alle 2 del pomeriggio le portano un caffè. Un amico carabiniere una volta le ha detto di non accettare mai niente dalle forze dell'ordine: e infatti, racconterà, “quella volta lì i me ga dà un caffè con le gocce dentro. Quando son stada fora gò vomità tutto e go sentì odor de medicina”. Tempo dopo il capitano Chirico (“un bel omo”) che conduce gli interrogatori le dice “Signora, ci aiuti, non sappiamo che pesci pigliare”. Lei risponde “Devo dirghe mi dove andarli a cjapar?”

L'esperto di esplosivi.

Enzo Badin, venticinque anni, famiglia piccolo-borghese. Non dice a nessuno della bocciatura agli esami di abilitazione tecnica e finge anzi di essersi diplomato e di studiare medicina all'università. Sogna di fare il giornalista e per questo bazzica la sede del Gazzettino, dove fa il fattorino-factotum: questo lo porta a frequentare poliziotti e carabinieri, che si insospettiscono proprio perché Badin chiede troppo spesso se ci sono notizie sulla strage. Conosce Mezzorana, Budicin e Larocca e spera ingenuamente di fare uno scoop.
La sera del 31 maggio, dice, era a Trieste ma non ricorda in quale locale. Ha cognizioni di esplosivi? Sì, dicono i carabinieri: ha fatto le scuole tecniche. In più Badin ha frequentato in passato una comune di anarchici. E anarchia nell'immaginario borghese significa bombe.
Così senza saperlo e senza venire mai interrogato formalmente Badin diventa l'esplosivista, nonché il telefonista di riserva, nel caso la voce non dovesse corrispondere a quella di Mezzorana.
E quale sarebbe il movente di Badin, un tipo tranquillo che non odia le forze dell'ordine né appartiene alla malavita locale?
Lì Mingarelli e Chirico superano se stessi: senso dell'amicizia.
È quasi fatta, gli elementi ci sono tutti. Ne manca uno, fondamentale: il testimone.

Il supertestimone.

Walter Di Biaggio, pregiudicato per reati contro il patrimonio, è l'ex amante di Maria Mezzorana. È finito in carcere nel novembre del 1971: era andato a rubare a casa di un avvocato, pare il suo ex-legale, collezionista di armi antiche, e aveva abbandonato il piede di porco sul luogo del reato lasciando la propria firma. Mentre è in carcere Maria lo lascia per mettersi con Bruno Furlan, e lui cova la vendetta.

Nel luglio del 1972 Di Biaggio ha il primo colloquio con i carabinieri: offrirà loro la storia, il filo conduttore che spiega le ragioni e le modalità della strage. Racconta come Resen, camionista, si sia procurato il T4 “probabilmente in Svizzera”, come la Mezzorana gli avesse comunicato l'intenzione di fare la strage e come Gianni Mezzorana abbia rubato la macchina. L'idea dell'attentato i sei colpevoli l'avrebbero presa da lui, che in passato aveva pensato di organizzare una serie di attacchi contro le forze dell'ordine per distrarle e rapinare con calma una banca.

Così il PM Bruno Pascoli ricostruisce il progetto criminoso: “L'insana idea sorse nel luglio 1971, quando il Resen, parlando con Bruno Furlan, in presenza di Walter Di Biaggio, gli propose di far saltare una caserma dei carabinieri o della pubblica sicurezza. [...] Un giorno, a causa dei continui fastidi cagionati dalla pubblica sicurezza e più ancora dai carabinieri, la Maria Mezzorana, nella cui abitazione frequentemente ebbero a riunirsi il Resen, il Furlan e il Di Biaggio e anche il di lei fratello Gianni, dando sfogo ai propri sentimenti di incontenibile rancore verso i carabinieri, che poco prima avevano effettuato una perquisizione nel suo domicilio, esclamò, in preda alla più viva agitazione, che era ora di finirla e che gliel'avrebbe fatta pagare, addirittura accennando all'idea di farli saltare in aria. Ciò accadeva in presenza del di lei fratello Gianni, del Larocca e del Budicin. Costoro, che con le forze dell'ordine avevano avuto non soltanto noie, ma anche rapporti per fatti di una certa gravità e che pertanto a loro volta nutrivano odio, specialmente per i carabinieri, si sentirono quasi istintivamente determinati ad agire autonomamente e immediatamente”.

Ecco come nasce una strage: un giorno a uno viene l'idea di far saltare in aria una caserma; tempo dopo una che vuole vendicarsi dei carabinieri si ricorda di questa idea e la comunica ai propri complici animati dallo stesso diabolico proposito.

E la strage si fa.

La gita a Pieris.

C'è un altro elemento che entrerà nell'inchiesta e che in assenza totale di prove e di nessi assumerà un luce sinistra, avvalorando la tesi della crudele vendetta: la gita a Pieris.
Pieris è una frazione di San Canzian d'Isonzo, vicino a Monfalcone. Per un po' di tempo Maria Mezzorana aveva lavorato in una trattoria davanti al ponte di Pieris molto frequentata dai soldati dopo le manovre: dai soldati aveva sentito dire che sotto il ponte c'era dell'esplosivo e l'aveva raccontato agli amici. Un giorno Mezzorana, Larocca e Budicin fanno un giro da quelle parti, si ricordano delle parole di Maria e cercano l'esplosivo sotto il ponte, senza trovarlo.
La storia finirebbe qui, se al bar una sera, dopo i primi interrogatori, a Budicin non venisse in mente di dire ingenuamente al Larocca: “Pensa ti se i saveva del ponte de Pieris, de quela volta che gavemo cercà l'esplosivo”.
Pensa ti.
Quella sera stessa qualcuno riferisce la frase ai carabinieri. La gita a Pieris entra così ufficialmente nell'inchiesta, non perché i tre avessero trovato l'esplosivo, ma perché avevano la ferma intenzione di trovarlo.
Perché cercare dell'esplosivo, se non per usarlo? E come usarlo, se non per imbottire una Cinquecento e fare una strage?

21 marzo 1973.

Dal punto di vista istruttorio, dal 1° agosto all'8 novembre 1972 è il vuoto assoluto: né interrogatori, né ispezioni, né perquisizioni. L'8 novembre su ordine dall'alto l'autorità inquirente si sposta sulla pista programmaticamente “non politica”, quella della malavita locale. I sei penseranno però sempre di essere sentiti in qualità di testimoni, non di imputati.

Resen subisce un unico interrogatorio (durante il quale gli viene ricordato il suo passato nella destra e proposto di fare l'infiltrato, lui rifiuta), poi niente fino all'arresto, anche se in quei mesi si accorge di essere seguito.
Lo vanno a prendere all'alba del 21 marzo 1973. Davanti alla caserma di via Nazario Sauro un carabiniere lo guarda e dice: “L'ho visto al Brennero”. Questo perché il capo di imputazione sulla provenienza dell'esplosivo è incerto e gli inquirenti hanno detto che è stato trovato in Germania: dunque per pararsi le spalle serve qualcuno che dica di aver visto Resen passare la frontiera.
Fuori della caserma c'è una folla inferocita, giornalisti, fotografi, la televisione, tutti contro i “mostri”. Gridano “assassini”, “pena di morte”, cose così.
Quando lo portano nel carcere di via Barzellini, che sta proprio lì vicino, Resen incrocia una cugina: lei lo riconosce, capisce e scoppia a piangere. Lui le grida “Ma va' a casa, va'!”
“Chissà perché l'ho trattata così”, rimpiangerà poi. “Ero fuori di me”.

Anche a Budicin, che nel frattempo ha perso il lavoro, viene proposto di collaborare. Gli offrono in cambio un passaporto e 30 milioni, ma lui dice che non sa nulla. Gli fanno credere che i complici abbiano fatto il suo nome, che gli conviene parlare.
Gli chiedono come mai cercassero l'esplosivo a Pieris. “Mah, forse volevano far saltare l'auto dei Rustja”, ipotizza. Budicin è terrorizzato. Però non fa nomi, non confessa. Il capitano Chirico lo informa bonariamente che l'unica cosa che può fare è avvisarlo del mandato di cattura, per permettergli di scappare.
Poi passano i mesi. Budicin non scappa. Per ingenuità, per ignoranza o semplicemente perché è innocente: fatto sta che il trucchetto della fuga (che equivarrebbe a una confessione) non funziona.
I carabinieri di Verona vanno a prenderlo alle 5 di mattina del 21 marzo per portarlo a Gorizia. Mentre gli prendono le impronte, un maresciallo gli domanda “Non tremi?”, dato che in quei momenti lì tremano sempre tutti. E lui risponde “No, perché non ho fatto niente”.

Furio Larocca si è sempre dichiarato innocente. Lui non ce l'aveva con i carabinieri, dice, lui ce l'aveva con i Fabris e i Rustja. Alle 5 del 21 marzo 1973 si sveglia, apre gli occhi e si vede circondato dai mitra. Sua madre è in lacrime, suo padre ha un grave malore.
Il primo pensiero di Furio è: “Qualcuno ha spaccato la macchina a Rustja o a Fabris”.

Gianni Mezzorana da novembre non è stato più sentito dagli inquirenti: sa che le indagini vanno avanti, ma è tranquillo. La sera del 20 marzo 1973 resta una mezz'ora a guardare un camion che brucia in una piazzola vicino a casa sua. Poi va a dormire. Alle prime luci dell'alba si ritrova i carabinieri attorno al letto con i mitra puntati. Lui pensa che abbiano bisogno di una testimonianza per il camion della sera prima. Se lo portano via.

La mattina del 21 marzo 1973, alle 6, i carabinieri vanno a prendere anche Enzo Badin. Lui non sospetta nulla, crede che sia per qualcosa che ha a che fare con il giornale. Del resto non è neanche stato formalmente interrogato, era convinto di seguire l'inchiesta. Quando legge il proprio nome e cognome sul mandato di cattura, e la parola strage, pensa a un errore. Finisce in cella d'isolamento.

Ma per primi i carabinieri vanno a prendere la Maria Mezzorana. Sono le 4.40 del mattino, è ancora buio. Lei dice “Andemo, andemo subito a chiarir” e si infila il cappotto. Mentre la portano in caserma e poi in carcere continua a ripetere “I xe mati!”.

Trieste, 1° aprile 1974.

Il processo dovrebbe svolgersi a Gorizia: invece no, viene fissato a poco più di un anno di distanza dall'arresto dei sei imputati alla corte d'assise di Trieste, come a Trieste nel marzo del 1973 si è svolto il processo per vilipendio e danneggiamenti contro Larocca e Budicin.
Non mi soffermerò qui sull'identità politica e sull'atmosfera reazionaria di Trieste in quegli anni, né sulla magistratura nera. Mi basta osservare che era la sede migliore per un processo che non doveva puntare a destra né avere implicazioni politiche. Ma quale strategia della tensione, quali trame eversive, quale pericolosità del fascismo.
Il processo per la strage di Peteano si apre il 1° aprile 1974.
Nel frattempo la stampa locale e quella nazionale non hanno fatto molto per mettere in discussione la direzione presa dalle indagini. Quando Mingarelli ha annunciato gli arresti, un anno prima, un giornalista ha svelato dettagli sconosciuti ai suoi colleghi avvalorando la tesi dell'odio e della vendetta in un articolo che non lasciava spazio ai dubbi. Quel giornalista è Giorgio Zicari del Corriere della Sera, lo stesso che aveva sbattuto in prima pagina Valpreda come autore della strage di Piazza Fontana (Zicari nel 1974 ammette in un'intervista all'Espresso di aver collaborato con il Sid).
Per quanto riguarda la stampa locale, il giorno prima dell'apertura del processo il colonnello Mingarelli va in visita ufficiale alle varie sedi dei giornali, Gazzettino, Messaggero veneto e Piccolo: strette di mano, complimenti, cordialità, plauso e incoraggiamenti.
Il processo, benché clamoroso, verrà seguito solo parzialmente dalla stampa nazionale: sono presenti per tutta la durata solo La Stampa e Il Giorno (al cui inviato, Gian Pietro Testa, dobbiamo tutto: è grazie a lui se non c'è stato un totale isolamento del processo).
Perché i sei di Gorizia non fanno notizia, sono dei poveracci.
Poveracci, sì, ma innocenti.

Il processo.

In un processo che non deve essere politico la battaglia politica comincia subito. In particolare l'avvocato della difesa Nereo Battello, comunista, imposta il processo su basi del tutto impreviste per i giudici e per la parte civile, attaccando i modi con cui gli inquirenti hanno condotto l'inchiesta. Accusa Mingarelli di aver sospeso le indagini a destra per ordini giunti dall'alto, di non aver ascoltato come testimone Giovanni Ventura che aveva dichiarato di immaginare chi fosse il responsabile della strage e lo aveva definito “uno pronto a tutto”.
Battello mette poi in luce gli errori clamorosi commessi durante le indagini.
Per esempio, quando il PM Pascoli contesta a Resen perfino il viaggio ad Amburgo per imbarcarsi, negando che risulti una prenotazione a suo nome, Resen cava di tasca il conto dell'albergo e lo presenta alla corte.
Per esempio, il proprietario della Cinquecento rubata, Marcello Brescia, viene chiamato a riconoscere in Furio Larocca uno dei giovani che quella sera stavano all'osteria di via del Brolo. Lui inforca gli occhiali, guarda gli accusati, indica Larocca e dice: “Dovrebbe essere quello là con la barba, ma non è lui”. Ne sono sicuro, aggiunge. Ma come, gli chiedono, perché in fase di istruttoria quando è stato messo a confronto con lui l'ha riconosciuto? Ma quale confronto, risponde lui, mi hanno solo fatto vedere una fotografia e basta, quello lì io non lo riconosco.
Le testimonianze di volta in volta confermano gli alibi ma soprattutto evidenziano il modo in cui Mingarelli e Chirico hanno condotto le indagini.
Perfino il legale di Larocca, l'avvocato Pedroni, che è missino e non è certo interessato alla pista nera, osserva: “Riporto i giudizi da voi espressi nel rapporto al magistrato: Gianni Mezzorana: esperto di vetture (non sa guidare la macchina, non ha la patente, è molto miope...) la sorella Maria: classica figura di istigatrice; Larocca: un violento; Badin: un noto esperto balistico; Budicin: capace di tutto per danaro. Dove avete preso queste informazioni?”
A un certo punto Mingarelli dirà la frase che riassume perfettamente il suo metodo di indagine: “Io sono stato come una scopa che ramazza tutto al buio, poi sceglie”.
Poi Di Biaggio scardina anche la tesi dell'esplosivo e nega di aver mai parlato di Peteano. Emerge anche come teste poco affidabile: “Io volevo i soldi e la libertà. I carabinieri si erano mostrati condiscendenti”.

Ma la sorpresa maggiore viene con la perquisizione della baracca di via Giustiniani, in zona Montesanto, dove Mezzorana avrebbe tenuto nascosta per cinque giorni la Cinquecento rubata.
Si osserva che la baracca è abbastanza spaziosa per contenere una macchina anche più grande. La porta della baracca è chiusa con un lucchetto. Le chiavi del lucchetto, secondo Mezzorana, ce l'hanno suo fratello e il signor Nardin. Allora si manda a chiamare il signor Nardin, che ha in uso la baracca insieme al fratello di Mezzorana. E il signor Nardin spiega candidamente che nel maggio del 1972 lì c'era tanta di quella legna accatastata che non ci si passava nemmeno a piedi, figuriamoci parcheggiarci una macchina. E che le chiavi le aveva solo lui, tanto che il fratello di Mezzorana doveva chiedergliele se voleva accedere alla legnaia.
Questo significa solo una cosa: che là dentro la Cinquecento non c'è mai stata.
Un giornalista domanda al signor Nardin: “Ma lei non è mai stato interrogato?”
“No”, risponde lui.

Per fare più breve storia già lunga e complicata

Il 7 giugno 1974 la corte si ritira in camera di consiglio e vi rimane sette ore. La sentenza: assoluzione per insufficienza di prove. Mentre gli imputati si abbracciano, l'avvocato Battello (inquisito, denunciato, attaccato personalmente) scoppia a piangere.
Seguirà un'assoluzione in appello nel 1976, quindi un rinvio a giudizio in cassazione per un nuovo esame nel 1978 e poi la definitiva assoluzione con formula piena nel 1979.
Dopo la conclusione del processo di primo grado per il colonnello Mingarelli giunge la promozione a generale.
Potremmo ancora parlare della successiva denuncia alla corte di cassazione del procuratore Portelli per i reati di abuso e omissione di atti d'ufficio, falso ideologico e violazione del segreto istruttorio, e dell'interpellanza di Loris Fortuna in Parlamento. Ma questa è già un'altra storia, meglio documentata.
Noi adesso vogliamo ricordare i nomi dei colpevoli.

La verità, circa.

“Ecco, allora c’è una precisazione da fare. L’attentato di Peteano non ha le connotazione della strage. È strage sul piano giuridico. Cioè sulla base degli articoli del codice penale può essere, viene definita strage. Perché il numero dei morti poteva essere indeterminato. Cioè invece di tre carabinieri ne potevo uccidere cinque, sei sette. Però non è strage, nel senso che l’attentato di Peteano colpisce per la prima e unica volta un apparato militare dello Stato. In un posto solitario, dove viene esclusa la possibilità di colpire i civili e ha una finalizzazione esclusivamente di opposizione al regime, cioè non si colpisce l’apparato militare del regime per dare la possibilità al regime di sfruttare quest’attentato. Ha avuto, come era nelle mie intenzioni, implicazioni politiche pesantissime. Perché anche se sono state sottaciute, negli ultimi anni, di fronte alla Commissione stragi, Francesco Cossiga ha dovuto ammettere che dopo l’attentato di Peteano iniziò il percorso di divaricazione tra l’Arma dei carabinieri e il Sid da un lato, e la destra dall’altro. Cioè l’arma dei carabinieri pur tacendo, occultando le prove, depistando le indagini, insieme ad altri apparati dello Stato (Ministero dell’interno, Guardia di Finanza) prese atto che dall’estrema destra gli era venuto un attacco di quella gravità. E cominciò a prendere le distanze, a staccare dall’estrema destra. Quindi definire l’attentato di Peteano una strage, si confondono un po’ le idee alle persone nel senso addirittura di far credere che l’attentato di Peteano avesse le stesse finalità della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna, della strage dell’Italicus. Esattamente l’opposto”.
Vincenzo Vinciguerra, Carcere di Opera, 8 luglio 2000

La verità si sa solo dodici anni dopo l'eccidio, e solo grazie a una spontanea assunzione di responsabilità: nel 1984 Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine Nuovo latitante dal 1974 (prima in Spagna, dove aderisce ad Avanguardia Nazionale, e poi in Argentina), parla.
Vinciguerra si è costituito nel 1979, motivando il suo gesto con la volontà di non compromettere con la latitanza la sua dignità di militante rivoluzionario. Al momento della confessione Vinciguerra si trova in carcere per il tentato dirottamento all'aeroporto di Ronchi dei Legionari dell'ottobre 1972, che si era concluso con la morte dell'ex-paracadutista Boccaccio e la fuga di Cicuttini.

Dice Vinciguerra: “Mi assumo la responsabilità piena, completa e totale dell'ideazione, dell'organizzazione e dell'esecuzione materiale dell'attentato di Peteano, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguivano una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello stato [...] Il fine politico che attraverso le stragi si è tentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioni innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. In ultima analisi il fine massimo era quello di giungere alla promulgazione di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo si sarebbe realizzata quell'operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva vacillare il proprio dominio. Il tutto, ovviamente inserito in un contesto internazionale nel quadro dell'inserimento italiano nel sistema delle alleanze occidentali”.

Dunque si assume la responsabilità per “fare chiarezza”, avendo capito che tutte le precedenti azioni dell'estremismo di destra, incluse le stragi, in realtà erano state manovrate da quello stesso regime che si proponeva di attaccare. L'attentato, nelle sue intenzioni, doveva essere un atto rivoluzionario: un'azione di guerra esplicitamente rivolta contro lo Stato, impersonato dai Carabinieri, e non contro una folla indiscriminata.
La confessione gli costa la condanna all'ergastolo. Solo quando la condanna passa in giudicato e non c'è più la possibilità di ricevere benefici in cambio di rivelazioni, collabora. Così la magistratura ricostruisce l'attività di Ordine Nuovo di Udine, guidata da Vinciguerra insieme al fratello gemello Gaetano (pare che perfino Freda parlasse compiaciuto di questo gruppo di “giovani decisi, disposti a tutto”).
Ma a Peteano Vinciguerra non ha agito da solo.

Nel frattempo il fascicolo su Peteano è finito nelle mani del giudice Felice Casson, che ha cominciato a far luce su una trama complessa di depistaggi e omertà. C'è da dire che molti sapevano, e molti avevano paura di esporsi. Per esempio già nel giugno del 1972 un funzionario della prefettura di Trieste aveva inviato agli inquirenti alcune lettere anonime, nelle quali descriveva gli attentatori.
All'inizio degli anni Ottanta Casson collega il dirottamento di Ronchi alla strage di Peteano e individua i tre responsabili: Boccaccio, Vinciguerra e Cicuttini. Quando partono i mandati di cattura, nel 1982, Vinciguerra è già in carcere (ma non ha ancora parlato). Cicuttini invece è latitante a Madrid, dove ha sposato la figlia di un generale franchista.
Casson riesce a dimostrare con una perizia fonica che il telefonista di Peteano è Cicuttini. Inoltre rinvia a giudizio per favoreggiamento aggravato Giorgio Almirante (che uscirà dal processo per amnistia): una serie di documenti bancari dimostra che Almirante ha finanziato Cicuttini in Spagna, fornendogli circa 34.000 dollari perché si operasse alle corde vocali.
Finalmente, dopo 26 anni di latitanza, Cicuttini cade in una trappola (non c'è stato verso di ottenerne l'estradizione, neanche con la condanna all'ergastolo): i magistrati italiani gli fanno offrire un lavoro a Tolosa e lui ci casca. I francesi lo arrestano, viene estradato, finisce in carcere.
A quel punto Cicuttini chiede di poter scontare la condanna in Spagna, essendo ormai cittadino spagnolo. Nel febbraio del 2001 il ministro della Giustizia Fassino risponde di no. Per forza, lo stragista sarebbe subito scarcerato.
Nell'ottobre del 2002 il nuovo ministro, Castelli, trasmette alla procura generale di Venezia la richiesta di promuovere il procedimento per accontentare Cicuttini “esprimendo parere positivo al trasferimento in Spagna”. I giudici veneziani rispondono di no. La difesa di Cicuttini fa ricorso in cassazione, il Guardasigilli conferma il parere positivo.
E la Cassazione. Sesta sezione penale. Con la sentenza 1729. Risponde nuovamente di no. Equivarrebbe alla concessione della grazia, dice.
In quel momento Cicuttini ha scontato circa 600 giorni di carcere per ogni carabiniere ucciso.
In questo momento, invece, quel ministro della giustizia è sottosegretario alle infrastrutture.

Dunque, la verità, circa, sull'esecuzione materiale: i tre rubano la Cinquecento il 26 maggio, tolgono la ruota di scorta e piazzano all'interno del bagagliaio da 5 a 8 chili di candelotti di esplosivo presi in un paio di cave del nordest. Collegano un meccanismo a strappo al sistema di apertura del cofano e la macchina venne portata la sera stessa sul luogo dell'imboscata. Per renderla 'sospetta' sparano con una pistola automatica calibro 22 un due colpi sul parabrezza. La pistola è di Cicuttini (verrà trovata accanto al corpo di Boccaccio dopo il fallito dirottamento, ma non se ne farà nulla).
Poi: “Senta, vorrei dirle che la xe una machina che la ga due busi sul parabrezza. La xe una cinquecento bianca, vizin la ferovia, sula strada per Savogna”. Altro che Mezzorana o Badin, quella è la voce di Cicuttini.

Un'altra storia.

I dubbi non sono tutti chiariti. Per esempio, come mai l'attentato nelle dichiarazioni di Vinciguerra è un attacco allo stato eppure lo stato fa di tutto per coprire e depistare?
Come ha scritto il senatore Pellegrino nella sua relazione della Commissione Stragi: “può ritenersi un fatto storico accertato […] l'illecita copertura attribuita agli estremisti di destra da parte di alti ufficiali dell'Arma dei Carabinieri, tra questi il col. Mingarelli, condannato dalla Corte di Assise di Venezia per falso materiale ed ideologico e per soppressione di prove, con decisione confermata dalla Cassazione nel maggio 1992” , così come “certo, o almeno estremamente probabile, deve ritenersi altresì che altro settore degli apparati, e cioè il SID (Servizio Informazioni Difesa), conoscesse l'identità dei colpevoli fin dal 1972”.
Una spiegazione sembra offrirla la scoperta della struttura di Gladio, emersa proprio durante le indagini del giudice Casson sulla strage di Peteano. La vicenda giudiziaria si chiude nel 1987 con la condanna all'ergastolo di Vinciguerra e Cicuttini quali esecutori materiali della strage. Ma da dove provenivano le armi? L'esplosivo veniva da quella cava di Aurisina scoperta pochi mesi prima dell'attentato e che poi è stata identificata come uno dei nascondigli di Gladio, provenienza secondo Casson anche degli accenditori a strappo usati per innescare l'autobomba? I depistaggi servivano a impedire che venisse alla luce la struttura segreta, che non a caso aveva complesse ramificazioni proprio qui a nord-est, la zona più esposta alla minaccia comunista?
Sono molto interessanti anche altre dichiarazioni di Vinciguerra, che si è autodenunciato per esporre chi tirava i fili, e che critica Casson per essersi fermato al livello basso dei carabinieri. I carabinieri, per Vinciguerra, nella strage di Peteano hanno svolto due ruoli: uno di copertura e uno di depistaggio. Di copertura, perché in quegli anni la politica del governo era usare i neri per colpire i rossi. Di depistaggio, perché quando hanno saputo, qualche giorno dopo, che l'attentatore era lui hanno usato il deposito di Aurisina tentando di accreditare un collegamento che non c'era: perché col Nasco di Aurisina hanno fatto saltare Gladio (e Gladio era un elemento che sfuggiva al controllo dell'Arma).
Questa la versione di Vinciguerra: il Ministero degli interni e la polizia di stato hanno dato l'ordine di disinteressarsi di Peteano. Sono state fatte sparire le prove, le lettere anonime che descrivevano assai bene l'attentatore. I Servizi segreti, Miceli e il Sid a loro volta hanno lavorato per il depistaggio e per la sparizione delle prove. E infine, la Guardia di Finanza: l'ufficio "I" aveva come informatore un fascista che a sua volta, dopo l'attentato, è andato a raccontare che i responsabili erano Vinciguerra e Cicuttini, nomi e cognomi.
Vinciguerra fa un'altra rivelazione interessante: tra il 1971 e il 1972 per ben tre volte Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi gli chiedono di assassinare Mariano Rumor, presidente del consiglio al tempo della strage di piazza Fontana. Guarda caso le tre richieste coincidono rispettivamente con la scarcerazione e l'arresto di Freda e l'imminente arresto di Rauti. Dunque c'è un collegamento tra questo piano e piazza Fontana: si voleva eliminare un personaggio politico compromesso con la strage, dice Vinciguerra, che intuisce un legame ad altissimo livello tra Polizia, Ministero degli interni, apparati di sicurezza e Ordine Nuovo.

Ma anche questa è già un'altra storia.
Qui volevo parlare dei sei di Gorizia, di una strage anomala, dell'embolo del nord-est, di una strada che io cerco di fare il più possibile (perché è molto bella) e Paolo fa ogni mattina (perché va al lavoro). Raccontare di frasche, campi di calcio, viottoli, legnaie, piste da ballo, trattorie con gioco di bocce e tiro al piccione, ristoranti. Di carrozzieri, meccanici, spiantati, muloni, pescatori, operai, imbianchini, donne con tanti fidanzati. Di partite di calcio sul primo e di film sul secondo.
Di una scritta sul muro di viale Virgilio, “Mariano Rumor boia”, di me che chiedo ad Antonia “Ma nonna, chi è Mariano Rumor?”, di lei che risponde tranquilla, soprappensiero, “forse un delinquente”.
E come facesse a saperlo non l'ho mai capito.

I sei di Gorizia si sono fatti 15 mesi di carcere, di cui due di isolamento. Poi c'è chi ha tirato avanti, chi ha ripreso a lavorare e ha fatto una vita tranquilla, chi ne è stato segnato, chi non ne può più di essere indicato come un piccolo delinquente comune ogni volta che si commemora la strage.
Alla Maria le questioni di cuore hanno dato sempre del filo da torcere. Un giorno ha dato appuntamento a due morosi sul ponte sull'Isonzo e uno dei due è finito di sotto. Adesso a Gorizia ci si ricorda del donnino biondo soprattutto per questo.
Romano è diventato uno chef famoso e bravissimo.

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Questo post deve tutto al libro di Gian Pietro Testa, La strage di Peteano, Torino, Einaudi, 1976, e qualcosa ai ricordi della mia famiglia.

Altro materiale prezioso:
Aa.Vv., La strategia delle stragi dalla sentenza della Corte d'Assise di Venezia per la strage di Peteano, Roma, Editori Riuniti, 1989
Mammarella Giuseppe, L'Italia contemporanea (1943-1998), Bologna, Il Mulino, 1998 (Nuova edizione de G.Mammarella, L'Italia dalla caduta del fascismo a oggi, Bologna, Il Mulino, 1974) Mestre, 5 maggio 1987, La strage di Peteano, processo (file audio della durata di circa 6 ore)
Pellegrino Giovanni-Sestieri Claudio-Fasanella Giovanni, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000
Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi (documento .pdf di 584 pagine)
Testa Gian Pietro, Le stragi nere, Roma, Avvenimenti, 1992

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