Il 24 marzo scorso a New York A. e T., due ragazzine di 16 anni, sono state arrestate con l'accusa di essere aspiranti terroriste suicide. Secondo un portavoce delle famiglie l'accusa è falsa, e l'FBI avrebbe semplicemente frainteso un compito in classe svolto da una delle due. Le due adolescenti erano immigrate illegalmente negli Stati Uniti dalla Guinea e dal Bangladesh negli anni Novanta (e dunque hanno passato la maggior parte della loro vita negli Stati Uniti; i loro fratelli sono cittadini americani). In un documento ufficiale sta scritto che le ragazze "rappresentavano un pericolo immediato per la sicurezza degli Stati Uniti in base a prove secondo cui stavano progettando un attentato suicida", ma queste prove non sono state specificate. Fonti federali anonime esprimono dei dubbi sulla fondatezza dell'accusa.
Tutto è cominciato quando la famiglia del Bangladesh si è rivolta alla polizia perché la figlia aveva passato una notte fuori casa; questo ha portato la polizia a perquisire gli effetti personali della ragazzina, compreso il suo computer, dove è stato trovato un compito in classe sul suicidio (cioè, non una cintura esplosiva, scritte inneggianti alla guerra santa, proclami contro gli Stati Uniti, copie pirata del Microsoft Flight Simulator: un tema). Non sono valse le rassicurazioni dei genitori, secondo i quali quel tema diceva semplicemente che il suicidio è contrario alla legge islamica.
Dei motivi che hanno portato all'arresto dell'altra ragazza si sa ancora meno; i suoi insegnanti non hanno ottenuto il permesso di parlare con lei, e non risulta che abbia un avvocato. "Questa ragazzina è vissuta negli Stati Uniti dall'età di due anni" – ha detto una professoressa – "È un'adolescente come le altre. Fino a due settimane fa la sua maggiore preoccupazione era quella di fare i compiti o di prepararsi all'esame di scienze." Una sedicenne che per l'entusiasmo di andare a vedere l'installazione di Christo in Central Park non si era presentata all'appuntamento all'ufficio immigrazione, e chissà che non sia stato questo a far scattare le indagini. Va' a sapere come vanno le cose con la Homeland Security.
A. e T. sono rinchiuse in un centro di detenzione in Pennsylvania, colpevoli fino a prova contraria.
Per seguire il loro caso e i problemi dei legal e illegal aliens schedati in base alla loro etnia e alla loro religione e arrestati per errore negli Stati Uniti dopo l'11 settembre è nato questo blog.
mercoledì, aprile 13, 2005
martedì, aprile 12, 2005
Photoshop this!
Nel Regno Unito a maggio si vota e il candidato conservatore Ed Matts ha pensato che fosse meglio ritoccare una fotografia (scattata circa un mese fa) per adeguarla alla linea dura del suo partito in materia di immigrazione.
Prima del fotoritocco: il candidato tiene tra le mani la fotografia di una famiglia di immigrati minacciata di espulsione, mentre accanto a lui Ann Widdencombe mostra un cartello con la scritta "lasciateli restare".
Dopo il fotoritocco: la fotografia della famiglia di immigrati è sparita e al suo posto appare un cartello con le parole "immigrazione controllata", mentre la scritta sul cartello della sua collega si è trasformata in "no al caos e alla disumanità". Sono scomparsi anche i manifestanti sullo sfondo.
Forse mi sbaglio, ma finora da noi l'uso di Photoshop in campagna elettorale si è limitato alle chiome e alle rughe di alcuni vanitosi.
Prima del fotoritocco: il candidato tiene tra le mani la fotografia di una famiglia di immigrati minacciata di espulsione, mentre accanto a lui Ann Widdencombe mostra un cartello con la scritta "lasciateli restare".
Dopo il fotoritocco: la fotografia della famiglia di immigrati è sparita e al suo posto appare un cartello con le parole "immigrazione controllata", mentre la scritta sul cartello della sua collega si è trasformata in "no al caos e alla disumanità". Sono scomparsi anche i manifestanti sullo sfondo.
Forse mi sbaglio, ma finora da noi l'uso di Photoshop in campagna elettorale si è limitato alle chiome e alle rughe di alcuni vanitosi.
lunedì, aprile 11, 2005
La solita calma relativa
Oggi John Petrovato su Znet tratta un tema che mi interessa molto, e sul quale mi è capitato di riflettere un po' in questi giorni leggendo i quotidiani italiani e stranieri.
Mi spiego. Quando si è diffusa la notizia dell'uccisione di tre adolescenti palestinesi da parte dell'Esercito di difesa israeliano, avvenuta sabato appena fuori dal campo profughi di Rafah, i mezzi d'informazione sono stati concordi nel sottolineare che si trattava del più grave incidente da quando, nel febbraio scorso, Abu Mazen e Sharon hanno annunciato un periodo di tregua. Dimenticando di dire che questi mesi proprio calmi non sono stati. E poi: l'esercito israeliano ricorre allo schema collaudato, il cosiddetto "shoot first, ask questions later", e nessuno più si preoccupa: semmai, ci si affretta a citare la dichiarazione ufficiale di Israele, secondo la quale si trattava di persone sospette. E poi: l'episodio si è verificato nella cosiddetta "zona di sicurezza" che si trova in territorio palestinese, e nessuno più si meraviglia. Quella zona di sicurezza viene costantemente allargata abbattendo le abitazioni palestinesi, in violazione della legge internazionale, ed evidentemente la cosa è ormai comunemente accettata dall'opinione pubblica e dai mezzi di informazione.
No: tutti d'accordo, invece, sul fatto che si è trattato dell'incidente più grave dopo un periodo di "calma", e che questo mette in pericolo la fragile pace conquistata a fatica di recente. Fragile pace? Eppure le notizie e i lanci di agenzia li leggo anch'io: o devo forse cambiare pusher?
Ecco perché mi sembra importante quello che oggi scrive Petrovato:
"Quando si parla della cosiddetta calma degli ultimi mesi, si dovrebbe sottolineare che la 'fragile pace' è stata quotidianamente minacciata da centinaia di atti di umiliazione, di paura e di violenza nei territori occupati. Se le uccisioni mettono in pericolo questa 'fragile pace', anche la minaccia e la messa in atto della violenza la mettono in pericolo. Di fatto, ogni volta che i mezzi militari israeliani invadono villaggi e città (cosa che accade tutti i giorni in Cisgiordania) e impediscono alla gente di uscire di casa, la fragile pace è in pericolo.
Ogni volta che una persona è prelevata a caso mentre è in coda a un posto blocco (all’interno dei territori palestinesi) e picchiata e umiliata di fronte alla sua famiglia, la pace è pericolo.
Ogni volta che una donna o il bambino che porta in grembo muoiono perché i militari israeliani impediscono a un’ambulanza di portarli all’ospedale, la pace è in pericolo. Ogni volta che la terra è sottratta a una famiglia palestinese per costruirvi il cosiddetto muro di sicurezza o a beneficio di cittadini ebrei di Israele, la pace è in pericolo.
Ogni incidente in cui i coloni israeliani, che risiedono illegalmente nei territori occupati, attaccano fisicamente i palestinesi e le loro proprietà senza essere puniti, la pace è in pericolo (come è accaduto la scorsa settimana, quando coloni israeliani mascherati hanno attaccato dei palestinesi e le loro case in diverse località della Cisgiordania; o il 7 aprile, quando le guardie private dei coloni israeliani hanno sparato a quattro membri di una famiglia del villaggio di Deir Ballut mentre lavoravano nei campi).
Ogni volta che un genitore sa che suo figlio è stato maltrattato dai militari israeliani, la pace è in pericolo (come è successo ieri, quando i soldati israeliani hanno fatto irruzione in un asilo e hanno trattenuto un’ottantina di bambini in una stanza per 90 minuti).
Ogni volta che le proteste non violente vengono affrontate dall’esercito israeliano con la violenza, con percosse, arresti, e l’uso di proiettili rivestiti di gomma, la pace è in pericolo (come quando cinque manifestanti non violenti sono stati feriti in seguito a un attacco con gas lacrimogeni, granate sonore e proiettili di gomma, l’8 aprile scorso, in un villaggio a ovest di Ramallah).
Ogni volta che un palestinese è imprigionato e torturato in un carcere israeliano senza processo o possibilità di vedere un avvocato o i familiari, la pace è in pericolo. E ogni volta che i media si scandalizzano di fronte alla sofferenza degli israeliani ma chiudono un occhio sulla sofferenza dei palestinesi, ancora una volta la pace è in pericolo".
Ho l'impressione che quella Palestina simbolica di cui parla Ramzy Baroud nel pezzo citato oggi sul blog di Umkahlil (la versione completa è qui) abbia davvero dirottato la Palestina reale: la Palestina "aleggia nella coscienza mondiale come poco più di un simbolo", mentre "la realtà della Palestina - la sofferenza, la perdita, la disperazione e il dolore, i campi profughi, i posti di blocco, gli insediamenti in espansione, il muro, le vite spezzare, le prigioni affollate, la rabbia e il predominante sensazione di essere stati traditi, le bombe umane, l’economia devastata, i frutteti distrutti dalle ruspe, una paura del futuro che dura da cinquant'anni – tutto questo sembra essere la parte meno rilevante".
Mi spiego. Quando si è diffusa la notizia dell'uccisione di tre adolescenti palestinesi da parte dell'Esercito di difesa israeliano, avvenuta sabato appena fuori dal campo profughi di Rafah, i mezzi d'informazione sono stati concordi nel sottolineare che si trattava del più grave incidente da quando, nel febbraio scorso, Abu Mazen e Sharon hanno annunciato un periodo di tregua. Dimenticando di dire che questi mesi proprio calmi non sono stati. E poi: l'esercito israeliano ricorre allo schema collaudato, il cosiddetto "shoot first, ask questions later", e nessuno più si preoccupa: semmai, ci si affretta a citare la dichiarazione ufficiale di Israele, secondo la quale si trattava di persone sospette. E poi: l'episodio si è verificato nella cosiddetta "zona di sicurezza" che si trova in territorio palestinese, e nessuno più si meraviglia. Quella zona di sicurezza viene costantemente allargata abbattendo le abitazioni palestinesi, in violazione della legge internazionale, ed evidentemente la cosa è ormai comunemente accettata dall'opinione pubblica e dai mezzi di informazione.
No: tutti d'accordo, invece, sul fatto che si è trattato dell'incidente più grave dopo un periodo di "calma", e che questo mette in pericolo la fragile pace conquistata a fatica di recente. Fragile pace? Eppure le notizie e i lanci di agenzia li leggo anch'io: o devo forse cambiare pusher?
Ecco perché mi sembra importante quello che oggi scrive Petrovato:
"Quando si parla della cosiddetta calma degli ultimi mesi, si dovrebbe sottolineare che la 'fragile pace' è stata quotidianamente minacciata da centinaia di atti di umiliazione, di paura e di violenza nei territori occupati. Se le uccisioni mettono in pericolo questa 'fragile pace', anche la minaccia e la messa in atto della violenza la mettono in pericolo. Di fatto, ogni volta che i mezzi militari israeliani invadono villaggi e città (cosa che accade tutti i giorni in Cisgiordania) e impediscono alla gente di uscire di casa, la fragile pace è in pericolo.
Ogni volta che una persona è prelevata a caso mentre è in coda a un posto blocco (all’interno dei territori palestinesi) e picchiata e umiliata di fronte alla sua famiglia, la pace è pericolo.
Ogni volta che una donna o il bambino che porta in grembo muoiono perché i militari israeliani impediscono a un’ambulanza di portarli all’ospedale, la pace è in pericolo. Ogni volta che la terra è sottratta a una famiglia palestinese per costruirvi il cosiddetto muro di sicurezza o a beneficio di cittadini ebrei di Israele, la pace è in pericolo.
Ogni incidente in cui i coloni israeliani, che risiedono illegalmente nei territori occupati, attaccano fisicamente i palestinesi e le loro proprietà senza essere puniti, la pace è in pericolo (come è accaduto la scorsa settimana, quando coloni israeliani mascherati hanno attaccato dei palestinesi e le loro case in diverse località della Cisgiordania; o il 7 aprile, quando le guardie private dei coloni israeliani hanno sparato a quattro membri di una famiglia del villaggio di Deir Ballut mentre lavoravano nei campi).
Ogni volta che un genitore sa che suo figlio è stato maltrattato dai militari israeliani, la pace è in pericolo (come è successo ieri, quando i soldati israeliani hanno fatto irruzione in un asilo e hanno trattenuto un’ottantina di bambini in una stanza per 90 minuti).
Ogni volta che le proteste non violente vengono affrontate dall’esercito israeliano con la violenza, con percosse, arresti, e l’uso di proiettili rivestiti di gomma, la pace è in pericolo (come quando cinque manifestanti non violenti sono stati feriti in seguito a un attacco con gas lacrimogeni, granate sonore e proiettili di gomma, l’8 aprile scorso, in un villaggio a ovest di Ramallah).
Ogni volta che un palestinese è imprigionato e torturato in un carcere israeliano senza processo o possibilità di vedere un avvocato o i familiari, la pace è in pericolo. E ogni volta che i media si scandalizzano di fronte alla sofferenza degli israeliani ma chiudono un occhio sulla sofferenza dei palestinesi, ancora una volta la pace è in pericolo".
Ho l'impressione che quella Palestina simbolica di cui parla Ramzy Baroud nel pezzo citato oggi sul blog di Umkahlil (la versione completa è qui) abbia davvero dirottato la Palestina reale: la Palestina "aleggia nella coscienza mondiale come poco più di un simbolo", mentre "la realtà della Palestina - la sofferenza, la perdita, la disperazione e il dolore, i campi profughi, i posti di blocco, gli insediamenti in espansione, il muro, le vite spezzare, le prigioni affollate, la rabbia e il predominante sensazione di essere stati traditi, le bombe umane, l’economia devastata, i frutteti distrutti dalle ruspe, una paura del futuro che dura da cinquant'anni – tutto questo sembra essere la parte meno rilevante".
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Palestina
venerdì, aprile 08, 2005
Modelli di "occupazione democratica"
Oggi Counterpunch pubblica un articolo di Neve Gordon, professore dell'Università Ben-Gurion, in Israele. È interessante il parallelismo che Gordon traccia tra lo schema dell'occupazione israeliana in Cisgiordania e Striscia di Gaza e quello dell'occupazione statunitense dell'Iraq: entrambi si fondano sul principio dell'outsourcing, o terziarizzazione, che consiste nel trasferire alcune funzioni alle autorità locali per mantenere indisturbato il controllo delle risorse.
Israele è dunque la chiave per comprendere la strategia di Bush in Iraq, perché l’attuale amministrazione ha adottato il modello di “occupazione democratica” che Israele ha introdotto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza:
"Dopo lo scoppio della prima Intifada palestinese, nel dicembre del 1987, Israele dovette dispiegare un numero relativamente ingente di truppe per sostenere l’occupazione, esattamente come gli Stati Uniti stanno facendo in Iraq. Questo fece sì che l’occupazione israeliana si trasformasse da iniziativa economicamente redditizia a perdita finanziaria; così Israele ebbe l’ingegnosa idea di trasferire la responsabilità della popolazione occupata pur continuando a mantenere il controllo sulle risorse naturali (in questo caso, la terra e l’acqua).
In seguito a una serie di negoziati fu fondata Autorità palestinese, un’entità che si prestò al ruolo di gestire la vita quotidiana degli abitanti dei Territori Occupati mentre Israele continuava a controllare più dell’80% della terra. In pochi mesi le istituzioni civili necessarie ad amministrare la popolazione nelle società moderne – e tra queste l’istruzione, la sanità, i servizi – passarono dalle mani di Israele a quelle della neonata autorità, alla quale fu concessa anche una forma limitata di sovranità. Così, senza rinunciare al proprio diritto di governare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, Israele in un certo senso subappaltò la gestione della popolazione all’Autorità Palestinese, riducendo così in modo rilevante il costo dell’occupazione".
A questo punto entrarono in gioco le "elezioni democratiche":
"Le elezioni democratiche che si svolsero nei Territori Occupati nel gennaio 1996 ebbero un’importanza cruciale nel conferire all’AP un certo grado di legittimità. Certo, l’Autorità Palestinese non finì per realizzare tutti i desideri di Israele, e in molti sensi divenne una realtà recalcitrante, ma questo ha poco a che fare con gli obiettivi iniziali di Israele".
Ecco allora perché l'occupazione dei Territori è fondamentale per capire quella dell'Iraq:
"In primo luogo, come Israele, gli Stati Uniti hanno fatto distinzione tra gli abitanti del paese occupato e le loro risorse. L’idea dell’Amministrazione Bush è di permettere agli iracheni di gestirsi da soli, tagliando così i costi dell’occupazione, e allo stesso tempo di continuare a controllare i giacimenti petroliferi.[...]
In secondo luogo, se Israele non è stato di certo il primo paese a inscenare elezioni democratiche in un contesto di occupazione, è stata di certo la prima potenza a reintrodurre questa pratica in era post-coloniale per legittimare un’occupazione in corso. L’Amministrazione Bush ha trovato utile questa strategia perché si adatta perfettamente con il concetto di “diffusione della libertà” in Medio Oriente. Visto che non si può promuovere la libertà e al tempo stesso instaurare un governo fantoccio, Bush è stato molto chiaro a proposito della necessità delle elezioni. Il fatto è che l’obiettivo di queste elezioni non è trasferire potere e autorità nelle mani del popolo iracheno, ma piuttosto legittimare il controllo statunitense della regione".
Quindi l'attuale dibattito tra i liberali sulla legittimità di queste elezioni è poco pertinente: il punto è che, anche se queste elezioni si fossero svolte democraticamente, "gli iracheni non avrebbero ancora voce in capitolo, per esempio, nella questione dell’impiego di truppe straniere nel loro paese. A conti fatti, il nuovo 'governo democratico' in Iraq è stato creato per gestire la popolazione locale così che l’élite economica della potenza occupante possa godere indisturbata delle spoglie di guerra".
Israele è dunque la chiave per comprendere la strategia di Bush in Iraq, perché l’attuale amministrazione ha adottato il modello di “occupazione democratica” che Israele ha introdotto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza:
"Dopo lo scoppio della prima Intifada palestinese, nel dicembre del 1987, Israele dovette dispiegare un numero relativamente ingente di truppe per sostenere l’occupazione, esattamente come gli Stati Uniti stanno facendo in Iraq. Questo fece sì che l’occupazione israeliana si trasformasse da iniziativa economicamente redditizia a perdita finanziaria; così Israele ebbe l’ingegnosa idea di trasferire la responsabilità della popolazione occupata pur continuando a mantenere il controllo sulle risorse naturali (in questo caso, la terra e l’acqua).
In seguito a una serie di negoziati fu fondata Autorità palestinese, un’entità che si prestò al ruolo di gestire la vita quotidiana degli abitanti dei Territori Occupati mentre Israele continuava a controllare più dell’80% della terra. In pochi mesi le istituzioni civili necessarie ad amministrare la popolazione nelle società moderne – e tra queste l’istruzione, la sanità, i servizi – passarono dalle mani di Israele a quelle della neonata autorità, alla quale fu concessa anche una forma limitata di sovranità. Così, senza rinunciare al proprio diritto di governare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, Israele in un certo senso subappaltò la gestione della popolazione all’Autorità Palestinese, riducendo così in modo rilevante il costo dell’occupazione".
A questo punto entrarono in gioco le "elezioni democratiche":
"Le elezioni democratiche che si svolsero nei Territori Occupati nel gennaio 1996 ebbero un’importanza cruciale nel conferire all’AP un certo grado di legittimità. Certo, l’Autorità Palestinese non finì per realizzare tutti i desideri di Israele, e in molti sensi divenne una realtà recalcitrante, ma questo ha poco a che fare con gli obiettivi iniziali di Israele".
Ecco allora perché l'occupazione dei Territori è fondamentale per capire quella dell'Iraq:
"In primo luogo, come Israele, gli Stati Uniti hanno fatto distinzione tra gli abitanti del paese occupato e le loro risorse. L’idea dell’Amministrazione Bush è di permettere agli iracheni di gestirsi da soli, tagliando così i costi dell’occupazione, e allo stesso tempo di continuare a controllare i giacimenti petroliferi.[...]
In secondo luogo, se Israele non è stato di certo il primo paese a inscenare elezioni democratiche in un contesto di occupazione, è stata di certo la prima potenza a reintrodurre questa pratica in era post-coloniale per legittimare un’occupazione in corso. L’Amministrazione Bush ha trovato utile questa strategia perché si adatta perfettamente con il concetto di “diffusione della libertà” in Medio Oriente. Visto che non si può promuovere la libertà e al tempo stesso instaurare un governo fantoccio, Bush è stato molto chiaro a proposito della necessità delle elezioni. Il fatto è che l’obiettivo di queste elezioni non è trasferire potere e autorità nelle mani del popolo iracheno, ma piuttosto legittimare il controllo statunitense della regione".
Quindi l'attuale dibattito tra i liberali sulla legittimità di queste elezioni è poco pertinente: il punto è che, anche se queste elezioni si fossero svolte democraticamente, "gli iracheni non avrebbero ancora voce in capitolo, per esempio, nella questione dell’impiego di truppe straniere nel loro paese. A conti fatti, il nuovo 'governo democratico' in Iraq è stato creato per gestire la popolazione locale così che l’élite economica della potenza occupante possa godere indisturbata delle spoglie di guerra".
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giovedì, aprile 07, 2005
New, improved baby
Poco più di un mese, e già saluta così.
Neonato meraviglioso.
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martedì, aprile 05, 2005
3.848 su 3.916 sezioni
È fatta.
Grandissimo Nichi.
Grandissimo Nichi.
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dobraroba
lunedì, aprile 04, 2005
Test drive
"Non ti sembra di sentire come un leggerissimo frrrrrrrr di sottofondo quando sei in quinta, intorno ai cento all'ora?"
"Non preoccuparti, la settimana prossima mi faccio installare l'autoradio".
"Non preoccuparti, la settimana prossima mi faccio installare l'autoradio".
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Rifiuti
Giusto quello di cui si sentiva la mancanza in Cisgiordania: una bella discarica israeliana.
Per la prima volta dal 1967 Israele ha deciso di trasferire i propri rifiuti (circa diecimila tonnellate) oltre la Linea Verde e di scaricarli nella West Bank. Il progetto è stato intrapreso nonostante i trattati internazionali proibiscano a uno stato occupante di utilizzare il territorio occupato, a meno che ciò non porti benefici alla popolazione locale, e nonostante manchi ancora l'autorizzazione del Ministero dell'Ambiente.
Inoltre questo utilizzo della cava di Kedumim - situata tra l'insediamento di Kedumim e Nablus - metterà in pericolo le fonti idriche palestinesi, contaminando un'importante falda acquifera: e questo perché la discarica, in origine utilizzata per i rifiuti secchi, riceverà e assorbirà rifiuti domestici umidi, e quindi sostanze organiche.
Si creerà così una situazione assurda. La Cisgiordania è piena di discariche abusive (e pericolose per le falde acquifere) perché i palestinesi non hanno il permesso di realizzare strutture moderne di smaltimento dei rifiuti. Quella di Kedumim sarà in effetti una discarica moderna, ma servirà esclusivamente per i rifiuti provenienti da Israele.
Qui il link all'articolo di Haaretz (via Angry Arab).
Per la prima volta dal 1967 Israele ha deciso di trasferire i propri rifiuti (circa diecimila tonnellate) oltre la Linea Verde e di scaricarli nella West Bank. Il progetto è stato intrapreso nonostante i trattati internazionali proibiscano a uno stato occupante di utilizzare il territorio occupato, a meno che ciò non porti benefici alla popolazione locale, e nonostante manchi ancora l'autorizzazione del Ministero dell'Ambiente.
Inoltre questo utilizzo della cava di Kedumim - situata tra l'insediamento di Kedumim e Nablus - metterà in pericolo le fonti idriche palestinesi, contaminando un'importante falda acquifera: e questo perché la discarica, in origine utilizzata per i rifiuti secchi, riceverà e assorbirà rifiuti domestici umidi, e quindi sostanze organiche.
Si creerà così una situazione assurda. La Cisgiordania è piena di discariche abusive (e pericolose per le falde acquifere) perché i palestinesi non hanno il permesso di realizzare strutture moderne di smaltimento dei rifiuti. Quella di Kedumim sarà in effetti una discarica moderna, ma servirà esclusivamente per i rifiuti provenienti da Israele.
Qui il link all'articolo di Haaretz (via Angry Arab).
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domenica, aprile 03, 2005
A song
I had wanted a quiet testament
and I had wanted, among other things,
a song.
That was to be
of a like monotony.
(A grace
Simply. Very very quiet.
A murmur of some lost
thrush, though I have never seen one.
Which was you then. Sitting
and so, at peace, so very much now this same quiet.
A song.
And of you the sign now, surely, of a gross
perpetuity
(which is not reluctant, or if it is,
it is no longer important.
A song.
Which one sings, if he sings it,
with care.
Robert Creeley (1926-2005)
and I had wanted, among other things,
a song.
That was to be
of a like monotony.
(A grace
Simply. Very very quiet.
A murmur of some lost
thrush, though I have never seen one.
Which was you then. Sitting
and so, at peace, so very much now this same quiet.
A song.
And of you the sign now, surely, of a gross
perpetuity
(which is not reluctant, or if it is,
it is no longer important.
A song.
Which one sings, if he sings it,
with care.
Robert Creeley (1926-2005)
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venerdì, aprile 01, 2005
The Beeb Marley
Ammettiamolo, è stato un 1° aprile comprensibilmente sottotono.
Fino a quando la BBC non ha deciso di chiedere un'intervista a Bob Marley.
Fino a quando la BBC non ha deciso di chiedere un'intervista a Bob Marley.
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giovedì, marzo 31, 2005
Ragni
"Devo dedurre dalla sua affermazione che lei sarebbe più contento se Saddam Hussein fosse ancora al potere". Questa è la risposta che Paul Wolfowitz diede a uno studente che gli aveva appena detto: "Siamo stufi di essere temuti e odiati dal mondo. Siamo stufi di assistere alla morte di americani e iracheni, e di essere rabbiosamente disapprovati dalle istituzioni internazionali". Ed è la classica risposta dei neoconservatori e dei sostenitori dell'invasione dell'Iraq a chi non la pensa come loro.
Tomdispatch segnala in proposito un post di R. J. Eskow ripreso da CommonDreams che rispecchia un modo di pensare non necessariamente pacifista o progressista né particolarmente strutturato (Eskow è l'autore di un blog su God, Guts & Guitars che definisce "mostly progressive, all-American"), e proprio per questo interessante:
"Supponiamo che mi dia fastidio vedere un ragno che cammina sulla parete del mio garage. Ci mando a sbattere la mia auto a cento all'ora, distruggendo la macchina e causando migliaia di dollari di danni al garage. Se mia moglie protesta le dico: "Devo dedurre dalla tua affermazione che saresti più contenta se quel ragno camminasse ancora sulla parete". No, cretino, dice lei, sarei più contenta se avessimo ancora una macchina e non dovessimo sborsare diecimila dollari per riparare il garage.
[...]
E così, caro Wolfy e chiunque altro sia tentato di fare questa domanda: No. Io non sarei più contento se Saddam Hussein fosse ancora al potere. Sarei più contento se 1500 americani e dai 20.000 ai 150.000 civili iracheni fossero ancora vivi. Sarei più contento se decine di migliaia di soldati americani non avessero davanti a sé un futuro di deformazioni, di menomazioni e/o di traumi psicologici. Sarei più contento se il mio paese non violasse la legge internazionale. Sarei contento se un governo immorale e dei mezzi di informazione incompetenti non ci stessero mentendo. Sarei più contento se facessimo qualcos'altro con i 250 miliardi di dollari che spendiamo per finanziare questa guerra. Sarei più contento se fosse stata portata avanti la valida tattica di contenimento di Saddam. Sarei più contento se non avessimo fatto tutto questo solo per sostituire la dittatura di Saddam con una teocrazia filoiraniana. Sarei più contento se potessimo risparmiare delle risorse militari, magari per soccorrere gli indifesi del Darfur.
La mia felicità non è mai stata influenzata dalla carriera di Saddam Hussein.
La mia felicità è influenzata dalle condizioni degli americani e degli iracheni che hanno sofferto inutilmente a causa della vostra guerra.
E ora passiamo alla prossima domanda".
Tomdispatch segnala in proposito un post di R. J. Eskow ripreso da CommonDreams che rispecchia un modo di pensare non necessariamente pacifista o progressista né particolarmente strutturato (Eskow è l'autore di un blog su God, Guts & Guitars che definisce "mostly progressive, all-American"), e proprio per questo interessante:
"Supponiamo che mi dia fastidio vedere un ragno che cammina sulla parete del mio garage. Ci mando a sbattere la mia auto a cento all'ora, distruggendo la macchina e causando migliaia di dollari di danni al garage. Se mia moglie protesta le dico: "Devo dedurre dalla tua affermazione che saresti più contenta se quel ragno camminasse ancora sulla parete". No, cretino, dice lei, sarei più contenta se avessimo ancora una macchina e non dovessimo sborsare diecimila dollari per riparare il garage.
[...]
E così, caro Wolfy e chiunque altro sia tentato di fare questa domanda: No. Io non sarei più contento se Saddam Hussein fosse ancora al potere. Sarei più contento se 1500 americani e dai 20.000 ai 150.000 civili iracheni fossero ancora vivi. Sarei più contento se decine di migliaia di soldati americani non avessero davanti a sé un futuro di deformazioni, di menomazioni e/o di traumi psicologici. Sarei più contento se il mio paese non violasse la legge internazionale. Sarei contento se un governo immorale e dei mezzi di informazione incompetenti non ci stessero mentendo. Sarei più contento se facessimo qualcos'altro con i 250 miliardi di dollari che spendiamo per finanziare questa guerra. Sarei più contento se fosse stata portata avanti la valida tattica di contenimento di Saddam. Sarei più contento se non avessimo fatto tutto questo solo per sostituire la dittatura di Saddam con una teocrazia filoiraniana. Sarei più contento se potessimo risparmiare delle risorse militari, magari per soccorrere gli indifesi del Darfur.
La mia felicità non è mai stata influenzata dalla carriera di Saddam Hussein.
La mia felicità è influenzata dalle condizioni degli americani e degli iracheni che hanno sofferto inutilmente a causa della vostra guerra.
E ora passiamo alla prossima domanda".
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Freedom fries,
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Six Feet Under
We said that Manfred Alexander had had "a spell in prison in Switzerland and a period of interment" when we meant internment ('An act of true friendship, G2 page 2, March 29). Interment is burial, internment is detention.
The Guardian, sezione "Corrections".
The Guardian, sezione "Corrections".
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Latinorum
A universal message from the pope is known as Urbi et Orbi ("for the city and for the world") and not Orbis et Urbi, as we had it in our report, Pope too ill for Easter services, page 2, March 26.
The Guardian, sezione "Corrections".
The Guardian, sezione "Corrections".
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martedì, marzo 29, 2005
Sempre a proposito di impunità americana
Avrei dovuto e voluto linkarlo allora, quando tutti abbiamo pensato alla strage del Cermis, e a come è andata a finire. Adesso però, superata l'emotività e la confusione del momento (e tante bassezze, e non poche plateali cadute di stile) forse è utile ragionare a mente fredda sulla famosa impunità americana e sull'inadeguatezza della catena di comando italo-statunitense.
Augusta, partendo dalla strage del Cermis, si pone la fatidica domanda - "Chi comanda ad Aviano?" - e racconta la sua esperienza personale: nel 1994 entrò a far parte del Comitato Misto Paritetico Servitù Militari, e grazie a questo riuscì ad ottenere il Memorandum che consentiva di conoscere la catena di comando e i modi del suo esercizio legittimo nelle basi italiane concesse in uso agli USA; si dimise nel 1997, prima della strage del Cermis.
Questi tre post sono molto istruttivi (vi consiglio di stamparli e di leggerli con calma) anche perché tengono conto delle realtà locali (regioni, comuni e organizzazioni della società civile) e dei limiti e delle contraddizioni con cui certe iniziative solo genericamente pacifiste dovrebbero confrontarsi per essere efficaci e per incidere politicamente. Sono anche, secondo me, un bell'esempio di impegno civile, di serietà e di sana testardaggine.
Eccole qui, le tre puntate su Aviano:
http://diariealtro.splinder.com/post/4245314
http://diariealtro.splinder.com/post/4255635
http://diariealtro.splinder.com/post/4277172
Augusta, partendo dalla strage del Cermis, si pone la fatidica domanda - "Chi comanda ad Aviano?" - e racconta la sua esperienza personale: nel 1994 entrò a far parte del Comitato Misto Paritetico Servitù Militari, e grazie a questo riuscì ad ottenere il Memorandum che consentiva di conoscere la catena di comando e i modi del suo esercizio legittimo nelle basi italiane concesse in uso agli USA; si dimise nel 1997, prima della strage del Cermis.
Questi tre post sono molto istruttivi (vi consiglio di stamparli e di leggerli con calma) anche perché tengono conto delle realtà locali (regioni, comuni e organizzazioni della società civile) e dei limiti e delle contraddizioni con cui certe iniziative solo genericamente pacifiste dovrebbero confrontarsi per essere efficaci e per incidere politicamente. Sono anche, secondo me, un bell'esempio di impegno civile, di serietà e di sana testardaggine.
Eccole qui, le tre puntate su Aviano:
http://diariealtro.splinder.com/post/4245314
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No such thing as a bicep
Niente da fare, al Guardian hanno un problema di bicipiti.
Infatti, dopo la rettifica di qualche mese fa, ci ricascano:
"The singular of biceps is biceps. There is no such thing as a bicep (Wilkinson reels as fresh injury hits Lions hopes, Sport, page 20, March 14)".
The Guardian, sezione "Corrections".
Lo ammetto senza problemi: questo esibizionistico perseverare nei propri errori, cadere in lapsus pythoniani e infrangere trionfalmente le regole dello stylebook è per me fonte d'allegria e quasi di ispirazione.
Infatti, dopo la rettifica di qualche mese fa, ci ricascano:
"The singular of biceps is biceps. There is no such thing as a bicep (Wilkinson reels as fresh injury hits Lions hopes, Sport, page 20, March 14)".
The Guardian, sezione "Corrections".
Lo ammetto senza problemi: questo esibizionistico perseverare nei propri errori, cadere in lapsus pythoniani e infrangere trionfalmente le regole dello stylebook è per me fonte d'allegria e quasi di ispirazione.
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corrections
La cultura dell'impunità
Jeremy Scahill di Democracy Now sintetizza per Counterpunch l'intervista di Naomi Klein a Giuliana Sgrena (riassunta qui), e commenta:
"Giuliana Sgrena sarebbe probabilmente la prima a dire che concentrare tutta l'attenzione sul suo caso significherebbe perdere di vista le dimensioni della tremenda violenza quotidiana che gli iracheni devono sperimentare per mano degli Stati Uniti. [...]
[Giuliana] sa meglio di chiunque altro che se lei e l'ufficiale italiano ucciso dalle truppe USA mentre cercava di portarla in salvo fossero stati semplici civili iracheni, questa sarebbe stata ancora di più una "non storia" di quanto già lo sia nella stampa americana.
Con i casi di Terri Schiavo e Michael Jackson da seguire, è piuttosto difficile per la maggior parte degli organi di informazione trovare il tempo per riferire di qualcuno degli oltre 100.000 civili iracheni uccisi dall'inizio dell'invasione, due anni fa.
Ecco perché casi come quello di Sgrena sono importanti: perché rappresentano un'occasione per mostrare al mondo quel tipo di realtà che gli iracheni devono affrontare ogni giorno delle loro vite. Il numero di rapimenti è allarmante; i soldati americani sono sempre pronti a sparare. Le uccisioni vengono giustificate dal comando americano - ed è già tanto che siano ammesse - proponendo una versione dei fatti superficiale e inconsistente che non reggerebbe in nessun tribunale americano (tranne forse una corte militare)".
Ecco perché, secondo Scahill, il caso di Giuliana Sgrena
"getta una luce importante sulla cultura dell'impunità che circonda l'occupazione americana dell'Iraq. Se questo è il modo in cui Washington tratta l'Italia, uno dei suoi alleati più stretti nella cosiddetta guerra al terrore, quando i soldati stitunitensi uccidono il secondo uomo più importante dei servizi segreti, immaginate la lotta degli iracheni che muoiono a decine di migliaia. Non hanno una figura potente come Silvio Berlusconi che parli per loro. Hanno invece i giornalisti indipendenti come Giuliana Sgrena, che rischiano la vita per raccontare queste storie".
"Giuliana Sgrena sarebbe probabilmente la prima a dire che concentrare tutta l'attenzione sul suo caso significherebbe perdere di vista le dimensioni della tremenda violenza quotidiana che gli iracheni devono sperimentare per mano degli Stati Uniti. [...]
[Giuliana] sa meglio di chiunque altro che se lei e l'ufficiale italiano ucciso dalle truppe USA mentre cercava di portarla in salvo fossero stati semplici civili iracheni, questa sarebbe stata ancora di più una "non storia" di quanto già lo sia nella stampa americana.
Con i casi di Terri Schiavo e Michael Jackson da seguire, è piuttosto difficile per la maggior parte degli organi di informazione trovare il tempo per riferire di qualcuno degli oltre 100.000 civili iracheni uccisi dall'inizio dell'invasione, due anni fa.
Ecco perché casi come quello di Sgrena sono importanti: perché rappresentano un'occasione per mostrare al mondo quel tipo di realtà che gli iracheni devono affrontare ogni giorno delle loro vite. Il numero di rapimenti è allarmante; i soldati americani sono sempre pronti a sparare. Le uccisioni vengono giustificate dal comando americano - ed è già tanto che siano ammesse - proponendo una versione dei fatti superficiale e inconsistente che non reggerebbe in nessun tribunale americano (tranne forse una corte militare)".
Ecco perché, secondo Scahill, il caso di Giuliana Sgrena
"getta una luce importante sulla cultura dell'impunità che circonda l'occupazione americana dell'Iraq. Se questo è il modo in cui Washington tratta l'Italia, uno dei suoi alleati più stretti nella cosiddetta guerra al terrore, quando i soldati stitunitensi uccidono il secondo uomo più importante dei servizi segreti, immaginate la lotta degli iracheni che muoiono a decine di migliaia. Non hanno una figura potente come Silvio Berlusconi che parli per loro. Hanno invece i giornalisti indipendenti come Giuliana Sgrena, che rischiano la vita per raccontare queste storie".
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lunedì, marzo 28, 2005
Una strada completamente diversa
Ieri il bellissimo peacepalestine, anche grazie a umkahlil (altro weblog che merita visite frequenti), ha pubblicato un post sull'intervista di Naomi Klein a Democracy Now a proposito del suo incontro con Giuliana Sgrena. Ho tradotto velocemente alcuni passi molto interessanti (interessanti perché il sovraccarico di informazione che si è creato sulla vicenda ha finito per mettere in ombra o in secondo piano alcuni dettagli importanti). Non è la prima volta, ovviamente, che Giuliana Sgrena parla dell'"altra strada" (ricordo un'intervista a Ballarò in cui lo disse molto chiaramente), diversa da quella famigerata dell'aeroporto.
Nella sua intervista Klein torna ripetutamente su questo aspetto (e sulla direzione da cui sono giunti gli spari):
"[Giuliana] mi ha raccontato molte cose sull'incidente che non avevo ben capito leggendo i giornali. Per prima cosa, voglio dire che Giuliana non sta in alcun modo dicendo di esser certa che l'attacco alla macchina fosse intenzionale.
Sta semplicemente dicendo che ha tante domande che non hanno ricevuto risposta, e che ci sono molte parti della sua esperienza personale che semplicemente non coincidono con la versione ufficiale dei fatti offerta dagli Stati Uniti.
Una delle cose che continuano a ripeterci è che la sparatoria è avvenuta sulla strada per l'aeroporto, che è notoriamente molto pericolosa. Di fatto, è spesso descritta come la strada più pericolosa del mondo. Quindi, il fatto che si sia stata una sparatoria di questo tipo su quella strada è considerato un incidente frequente e comprensibile. Ci sono stata anch'io, su quella strada, ed è un posto davvero insidioso, con continue esplosioni e molti posti di blocco.
Quello che Giuliana mi ha detto e che prima non avevo capito è che lei non si trovava affatto su quella strada. Viaggiava su una strada completamente diversa, della quale io non conoscevo nemmeno l'esistenza. È una strada messa in sicurezza, chiusa, alla quale si può accedere solo attraverso la Zona Verde e che è esclusivamente riservata agli ambasciatori e agli alti ufficiali. Così, quando Calipari, l'ufficiale dei servizi italiani, liberò Giuliana, si diressero verso la Zona Verde, attraversarono il complicato sistema di posti di blocco che tutti devono affrontare per entrare nella Zona Verde, compresi i controlli dei militari americani, e poi entrarono in questa strada chiusa.
E Giuliana mi ha raccontato un'altra cosa che le dà un grande senso di frustrazione, e cioè che si sia detto che il veicolo che sparò alla loro macchina faceva parte di un posto di blocco. Dice che non c'era nessun posto di blocco. Si trattava semplicemente di un mezzo blindato che era parcheggiato sul lato della strada e che aprì il fuoco. Non vi fu nessun tentativo di fermare la macchina, ha detto, né segnalazioni di alcun tipo. Dal suo punto di vista, il blindato fece semplicemente fuoco. Sono stata sorpresa da un'altra cosa che mi ha detto, e cioè che i colpi
arrivarono da dietro. Io penso che parte di ciò che ci è stato raccontato sia che i soldati statunitensi aprirono il fuoco sulla macchina perché non sapevano chi si trovava a bordo, e si spaventarono. Fu difesa personale, avevano paura. La paura, ovviamente, era che la macchina potesse esplodere, o di essere attaccati. E Giuliana Sgrena con me ha sottolineato che il proiettile che ha grevemente ferito lei e ha ucciso Calipari veniva da dietro, ed è entrato attraverso il sedile posteriore della macchina. La sola persona a essere ferita solo lievemente è stato l'autista, e secondo lei è perché gli spari non venivano da davanti o da lato. Arrivavano da dietro, e cioè mentre loro si stavano allontanando.
Quindi, l'ipotesi che si sia trattato di autodifesa diventa discutibile. Tutti questi particolari spiegano anche perché ci siano delle esitazioni nel passare la macchina agli italiani per le indagini tecniche. Perché se davvero la maggioranza dei colpi è giunta da dietro, è chiaro che hanno sparato a una macchina che si stava allontanando".
Poi, a proposito del fatto che quel posto di blocco mobile fosse stato organizzato per il passaggio di Negroponte:
"Questo confermerebbe quello che mi ha raccontato Giuliana, e cioè che la strada su cui viaggiavano non era la strada pubblica che conoscono tutti, compresi i giornalisti, quella pericolosissima. Era una strada messa in sicurezza, chiusa, riservata agli alti funzionari dell'ambasciata, ovviamente come Negroponte. Ma una cosa è molto chiara: se Giuliana si trovava su quella strada e nel modo in cui lei lo spiega, allora aveva dovuto superare un posto di blocco americano per entrare nella Zona Verde. A quella strada si può accedere solo attraverso la Zona Verde. E lì è molto, ma molto difficile entrarci. Quando ho cercato di entrare nella Zona Verde ho dovuto passare attraverso sei posti di blocco - e sei distinti controlli del passaporto. E così è impossibile che i soldati americani non sapessero della loro presenza su quella strada, visto che si tratta si una strada che esce dalla Zona Verde. E secondo me il fatto che ci fosse un posto di blocco mobile per Negroponte lo conferma chiaramente. L'unica cosa che Giuliana riesce a immaginare è che i soldati che li controllarono nella Zona Verde per permetter loro di entrare non avvisarono via radio questi posti di blocco mobili per avvertirli del loro passaggio. E dal suo punto di vista questo può essere stato o un errore o una specie di vendetta o un'azione dettata dalla rabbia, perché sappiamo che c'è molta rabbia per il fatto che gli italiani siano disposti a pagare riscatti molto alti per ottenere la liberazione di prigionieri. Non sta insinuando che ci sia stata una cospirazione in grande stile. Può esserci stata un'interruzione della comunicazione. Ma è impossibile che non sapessero che lei si trovava su quella strada, perché quella strada esce dalla Zona Verde e lì non si può entrare senza attraversare un posto di blocco".
Nella sua intervista Klein torna ripetutamente su questo aspetto (e sulla direzione da cui sono giunti gli spari):
"[Giuliana] mi ha raccontato molte cose sull'incidente che non avevo ben capito leggendo i giornali. Per prima cosa, voglio dire che Giuliana non sta in alcun modo dicendo di esser certa che l'attacco alla macchina fosse intenzionale.
Sta semplicemente dicendo che ha tante domande che non hanno ricevuto risposta, e che ci sono molte parti della sua esperienza personale che semplicemente non coincidono con la versione ufficiale dei fatti offerta dagli Stati Uniti.
Una delle cose che continuano a ripeterci è che la sparatoria è avvenuta sulla strada per l'aeroporto, che è notoriamente molto pericolosa. Di fatto, è spesso descritta come la strada più pericolosa del mondo. Quindi, il fatto che si sia stata una sparatoria di questo tipo su quella strada è considerato un incidente frequente e comprensibile. Ci sono stata anch'io, su quella strada, ed è un posto davvero insidioso, con continue esplosioni e molti posti di blocco.
Quello che Giuliana mi ha detto e che prima non avevo capito è che lei non si trovava affatto su quella strada. Viaggiava su una strada completamente diversa, della quale io non conoscevo nemmeno l'esistenza. È una strada messa in sicurezza, chiusa, alla quale si può accedere solo attraverso la Zona Verde e che è esclusivamente riservata agli ambasciatori e agli alti ufficiali. Così, quando Calipari, l'ufficiale dei servizi italiani, liberò Giuliana, si diressero verso la Zona Verde, attraversarono il complicato sistema di posti di blocco che tutti devono affrontare per entrare nella Zona Verde, compresi i controlli dei militari americani, e poi entrarono in questa strada chiusa.
E Giuliana mi ha raccontato un'altra cosa che le dà un grande senso di frustrazione, e cioè che si sia detto che il veicolo che sparò alla loro macchina faceva parte di un posto di blocco. Dice che non c'era nessun posto di blocco. Si trattava semplicemente di un mezzo blindato che era parcheggiato sul lato della strada e che aprì il fuoco. Non vi fu nessun tentativo di fermare la macchina, ha detto, né segnalazioni di alcun tipo. Dal suo punto di vista, il blindato fece semplicemente fuoco. Sono stata sorpresa da un'altra cosa che mi ha detto, e cioè che i colpi
arrivarono da dietro. Io penso che parte di ciò che ci è stato raccontato sia che i soldati statunitensi aprirono il fuoco sulla macchina perché non sapevano chi si trovava a bordo, e si spaventarono. Fu difesa personale, avevano paura. La paura, ovviamente, era che la macchina potesse esplodere, o di essere attaccati. E Giuliana Sgrena con me ha sottolineato che il proiettile che ha grevemente ferito lei e ha ucciso Calipari veniva da dietro, ed è entrato attraverso il sedile posteriore della macchina. La sola persona a essere ferita solo lievemente è stato l'autista, e secondo lei è perché gli spari non venivano da davanti o da lato. Arrivavano da dietro, e cioè mentre loro si stavano allontanando.
Quindi, l'ipotesi che si sia trattato di autodifesa diventa discutibile. Tutti questi particolari spiegano anche perché ci siano delle esitazioni nel passare la macchina agli italiani per le indagini tecniche. Perché se davvero la maggioranza dei colpi è giunta da dietro, è chiaro che hanno sparato a una macchina che si stava allontanando".
Poi, a proposito del fatto che quel posto di blocco mobile fosse stato organizzato per il passaggio di Negroponte:
"Questo confermerebbe quello che mi ha raccontato Giuliana, e cioè che la strada su cui viaggiavano non era la strada pubblica che conoscono tutti, compresi i giornalisti, quella pericolosissima. Era una strada messa in sicurezza, chiusa, riservata agli alti funzionari dell'ambasciata, ovviamente come Negroponte. Ma una cosa è molto chiara: se Giuliana si trovava su quella strada e nel modo in cui lei lo spiega, allora aveva dovuto superare un posto di blocco americano per entrare nella Zona Verde. A quella strada si può accedere solo attraverso la Zona Verde. E lì è molto, ma molto difficile entrarci. Quando ho cercato di entrare nella Zona Verde ho dovuto passare attraverso sei posti di blocco - e sei distinti controlli del passaporto. E così è impossibile che i soldati americani non sapessero della loro presenza su quella strada, visto che si tratta si una strada che esce dalla Zona Verde. E secondo me il fatto che ci fosse un posto di blocco mobile per Negroponte lo conferma chiaramente. L'unica cosa che Giuliana riesce a immaginare è che i soldati che li controllarono nella Zona Verde per permetter loro di entrare non avvisarono via radio questi posti di blocco mobili per avvertirli del loro passaggio. E dal suo punto di vista questo può essere stato o un errore o una specie di vendetta o un'azione dettata dalla rabbia, perché sappiamo che c'è molta rabbia per il fatto che gli italiani siano disposti a pagare riscatti molto alti per ottenere la liberazione di prigionieri. Non sta insinuando che ci sia stata una cospirazione in grande stile. Può esserci stata un'interruzione della comunicazione. Ma è impossibile che non sapessero che lei si trovava su quella strada, perché quella strada esce dalla Zona Verde e lì non si può entrare senza attraversare un posto di blocco".
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venerdì, marzo 25, 2005
Facciamo bim bum bam
Marco Bellavia scende in campo per le Regionali della Lombardia con un nome che fa rima e lo slogan "Per chi votiamo stavolta? Facciamo bim bum bam".
Sul manifesto elettorale, il suo volto sorridente e una quieta esclamazione: "Che idea! Ci metto la faccia".
Sublime.
Sul manifesto elettorale, il suo volto sorridente e una quieta esclamazione: "Che idea! Ci metto la faccia".
Sublime.
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The Real Thing
giovedì, marzo 24, 2005
24 marzo
"Like it or not, we are at war with the Serbian nation (the Serbs certainly think so), and the stakes have to be very clear: every week you ravage Kosovo is another decade we will set your country back by pulverizing you. You want 1950? We can do 1950. You want 1389? We can do 1389 too".
Thomas Friedman, New York Times.
"Vorrei ricordare che quanto a impegno nelle operazioni militari noi siamo stati, nei 78 giorni del conflitto, il terzo Paese, dopo gli USA e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L'Italia si trovava veramente in prima linea."
Massimo D'Alema.
Il mio post di oggi (e il solo) è per tutti quelli che il 24 marzo, da sei anni a questa parte, diventano nervosi, si vergognano, provano la rabbia, la delusione e la disperazione di allora.
Io spero che siano in tanti e che non dimentichino.
E per quanto riguarda quelli come D'Alema, quelli che proprio in quell'occasione sentirono di essersi affrancati gloriosamente dal "tabù pacifista", io volentieri li riporterei indietro al giorno più doloroso della loro vita, e ce li chiuderei dentro per sempre - in una versione estrema di quel film con Bill Murray, e senza marmotte. A ciascuno le sue fantasie.
Thomas Friedman, New York Times.
"Vorrei ricordare che quanto a impegno nelle operazioni militari noi siamo stati, nei 78 giorni del conflitto, il terzo Paese, dopo gli USA e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L'Italia si trovava veramente in prima linea."
Massimo D'Alema.
Il mio post di oggi (e il solo) è per tutti quelli che il 24 marzo, da sei anni a questa parte, diventano nervosi, si vergognano, provano la rabbia, la delusione e la disperazione di allora.
Io spero che siano in tanti e che non dimentichino.
E per quanto riguarda quelli come D'Alema, quelli che proprio in quell'occasione sentirono di essersi affrancati gloriosamente dal "tabù pacifista", io volentieri li riporterei indietro al giorno più doloroso della loro vita, e ce li chiuderei dentro per sempre - in una versione estrema di quel film con Bill Murray, e senza marmotte. A ciascuno le sue fantasie.
mercoledì, marzo 23, 2005
Troppa morte, guerriero?
Mentre l'invasione dell'Iraq entra nel terzo anno, l'esercito degli Stati Uniti si trova a fare i conti con i problemi di salute mentale dei suoi soldati. Secondo uno studio del New England Journal of Medicine pubblicato quest'anno, uno su sei soldati di ritorno dalla zona di guerra soffre di grave depressione, angoscia o sindromi da stress post-traumatico. Molti altri mostrano sintomi meno gravi.
Ecco perché si stanno sperimentando sistemi di simulazione fondati sulla realtà virtuale: quello basato sul videogame Full Spectrum Warrior pone il paziente al centro di una città, dove gradualmente vengono aggiunti scenari sempre più radicali e coinvolgenti. Alla fine del trattamento - che può durare settimane o mesi, a seconda della gravità delle condizioni del paziente - si può arrivare anche a un attacco in piena regola. In futuro, i ricercatori aggiungeranno anche odori e alte temperature per simulare ancora meglio le condizioni vissute in Iraq. Il principio è dunque quello di "rivivere l'esperienza".
Come dice un soldato nell'articolo del Washington Post, "le nostre menti non sono fatte per elaborare tanta morte. Chiunque sia stato in Iraq e dica di non avere problemi, o sta negando, o sta mentendo".
Ma aspetta un momento.
Full Spectrum Warrior è il videogame inizialmente sviluppato come strumento di addestramento per l'esercito americano e successivamente modificato e messo in commercio per le piattaforme Pc e Xbox.
Quindi, se ho capito bene: per addestrare le reclute si utilizza un videogame; poi, quando le reclute diventano reduci più o meno traumatizzati, per recuperare questi ultimi alla normalità (si fa per dire) si utilizza lo stesso videogame, facendo loro rivivere l'esperienza di morte, paura e distruzione che hanno sperimentato sul campo di battaglia.
Naturalmente il gioco è in vendita, e ha un suo sito commerciale infarcito di informazioni e di inspirational quotes, come quella del generale Patton: "L'oggetto della guerra non è morire per il tuo paese, ma far si che sia un altro a morire per questo".
Have fun.
Ecco perché si stanno sperimentando sistemi di simulazione fondati sulla realtà virtuale: quello basato sul videogame Full Spectrum Warrior pone il paziente al centro di una città, dove gradualmente vengono aggiunti scenari sempre più radicali e coinvolgenti. Alla fine del trattamento - che può durare settimane o mesi, a seconda della gravità delle condizioni del paziente - si può arrivare anche a un attacco in piena regola. In futuro, i ricercatori aggiungeranno anche odori e alte temperature per simulare ancora meglio le condizioni vissute in Iraq. Il principio è dunque quello di "rivivere l'esperienza".
Come dice un soldato nell'articolo del Washington Post, "le nostre menti non sono fatte per elaborare tanta morte. Chiunque sia stato in Iraq e dica di non avere problemi, o sta negando, o sta mentendo".
Ma aspetta un momento.
Full Spectrum Warrior è il videogame inizialmente sviluppato come strumento di addestramento per l'esercito americano e successivamente modificato e messo in commercio per le piattaforme Pc e Xbox.
Quindi, se ho capito bene: per addestrare le reclute si utilizza un videogame; poi, quando le reclute diventano reduci più o meno traumatizzati, per recuperare questi ultimi alla normalità (si fa per dire) si utilizza lo stesso videogame, facendo loro rivivere l'esperienza di morte, paura e distruzione che hanno sperimentato sul campo di battaglia.
Naturalmente il gioco è in vendita, e ha un suo sito commerciale infarcito di informazioni e di inspirational quotes, come quella del generale Patton: "L'oggetto della guerra non è morire per il tuo paese, ma far si che sia un altro a morire per questo".
Have fun.
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