martedì, luglio 25, 2006
Io sto con l'oziorrinco
La prima reazione davanti alle foglie sbranate della rosa è stata: tolleranza zero.
Ho tagliato un rametto, l'ho fotografato, l'ho messo in un sacchetto di plastica trasparente e sono andata dal vivaista:
– Mi è successa questa cosa qua. Non sono riuscita a individuare il proprietario delle mandibole. Se è un bruco, è un bruco invisibile.
Lui sorride indulgente.
– Deve trattarsi di un oziorrinco. Di giorno si nasconde nel terriccio, la notte esce a mangiare.
– Ah, però.
– Ci vogliono le armi chimiche.
E mi vende un insetticida.
Io sulle prime sono contenta.
Poi faccio una ricerca su Google, e lo vedo. L'oziorrinco. Che è un brutto coleottero, e le larve sono brutte come tutte le larve, però almeno non è un mostro come il grillotalpa (evocatomi da mia madre, l'ottimista di famiglia, per la quale quasiasi insetto non identificato è un infido grillotalpa; indovinate da chi ho ereditato il mio mortifero pollice verso).
E ha tanta fame, l'oziorrinco. Sta nascosto tutto il giorno e con questo caldo, a stomaco vuoto.
Il risultato è che sono passati sette giorni, la boccetta del potente insetticida è ancora chiusa, e sto seriamente pensando alla lotta biologica ad armi pari. Una di queste notti io e mandibola potremmo negoziare e arrivare a una soluzione. Sempre che nel frattempo gli afidi non mi aprano un secondo fronte sul caprifoglio.
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venerdì, luglio 21, 2006
Nicchie
Libreria, città di G.
Vi prego di notare (ho pixelato il nome dell'autore per decenza):
1. lo spessore del volume;
2. la fine scelta del font in copertina;
3. il titolo, che segnala subito l'astuto prodotto di nicchia: non Hitler e i curculionidi, Nazismo, pop e psichedelia o Il piccolo Adolf e il pas de deux, ma Hitler e il suo rapporto con il nazismo. Roba che scotta, pura dietrologia. Devo controllare, ma credo che non ci avesse ancora pensato nessuno.
Inspiegabilmente, si trovava nella sezione "storia locale".
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How soon is naoo?
Muro, città di G.
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giovedì, luglio 20, 2006
L'estate del sub
Erano le due del pomeriggio di un caldissimo sabato di luglio. Tornavamo dal mare.
– Antonia in avvicinamento su vialetto, osservò mio padre con tono piatto.
Mia madre sospirò.
In effetti Antonia, uscita precipitosamente di casa, ci veniva ora incontro ciabattando sulla ghiaia e agitando un mestolo di legno sporco di sugo.
– Nonna!
– A Trieste un motoscafo ha messo sotto un sub!
Poco importava che tornassimo da Sistiana e che nessuno in famiglia facesse il sub o manovrasse motoscafi. Eravamo abituati a queste emissioni quotidiane: Antonia ascoltava alla radio il Gazzettino Giuliano e si impadroniva con entusiasmo degli scarni fatti di nera accaduti nel raggio di almeno cinquanta chilometri. Poi non si limitava a riferirli, ma li imbottiva di particolari lugubri e fantasiosi nello stile di Cronaca Vera e Stop: due pubblicazioni vietatissime a casa nostra, dove pure circolavano di nascosto consentendomi di prendere le misure a un mondo smodatamente bizzarro e crudele che non avrei mai conosciuto.
– Un motoscafo ha messo sotto un sub!, ripeté Antonia agitando il mestolo.
Accogliemmo la notizia assorte, mentre mio padre si toglieva una macchia di sugo dalla maglietta. Un sub investito da un motoscafo come un ciclista da un camion sulla statale?
– Sedici anni, nuotava con la maschera e il tubo, e il motoscafo non l’ha visto.
Seguì, nonostante le proteste di mia madre, la descrizione di un’elica feroce, di giovani membra dilaniate, della macchia di sangue che si allargava sulla superficie del mare: tutti dettagli che il sobrio, cantilenante e burocratico Gazzettino Giuliano aveva di certo omesso. Nessun testimone, del resto. A parte il pilota del motoscafo, fuggito. E i pesci, indifferenti.
Antonia mi seguì fino in camera per assistere alla mia lotta con il costume da bagno ancora umido, e si bloccò sulla soglia per la rivelazione finale:
– E la cosa peggiore. La cosa peggiore è. Che non l’hanno trovato.
Rimasi a guardarla a bocca aperta, le braccia abbandonate lungo il corpo, le spalline del costume attorcigliate sul torace.
Avevo appena imparato a nuotare e a fare le capriole sott’acqua. Avrebbe potuto essere l’estate delle capriole. In quel momento divenne l’estate del sub.
Il sub non si trovava. Del motoscafo ancora nessuna traccia, i soccorsi erano arrivati in ritardo, quel giorno il mare era agitato. E noi intanto bisbigliavamo ipotesi.
– A quest’ora dove sarà.
– Bisognerebbe sapere qualcosa di correnti.
– E di maree.
– Magari la testa è da una parte…
– E un braccio…
– O una gamba.
– Da un’altra.
– Nonna, e il sangue?
– Il sangue, dappertutto.
E dato che un corpo dopo qualche giorno in mare non è un bello spettacolo, diceva Antonia, e pezzi di corpo dovevano esserlo ancora meno, finì che il sub cominciai a sognarmelo la notte. Arrivava mentre nuotavo felice sott’acqua con gli occhi spalancati. A volte era una faccia con la maschera e il tubo, altre era una mano staccata dal resto del corpo, che mi afferrava il braccio impedendomi di riemergere, altre ancora una presenza invisibile. Oppure ero io, il sub: e la macchia scura che si allargava sopra la mia testa era l’ombra del motoscafo, o il mio stesso sangue.
Da quel giorno Antonia sedette silenziosa sulla riva mentre perfezionavo cautamente le mie capriole. Io riemergevo e cercavo con gli occhi il suo costume intero a fiori bianchi e neri e la sua pelle bianchissima; ci guardavamo da lontano e lei mimava con le braccia un gesto che solo io potevo capire. Forse intuiva che per tenermi lontana dai pericoli non serviva evocare crampi, congestioni, brutali testate contro i pedalò, ma erano sufficienti il ricordo e la vaga minaccia di un sedicenne che fluttuava a pezzi chissà dove nell’Alto Adriatico. Forse intuiva tutto questo, o forse accadeva anche a lei che il sub le si parasse davanti in sogno, chiedendo pace o vendetta.
Quell’estate io riemergevo strizzando gli occhi e lei era là, costume a fiori, pelle bianchissima e il gesto a me sola comprensibile: le braccia tese davanti al corpo, il lento movimento alternato delle mani su e giù. Su e giù, Maria Vergine. Le pinne del sub.
In settembre mi iscrissero ai corsi di nuoto della piscina comunale.
Amavo nuotare: mi riconoscevo nella grazia paffuta delle foche viste in un documentario alla tv, mi piaceva scivolare sott’acqua con gli occhi fissi sul fondo geometrico della piscina e le orecchie piene di rumori e di voci distanti.
Poi riemergevo sbuffando e cercavo Antonia con lo sguardo. La vedevo – seduta sulle gradinate, il mio accappatoio sulle ginocchia, la borsa e l’ombrello accanto ai piedi – concentrata nella lettura di Oggi o Gente. Tranquilla, alle prese con i dolori di regine tristi e cantanti affranti.
– Maria Vergine che labbri blu, te me par un cadavere.
– E il sub, nonna, eh?
– Mai più visto.
– E le ossa?
– Conchiglie.
– Gli occhi?
– Perline.
– E il sangue?
– Metti su l’accappatoio, svelta.
Il sub non fu mai trovato. Sbiadì, si disfece, come nei miei sogni acquatici dove ormai si allontanava lasciandomi risalire veloce in superficie: conchiglie le sue ossa, i suoi occhi perle. Non faceva paura. Quasi più paura. Quasi.
– Nonna, il sangue?
Ma avevo già capito, e mi mordevo le labbra fredde.
– Il sangue, dappertutto.
Il sub era diventato il mare.
– Antonia in avvicinamento su vialetto, osservò mio padre con tono piatto.
Mia madre sospirò.
In effetti Antonia, uscita precipitosamente di casa, ci veniva ora incontro ciabattando sulla ghiaia e agitando un mestolo di legno sporco di sugo.
– Nonna!
– A Trieste un motoscafo ha messo sotto un sub!
Poco importava che tornassimo da Sistiana e che nessuno in famiglia facesse il sub o manovrasse motoscafi. Eravamo abituati a queste emissioni quotidiane: Antonia ascoltava alla radio il Gazzettino Giuliano e si impadroniva con entusiasmo degli scarni fatti di nera accaduti nel raggio di almeno cinquanta chilometri. Poi non si limitava a riferirli, ma li imbottiva di particolari lugubri e fantasiosi nello stile di Cronaca Vera e Stop: due pubblicazioni vietatissime a casa nostra, dove pure circolavano di nascosto consentendomi di prendere le misure a un mondo smodatamente bizzarro e crudele che non avrei mai conosciuto.
– Un motoscafo ha messo sotto un sub!, ripeté Antonia agitando il mestolo.
Accogliemmo la notizia assorte, mentre mio padre si toglieva una macchia di sugo dalla maglietta. Un sub investito da un motoscafo come un ciclista da un camion sulla statale?
– Sedici anni, nuotava con la maschera e il tubo, e il motoscafo non l’ha visto.
Seguì, nonostante le proteste di mia madre, la descrizione di un’elica feroce, di giovani membra dilaniate, della macchia di sangue che si allargava sulla superficie del mare: tutti dettagli che il sobrio, cantilenante e burocratico Gazzettino Giuliano aveva di certo omesso. Nessun testimone, del resto. A parte il pilota del motoscafo, fuggito. E i pesci, indifferenti.
Antonia mi seguì fino in camera per assistere alla mia lotta con il costume da bagno ancora umido, e si bloccò sulla soglia per la rivelazione finale:
– E la cosa peggiore. La cosa peggiore è. Che non l’hanno trovato.
Rimasi a guardarla a bocca aperta, le braccia abbandonate lungo il corpo, le spalline del costume attorcigliate sul torace.
Avevo appena imparato a nuotare e a fare le capriole sott’acqua. Avrebbe potuto essere l’estate delle capriole. In quel momento divenne l’estate del sub.
Il sub non si trovava. Del motoscafo ancora nessuna traccia, i soccorsi erano arrivati in ritardo, quel giorno il mare era agitato. E noi intanto bisbigliavamo ipotesi.
– A quest’ora dove sarà.
– Bisognerebbe sapere qualcosa di correnti.
– E di maree.
– Magari la testa è da una parte…
– E un braccio…
– O una gamba.
– Da un’altra.
– Nonna, e il sangue?
– Il sangue, dappertutto.
E dato che un corpo dopo qualche giorno in mare non è un bello spettacolo, diceva Antonia, e pezzi di corpo dovevano esserlo ancora meno, finì che il sub cominciai a sognarmelo la notte. Arrivava mentre nuotavo felice sott’acqua con gli occhi spalancati. A volte era una faccia con la maschera e il tubo, altre era una mano staccata dal resto del corpo, che mi afferrava il braccio impedendomi di riemergere, altre ancora una presenza invisibile. Oppure ero io, il sub: e la macchia scura che si allargava sopra la mia testa era l’ombra del motoscafo, o il mio stesso sangue.
Da quel giorno Antonia sedette silenziosa sulla riva mentre perfezionavo cautamente le mie capriole. Io riemergevo e cercavo con gli occhi il suo costume intero a fiori bianchi e neri e la sua pelle bianchissima; ci guardavamo da lontano e lei mimava con le braccia un gesto che solo io potevo capire. Forse intuiva che per tenermi lontana dai pericoli non serviva evocare crampi, congestioni, brutali testate contro i pedalò, ma erano sufficienti il ricordo e la vaga minaccia di un sedicenne che fluttuava a pezzi chissà dove nell’Alto Adriatico. Forse intuiva tutto questo, o forse accadeva anche a lei che il sub le si parasse davanti in sogno, chiedendo pace o vendetta.
Quell’estate io riemergevo strizzando gli occhi e lei era là, costume a fiori, pelle bianchissima e il gesto a me sola comprensibile: le braccia tese davanti al corpo, il lento movimento alternato delle mani su e giù. Su e giù, Maria Vergine. Le pinne del sub.
In settembre mi iscrissero ai corsi di nuoto della piscina comunale.
Amavo nuotare: mi riconoscevo nella grazia paffuta delle foche viste in un documentario alla tv, mi piaceva scivolare sott’acqua con gli occhi fissi sul fondo geometrico della piscina e le orecchie piene di rumori e di voci distanti.
Poi riemergevo sbuffando e cercavo Antonia con lo sguardo. La vedevo – seduta sulle gradinate, il mio accappatoio sulle ginocchia, la borsa e l’ombrello accanto ai piedi – concentrata nella lettura di Oggi o Gente. Tranquilla, alle prese con i dolori di regine tristi e cantanti affranti.
– Maria Vergine che labbri blu, te me par un cadavere.
– E il sub, nonna, eh?
– Mai più visto.
– E le ossa?
– Conchiglie.
– Gli occhi?
– Perline.
– E il sangue?
– Metti su l’accappatoio, svelta.
Il sub non fu mai trovato. Sbiadì, si disfece, come nei miei sogni acquatici dove ormai si allontanava lasciandomi risalire veloce in superficie: conchiglie le sue ossa, i suoi occhi perle. Non faceva paura. Quasi più paura. Quasi.
– Nonna, il sangue?
Ma avevo già capito, e mi mordevo le labbra fredde.
– Il sangue, dappertutto.
Il sub era diventato il mare.
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mercoledì, luglio 19, 2006
Il chihuahua di Pavlov
Parliamo dei turisti israeliani, una giovane coppia con bambina piccola.
Mattino, spiaggia, silenzio. Sto leggendo un libro. Arrivano, si sistemano, portano la bambina a fare il bagno, la asciugano, le cambiano pannolino e costume. Tutto normale.
Poi tirano fuori il cibo. E impazziscono.
– Tarattatatà, canta lei.
– Chihuahua, fa lui.
– Tarattatatà!
– Chihuahua!
E vanno avanti a urlare così per un bel po', raggiungendo l'apice con un "Chihuahua!" trionfale, che lascia a bocca aperta sia me sia la bambina: letteralmente, perché lo stupore dell'infanta è tale che gli sciagurati riescono a scaraventarle in bocca un cucchiaio pieno di poltiglia che immagino essere un immondo manzo-banana o mela-nasello.
Poi ricominciano:
– Tarattatatà!
– Chihuahua!
Il cannoneggiamento va avanti per una decina di minuti, e si verifica con esasperante puntualità a ogni pasto. La creatura a diciott'anni saliverà ancora come il cane di Pavlov, quando le capiterà di ascoltare quella canzonetta.
Mattino, spiaggia, silenzio. Sto leggendo un libro. Arrivano, si sistemano, portano la bambina a fare il bagno, la asciugano, le cambiano pannolino e costume. Tutto normale.
Poi tirano fuori il cibo. E impazziscono.
– Tarattatatà, canta lei.
– Chihuahua, fa lui.
– Tarattatatà!
– Chihuahua!
E vanno avanti a urlare così per un bel po', raggiungendo l'apice con un "Chihuahua!" trionfale, che lascia a bocca aperta sia me sia la bambina: letteralmente, perché lo stupore dell'infanta è tale che gli sciagurati riescono a scaraventarle in bocca un cucchiaio pieno di poltiglia che immagino essere un immondo manzo-banana o mela-nasello.
Poi ricominciano:
– Tarattatatà!
– Chihuahua!
Il cannoneggiamento va avanti per una decina di minuti, e si verifica con esasperante puntualità a ogni pasto. La creatura a diciott'anni saliverà ancora come il cane di Pavlov, quando le capiterà di ascoltare quella canzonetta.
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lunedì, luglio 17, 2006
La generazione perduta del clic-clac
Lo credevo pietosamente sepolto con le altre trovate entusiasmanti ma indiscutibilmente autodistruttive degli anni Settanta. E invece rieccolo: è il clic-clac, il passatempo autolesionista costituito da due palline di plastica grandi quanto l'occhio del Mullah Omar, tenute insieme da uno spago. Al centro dello spago, un anello nel quale infilare le dita. Le palline oscillano, si scontrano, oscillano, prendono slancio, tracciano un angolo di 180 gradi e si scontrano dalla parte opposta. Sempre che tutto vada come deve andare, e non sfuggano di mano per andare a colpire l'ignaro passante a sua volta assorbito nell'affascinante e frustrante ricerca del moto perpetuo.
Il clic-clac impazzava all'epoca della mia infanzia nelle nostre località balneari, dove adulti e bambini si cimentavano in competizioni dementi: era la sagra dell'ematoma, l'apoteosi della contusione irresponsabile. Quanti pianisti, quanti neurochirurghi, quanti mastri orologiai (beh), quanti sublimi amanuensi (insomma) che avrebbero potuto essere e non furono mai: è la generazione perduta del clic-clac.
Io ne possedevo uno da gara, palline verde acido arricchite di piombo, anello di plastica tagliente, spago abrasivo. Faceva malissimo.
Qui il clic-clac prospera, a grappoli colorati, sulle bancarelle del lungomare: la sera è tutto uno schioccare crudele come di nacchere e un gemere prolungato. Rassegnata, ascolto quel toc-toc-toctoc-toctoctoctoc in attesa del breve silenzio che segue, quando le palline si fermano – perché sempre si fermano – e ricadono spietatamente sulle mani intrappolate dallo spago.
Poi, l'urlo.
Domani torno, forse.
Il clic-clac impazzava all'epoca della mia infanzia nelle nostre località balneari, dove adulti e bambini si cimentavano in competizioni dementi: era la sagra dell'ematoma, l'apoteosi della contusione irresponsabile. Quanti pianisti, quanti neurochirurghi, quanti mastri orologiai (beh), quanti sublimi amanuensi (insomma) che avrebbero potuto essere e non furono mai: è la generazione perduta del clic-clac.
Io ne possedevo uno da gara, palline verde acido arricchite di piombo, anello di plastica tagliente, spago abrasivo. Faceva malissimo.
Qui il clic-clac prospera, a grappoli colorati, sulle bancarelle del lungomare: la sera è tutto uno schioccare crudele come di nacchere e un gemere prolungato. Rassegnata, ascolto quel toc-toc-toctoc-toctoctoctoc in attesa del breve silenzio che segue, quando le palline si fermano – perché sempre si fermano – e ricadono spietatamente sulle mani intrappolate dallo spago.
Poi, l'urlo.
Domani torno, forse.
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venerdì, luglio 14, 2006
Strani compagni di scoglio
Per compensarmi del fatto che qui l'unico quotidiano disponibile a parte la Gazzetta e il Giornale è il Corriere della Sera, il destino ha voluto che come compagno di scoglio mi toccasse il sosia perfetto di Bill Murray, ingentilito da bermuda fucsia a fiori bianchi, occhiali scuri e maglietta nera con scritta "New Age Gym" sul dorso.
Lo osservo togliersi la maglietta, saggiare con aria smarrita la temperatura dell'acqua, giocherellare con il cordoncino del costume e infine immergersi con grazia dinoccolata.
Da lontano la moglie gli urla:
– Ma Giorgio, l'orologio!
Troppo tardi.
Spero che non parta domani. Ne avrò bisogno, con la Juve in C.
Lo osservo togliersi la maglietta, saggiare con aria smarrita la temperatura dell'acqua, giocherellare con il cordoncino del costume e infine immergersi con grazia dinoccolata.
Da lontano la moglie gli urla:
– Ma Giorgio, l'orologio!
Troppo tardi.
Spero che non parta domani. Ne avrò bisogno, con la Juve in C.
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giovedì, luglio 13, 2006
La Signora e il Neo
Da queste parti il terrorizzante oggetto del desiderio dei villeggianti sembra essere un modesto chiosco di legno sul lungomare con la scritta "Fast Food". A condurlo e a gestire graziosamente le relazioni con il pubblico è la Signora con il Neo. Il Neo sta sotto la guancia sinistra, è grande come una Golia e sembra governare come una piccola massa pensante le espressioni (più o meno cupe, più o meno contrariate) che si alternano sul volto della Signora.
La Signora del Neo è quasi sempre di malumore, e gode di un carisma da giustiziera: all'impressione generale contribuiscono lo stuzzicadenti che continua a spostare da un angolo all'altro della bocca e uno sguardo da Dirty Harry. Questa donna in una vita precedente mandava avanti con mano ferma un saloon, anche se in molti l'avrebbero preferita nei panni dello sceriffo per il suo spietato senso della giustizia.
La sua vittima-tipo è il maschio italiano sui trent'anni, settentrionale, bermuda lungo fino al ginocchio ma più frequentemente parigamba attillato. Sandali che probabilmente tra sé e sé si ostina a chiamare "tecnici". Nove volte su dieci porta il pizzetto.
Parigamba si avvicina al chiosco. Esita, sta per arretrare. Troppo tardi, la Signora e il Neo lo stanno già fissando, lo stuzzicadenti migra pigramente verso destra.
– Mi dica.
– Vorrei un panino.
Male, malissimo.
– Panin? Panin co cosa? Prsut, prsut co formagio, panin co cotoleta, sendvich, amburga, cisburga, hodog...
– Eh.
– Decidere!
– Ma.
– Decidere, prego!
– Un hamburger, grazie.
Risposta giusta.
Placati, la Signora e il Neo si voltano verso lo chef-marito-tuttofare:
– Elvino, un panin co polpeta!
Non ci crederete, ma c'è sempre la fila.
La Signora del Neo è quasi sempre di malumore, e gode di un carisma da giustiziera: all'impressione generale contribuiscono lo stuzzicadenti che continua a spostare da un angolo all'altro della bocca e uno sguardo da Dirty Harry. Questa donna in una vita precedente mandava avanti con mano ferma un saloon, anche se in molti l'avrebbero preferita nei panni dello sceriffo per il suo spietato senso della giustizia.
La sua vittima-tipo è il maschio italiano sui trent'anni, settentrionale, bermuda lungo fino al ginocchio ma più frequentemente parigamba attillato. Sandali che probabilmente tra sé e sé si ostina a chiamare "tecnici". Nove volte su dieci porta il pizzetto.
Parigamba si avvicina al chiosco. Esita, sta per arretrare. Troppo tardi, la Signora e il Neo lo stanno già fissando, lo stuzzicadenti migra pigramente verso destra.
– Mi dica.
– Vorrei un panino.
Male, malissimo.
– Panin? Panin co cosa? Prsut, prsut co formagio, panin co cotoleta, sendvich, amburga, cisburga, hodog...
– Eh.
– Decidere!
– Ma.
– Decidere, prego!
– Un hamburger, grazie.
Risposta giusta.
Placati, la Signora e il Neo si voltano verso lo chef-marito-tuttofare:
– Elvino, un panin co polpeta!
Non ci crederete, ma c'è sempre la fila.
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lunedì, luglio 10, 2006
Keep it up - 12 punti
Dovrei dire che stacco per poco più di una settimana e baciare e abbracciare tutti. Però su questo blog non si sa mai cosa succede.
Riassumendo:
1. Sono felice.
2. Vi bacio tutti.
3. Con Gattusino ho un transfert non da poco.
4. La sera della semifinale avevo avuto Il Segno: strade ormai completamente deserte, fermo all'incrocio davanti a me uno su una vecchia Cinquecento, tettuccio aperto e bandiera sventolante. Ci siamo fissati per una decina di secondi, poi ha sgommato e ha ripreso il giro dell'isolato. Mi è tornato in mente mio padre, e ho capito che la Cinquecento era tornata per farci vincere la finale, stavolta (ripetizione con variazione). Nota: l'ho rivisto ieri sera, si ricordava anche lui perché mi ha salutata agitando la mano dal tettuccio. Pensavate che adesso avessi le visioni, vero?
5. Ho un simpatico ritorno del rimosso che sta prendendo pieghe strane.
6. Parlo con le piastrelle del bagno e con le macchie sui muri.
7. La novità è che le piastrelle e le macchie mi rispondono.
8. Posterò, commenterò, leggerò la posta. Probabilmente.
9. Il signor G. è tra le braccia ansiose e amorevoli di mammamir.
10. Vi lascio una cosa sulla Palestina e poi interrogo.
11. Ribacio e riabbraccio tutti, quattro volte campionesse e campioni.
12. Ci sentiamo da lì.
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domenica, luglio 09, 2006
Sei punti facili facili
1. Melone, pesche, albicocche, uva nera, arancia, succo di limone, chiodi di garofano, vino rosso dal gusto fruttato, un po' di cognac. Io mi sento di metterci anche la gazzosa. Poi dico a voce alta perché sentano tutti che "con la gazzosa ho abbondato". Infine, a mano a mano che le caraffe si svuotano, rabbocco con altro vino. È la mia sangria da mondiali, fa perdere i sensi ma con stile, e non prima di aver intonato tutti insieme il mantra "Gattuso bellebravo".
2. La sera della semifinale, venti minuti prima dell'inno, mentre gli amici confluivano fiduciosi a casa mia mi è venuto in mente di andare a prendere i gelati. Sono uscita zampettando sulle zeppe da dieci centimetri (da qualche giorno ho perso di vista gli infradito-quota zero) limitandomi a mandare un sms: "esco a prendere i gelati, aspettatemi sotto casa". Ho trovato la fila. C'era anche un criminale che voleva tre banana split e due spaghetti eis. Ho mandato un sms: "ho otto persone davanti, ce la faccio".
Nervosismo. F. è venuto a cercarmi in macchina. Mi ha anche intravista, sulla traiettoria di rientro; dice però che a un certo punto gli sono scomparsa dal radar. Abbiamo giocato a pacman per un po' mentre io uscivo dallo schermo per rientrare dall'altra parte inanellando sensi unici.
Intanto andava l'inno. Quello se lo sono persi. Non io, che passando davanti a un bar con il maxischermo ho pensato bene di fermarmi quel mezzo minuto a studiare a bocca aperta l'espressione (convinta, meno convinta, aggressiva, meno aggressiva) dei nostri undici. Questo però a F. non l'ho detto.
Durante il primo tempo lo sentivo borbottare: "'sta pazza!" e "anche l'inseguimento!"
Ha portato bene; quasi quasi stasera lo rifaccio, il numero della lepre.
3. Le finali mi rendono vulnerabile. Nel Bar Da Teo sotto casa, quello frequentato da uno zoccolo duro di omenati baffuti con i capelli (grigi) lunghi e con il gilet di pelle sopra la t-shirt, hanno esagerato con gli anni Settanta: quando sono arrivati a "A Whiter Shade of Pale" sono crollata, a "Penny Lane" ero un mucchietto di ossa e lacrime. Tra oggi e domani comincerò a piangere e a dirvi quanto vi voglio bene: tutto normale, fa parte del decorso mondiali (se mi chiamano Piangina Boobie ci sarà un motivo).
4. Dal racconto di D., in agitazione da notte prima della partita e disturbata da un gruppo di trasfertisti polacchi:
– Alle due cantavano a squarciagola, e nessuno reagiva. Ho dovuto sistemarli io.
– Che hai fatto?
– Voce da prof: "Signori, la festa è finita! Avete 1 minuto per chiudere altrimenti chiamo la polizia e ve ne tornate a casa". E col dito segnavo 1 minuto.
– Ma sei un arbitro, sei.
– Uno ha anche detto "Scusa, buonanotte". E io, con il dito alzato: "Ricorda, 1 minuto".
– Non oso chiederti quale dito.
5. Vai, Gattusino, vai.
6. Intanto, su Google:
La mia ipotesi: slip bianchi con sobri disegnini raffiguranti tibie e peroni; sul retro, la scritta "campioni", in Palatino corpo 24.
[Credits: nella foto beneaugurante, il favoloso Mik]
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sabato, luglio 08, 2006
Gattusology
Non vi dico nulla: voi sapete chi merita un voto nel sondaggio di Repubblica.
(ci si prova sempre)
"The hard man of the midfield, the terrier, the spoiler, the warrior", secondo il Guardian. È lui.
Anche oggi il gattusometro è al 100%, stabile.
(ci si prova sempre)
"The hard man of the midfield, the terrier, the spoiler, the warrior", secondo il Guardian. È lui.
Anche oggi il gattusometro è al 100%, stabile.
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venerdì, luglio 07, 2006
Marina, la tarantola sasìna
Nella mia vita c'è stata una persona che mi ha insegnato più cose di tutti, e tutte rigorosamente sbagliate: Antonia.
Lei c'era sempre. C'era anche quando mamma e papà per dare una svolta decisiva alla mia vita mi iscrissero a un corso pomeridiano di inglese, certi che fosse la lingua del futuro: mi ci accompagnava lei.
– Sì ma cosa serve l'inglese.
– Serve.
– Ma fa schifo.
– Eh, schifo l'inglese. Son altre le cose che fa schifo.
– I vermi fa schifo.
– I sputi.
– Le pantegane.
– I scorpioni.
– Le scovazze.
L'elenco era già piuttosto lungo quando ci fermammo davanti al portone della scuola.
– Dove vai mentre io sono a lezione?
– Alla Standa.
– Mi compri un gioco che fa schifo?
– Se lo trovo.
Così, mentre io cantavo in coro con altri disgraziati "ui olìv ine ielo sotmarin, ielo sotmarin, ielo sotmarin", Antonia sostava pensosamente nel reparto giocattoli, interrogandosi sul significato di schifo.
– E allora, comprato?
– Sì sì.
– Ce l'hai?
– Ce l'ho in borsa.
– Fa tanto schifo?
– Ho paura di sì.
A casa, dalla borsa di cerata a quadri rossi spuntarono due deludenti scatoline di cartone.
– Gambaletti blu?
– No, aspetta.
Sbucò anche un sacchetto di plastica pieno di una cosa gommosa e nera, indefinibile.
– Cos'è!
– C'è scritto tarantola gigante, sarà un ragnone peloso.
– Uah, Madonna, e come lo chiamiamo.
– Marina, la tarantola sasìna.
– Apriamolo!
Aprimmo. Tutta quella gomma compressa cominciò a muoversi e a uscire dal sacchetto. Prese anche a ingrandirsi spiacevolmente.
– Oh!
– Oh! Come cresce, pensavo più piccolo.
– Ah che schifo, buttalo buttalo per terra.
– Che brutta roba.
– Orco, nonna, cos'hai comprato.
– Sembra vivo, Maria santa.
– È diventato grande.
– Si muove, salta.
– Nonna, adesso viene per di qua.
– Maria vergine, che schifo.
– Nonna, fa' qualcosa.
– Aspetta qua. Salta sulla sedia.
Andò a prendere scopa e paletta e con evidente raccapriccio, cercando di non guardare, raccolse la massa in movimento.
– Chiudi gli occhi sennò ti sogni!
– Chiudo, chiudo, ma tu portalo via.
– Eh, portarlo via...
– Fatto?
– Fatto.
– Faceva tanto schifo.
– Ah sì. Adesso ci facciamo un cacao con la panna e poi tiriamo fuori la dama.
Antonia barava, a dama. Stava vincendo la terza partita, muovendo le sue pedine su percorsi arbitrari, quando sentimmo aprire la porta di casa.
– Ciao mami!
– Ciao, tutto bene?
– Bene.
– Inglese?
– Ielo sotmarin.
– Ancora?
– Sì sì.
– Brava.
La sentimmo salire in camera, scendere, entrare in cucina, aprire il frigorifero.
– Dove l'hai buttato il robo, nonna?
– Nelle scovazze.
Ci guardammo negli occhi, preparando un'espressione mite e assorta: nonna e nipotina intente a giocare a dama, nella luce fioca del crepuscolo invernale.
– Mangio, mangio, mangio.
– Ma non puoi mangiare così!
– Mi pare che hai perso ancora.
– Sì, ma...
– Come fa? Ui olìv...
– ine ielo sotmarin...
Dalla cucina, un urlo come quelli delle attrici nei film di paura, quando aprono la bocca, la coprono con il dorso della mano aperta e spalancano gli occhi. L'urlo disperato poco prima di perdere i sensi.
– ... ielo sotmarin.
– Ielo sotmarin.
Da allora me la cavai inaspettatamente bene con l'inglese, che cominciò a piacermi, e trascurai del tutto le tarantole. Marina si trasformò presto in un grumo di gomma fusa, per tornare di tanto in tanto nei miei incubi dell'alba. Mia madre sviluppò un'improvvisa fobia per i ragni, dai più ritenuta inspiegabile. Antonia continuò a barare a dama, e a vincere.
Lei c'era sempre. C'era anche quando mamma e papà per dare una svolta decisiva alla mia vita mi iscrissero a un corso pomeridiano di inglese, certi che fosse la lingua del futuro: mi ci accompagnava lei.
– Sì ma cosa serve l'inglese.
– Serve.
– Ma fa schifo.
– Eh, schifo l'inglese. Son altre le cose che fa schifo.
– I vermi fa schifo.
– I sputi.
– Le pantegane.
– I scorpioni.
– Le scovazze.
L'elenco era già piuttosto lungo quando ci fermammo davanti al portone della scuola.
– Dove vai mentre io sono a lezione?
– Alla Standa.
– Mi compri un gioco che fa schifo?
– Se lo trovo.
Così, mentre io cantavo in coro con altri disgraziati "ui olìv ine ielo sotmarin, ielo sotmarin, ielo sotmarin", Antonia sostava pensosamente nel reparto giocattoli, interrogandosi sul significato di schifo.
– E allora, comprato?
– Sì sì.
– Ce l'hai?
– Ce l'ho in borsa.
– Fa tanto schifo?
– Ho paura di sì.
A casa, dalla borsa di cerata a quadri rossi spuntarono due deludenti scatoline di cartone.
– Gambaletti blu?
– No, aspetta.
Sbucò anche un sacchetto di plastica pieno di una cosa gommosa e nera, indefinibile.
– Cos'è!
– C'è scritto tarantola gigante, sarà un ragnone peloso.
– Uah, Madonna, e come lo chiamiamo.
– Marina, la tarantola sasìna.
– Apriamolo!
Aprimmo. Tutta quella gomma compressa cominciò a muoversi e a uscire dal sacchetto. Prese anche a ingrandirsi spiacevolmente.
– Oh!
– Oh! Come cresce, pensavo più piccolo.
– Ah che schifo, buttalo buttalo per terra.
– Che brutta roba.
– Orco, nonna, cos'hai comprato.
– Sembra vivo, Maria santa.
– È diventato grande.
– Si muove, salta.
– Nonna, adesso viene per di qua.
– Maria vergine, che schifo.
– Nonna, fa' qualcosa.
– Aspetta qua. Salta sulla sedia.
Andò a prendere scopa e paletta e con evidente raccapriccio, cercando di non guardare, raccolse la massa in movimento.
– Chiudi gli occhi sennò ti sogni!
– Chiudo, chiudo, ma tu portalo via.
– Eh, portarlo via...
– Fatto?
– Fatto.
– Faceva tanto schifo.
– Ah sì. Adesso ci facciamo un cacao con la panna e poi tiriamo fuori la dama.
Antonia barava, a dama. Stava vincendo la terza partita, muovendo le sue pedine su percorsi arbitrari, quando sentimmo aprire la porta di casa.
– Ciao mami!
– Ciao, tutto bene?
– Bene.
– Inglese?
– Ielo sotmarin.
– Ancora?
– Sì sì.
– Brava.
La sentimmo salire in camera, scendere, entrare in cucina, aprire il frigorifero.
– Dove l'hai buttato il robo, nonna?
– Nelle scovazze.
Ci guardammo negli occhi, preparando un'espressione mite e assorta: nonna e nipotina intente a giocare a dama, nella luce fioca del crepuscolo invernale.
– Mangio, mangio, mangio.
– Ma non puoi mangiare così!
– Mi pare che hai perso ancora.
– Sì, ma...
– Come fa? Ui olìv...
– ine ielo sotmarin...
Dalla cucina, un urlo come quelli delle attrici nei film di paura, quando aprono la bocca, la coprono con il dorso della mano aperta e spalancano gli occhi. L'urlo disperato poco prima di perdere i sensi.
– ... ielo sotmarin.
– Ielo sotmarin.
Da allora me la cavai inaspettatamente bene con l'inglese, che cominciò a piacermi, e trascurai del tutto le tarantole. Marina si trasformò presto in un grumo di gomma fusa, per tornare di tanto in tanto nei miei incubi dell'alba. Mia madre sviluppò un'improvvisa fobia per i ragni, dai più ritenuta inspiegabile. Antonia continuò a barare a dama, e a vincere.
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giovedì, luglio 06, 2006
Codice verde in famigliamir
Che non si dica che in famigliamir ci si risparmia davanti a un gol di Del Piero.
Referto medico:
Mentre esultava per la vittoria della nazionale italiana ai mondiali di calcio trauma distorsivo del primo dito piede sin. Da allora dolore (al dito) ed ecchimosi.
20 giorni di prognosi.
Compagne e compagni, vi presento fratellobbuono. Se vedete uno alto, magro, abbracciabile al 98%, che zoppica per Milano zona Loreto/viale Monza con una scarpa da ginnastica tagliata (la sua personale intepretazione della raccomandazione "indossare calzature aperte"), baciatelo per me.
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mercoledì, luglio 05, 2006
Chi l'ha vista
Sms di mia madre in gita, a questo punto non so dove (notare il vago sapore esterofilo):
"Entriamo da Pulfaro Italy. Baci mamma"
Google Earth deve farne, di strada.
"Entriamo da Pulfaro Italy. Baci mamma"
Google Earth deve farne, di strada.
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Respect
– No, madonna, dentro Del Piero.
– Noooo.
– È finita.
– Sentite un attimo. Del Piero, stagione 1997-98. Respect.
[Silenzio. Mi fissano diverse paia di occhi tra lo sbalordito e l'ostile.]
– Fanno otto anni fa.
E adesso io, Ales e anche il passero esigiamo delle scuse.
Gattusometro oltre i limiti consentiti, oggi.
– Noooo.
– È finita.
– Sentite un attimo. Del Piero, stagione 1997-98. Respect.
[Silenzio. Mi fissano diverse paia di occhi tra lo sbalordito e l'ostile.]
– Fanno otto anni fa.
E adesso io, Ales e anche il passero esigiamo delle scuse.
Gattusometro oltre i limiti consentiti, oggi.
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martedì, luglio 04, 2006
L'ibrida
– Papà, scusa, c'è un motivo per cui stiamo andando a 5 chilometri all'ora?
– Siamo a cinquanta giusti, c'è il limite.
– Ah.
– Ma sei, eh. Mi ritirano la patente e poi mi tocca andare al mare con l'auto elettrica.
– Ok.
– E se te la devo dire tutta, mi sembra anche che uno mi abbia fatto un segnale con i lampeggianti.
– Eh come no. Non incrociamo una macchina da un quarto d'ora.
– Tu sai come funziona l'ibrida?
– No.
– Te lo spiego?
– No.
– Ha un motore a benzina e un motore elettrico che aiuta il motore a benzina a spingere e fa anche da generatore per ricaricare le batterie. E anche altre cose.
– Si risparmia?
– Non poi tanto.
– Andando a cinque chilometri all'ora ci basterebbe il motorino elettrico, però. A pile ricaricabili, anche. A molla, forse.
– Lina, nostra figlia è deficiente. E tu, hai capito cos'è l'ibrida?
– Sì, bicolore, come la Lancia del figlio della Ines.
– Mamma.
– Voi pensate sempre che non stia ad ascoltare.
– Siamo a cinquanta giusti, c'è il limite.
– Ah.
– Ma sei, eh. Mi ritirano la patente e poi mi tocca andare al mare con l'auto elettrica.
– Ok.
– E se te la devo dire tutta, mi sembra anche che uno mi abbia fatto un segnale con i lampeggianti.
– Eh come no. Non incrociamo una macchina da un quarto d'ora.
– Tu sai come funziona l'ibrida?
– No.
– Te lo spiego?
– No.
– Ha un motore a benzina e un motore elettrico che aiuta il motore a benzina a spingere e fa anche da generatore per ricaricare le batterie. E anche altre cose.
– Si risparmia?
– Non poi tanto.
– Andando a cinque chilometri all'ora ci basterebbe il motorino elettrico, però. A pile ricaricabili, anche. A molla, forse.
– Lina, nostra figlia è deficiente. E tu, hai capito cos'è l'ibrida?
– Sì, bicolore, come la Lancia del figlio della Ines.
– Mamma.
– Voi pensate sempre che non stia ad ascoltare.
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lunedì, luglio 03, 2006
Non tutto il male vien per suocere
"Sono appena tornato da un viaggio di piacere: ho accompagnato mia suocera all'aeroporto".
Henny Youngman
Di tutto questo potremo ridere, un giorno. Forse anche questo pomeriggio.
Mia suocera è logorroica. Non semplicemente molto chiacchierona, no: l'ho sentita parlare anche in bagno, in completa solitudine. E non declamava versi, parlava con il coperchio del water.
(Prego visualizzare me - lampeggia la scritta "drammatizzazione" - con l'orecchio appoggiato alla porta del bagno, manine a ventosa, mentre suocera dice: "Su, stai su, avanti, cosa ti prende". Fine della drammatizzazione).
Gli argomenti di mia suocera sono ripetitivi e normalmente autoriferiti: vanno dall'infanzia ai mobili svedesi, dalle cadute dal fasciatoio dei figli neonati allo scriteriato acquisto di un tecnigrafo (pena e sventura, pena e sventura) per il wannabe architetto di famiglia, dalla confusa mappa alimentare dei congiunti e dei loro partner (per esempio, fratellobbuono non mangia più la pizza marinara da almeno quindici anni, ma la cosa non è stata ancora registrata nella costellazione familiare) alla descrizione burocratica di travagli e parti, con lunghe divagazioni sulla sfortuna e la tristezza di non avere figlie femmine.
Mio padre, al secondo incontro, si trovò costretto dalle regole della buona educazione a darle un passaggio in macchina. Fu la mezz'ora d'autostrada più lunga della sua vita: in confronto il viaggio spazio-tempo di Bowman era una gita a Posillipo con l'aggiunta di qualche modesto effetto speciale. "Allora, papà, com'è andata?" "Bene. Ore 10.30, lezione di ginecologia". Ormai sarebbe in grado di gestirsi un podalico.
Ora, per un'imprevedibile scherzo del copriletto della sua camera d'albergo in Sardegna la sera dell'ultimo giorno di vacanza mia suocera è inciampata, è spettacolarmente caduta e si è fratturata la quarta vertebra lombare.
Vi risparmio le vicende alterne delle impegnative spoglie: ospedale a Nuoro, ambulanza a Olbia, aereo per Malpensa, ambulanza, ospedale alla periferia di Milano. I tempi sono stati così rapidi da indurre a pensare che per sveltire le pratiche ella sia stata semplicemente dichiarata persona non grata nella natzione sarda. Si mormora che le vicine di letto abbiano festeggiato con un'offerta sontuosa alla Madonna dei Martiri, con uno spettacolo pirotecnico e con il concerto sotto le stelle di un sosia di Fred Bongusto.
A chi legge, tutto questo sembrerà moderatamente semplice, ma durante le sue vicissitudini vertebrali mia suocera parlava. Parlava tanto che la Tac è venuta male. È riuscita perfino a convincere il personale dell'ambulanza a una deviazione: "Mi scusino, ma mio marito ha dimenticato il cellulare in albergo e adesso sta già all'aeroporto. A questo proposito, non so se le ho già raccontato di mio figlio Luca, volevo dire Giovanni, volevo dire Alberto..." "Signora non si preoccupi eravamo quasi di strada". È riuscita a dettare al telefono le sue ultime volontà dalla sala partenze, dove giaceva imbarellata e imbustata come una faraona: "Perché adesso ci manca solo che cada l'aereo".
Poi, a Milano, la tragedia. Stanza linda e moderna, tutti i comfort, televisore, telefono diretto. Ma nessuna vicina di letto. (Visualizzare mia suocera in posizione forzatamente orizzontale che fissa con aria smarrita il vuoto giaciglio accanto al suo e che tenta timide conversazioni con il telecomando).
Tre giorni fa, la svolta. Fa la sua comparsa La Vicina di Letto, l'idealtipo della donna sofferente ma coraggiosa con cui condividere finalmente i mille piccoli disturbi, le foto delle tragiche vacanze a Orosei e i pregi e i difetti della nuora evoluta e comunista, quella che "scrive anche su un block".
Appena entrato nella cameretta for two, fratellobbuono si accorge subito che qualcosa non va: mamma insolitamente zitta e vistosamente agitata. Lo vede, e prende a fare gesti ampi e incomprensibili, in un'estasi di cenni e ammiccamenti.
"Mamma? Quante parole? E congiunzioni?"
Gesti, cenni, nervosismo.
"Mettiamoci almeno d'accordo: film o libro?"
Cos'è il genio, cos'è l'istinto, a questo punto cos'è il karma: la Vicina di Letto è sordomuta.
E mia suocera, che avrebbe potuto trillare con voce da soprano "La signora non parla e non ci sente!", ha preferito mimare la propria disperazione con la stucchevole grazia di un clown triste.
Oggi, al telefono, mi ha detto: "Con la vicina non c'è male, mi intendo a gesti, così". Voglio vederla, a mimare le emorroidi di Tina o il mestiere del moroso della figlia di Pia o la disgraziata faccenda del tecnigrafo.
Poi ha aggiunto, inquietante: "Te, è come se ti avessi sempre davanti".
Comincerò a preoccuparmi quando chiederà un set di freccette in tungsteno.
[Disclaimer: ogni riferimento a fatti, persone o luoghi reali è puramente casuale. Si ringrazia il personale del reparto di radiologia per le amorose cure prestate alla paziente e (beh, sì) per il senso dell'umorismo]
Henny Youngman
Di tutto questo potremo ridere, un giorno. Forse anche questo pomeriggio.
Mia suocera è logorroica. Non semplicemente molto chiacchierona, no: l'ho sentita parlare anche in bagno, in completa solitudine. E non declamava versi, parlava con il coperchio del water.
(Prego visualizzare me - lampeggia la scritta "drammatizzazione" - con l'orecchio appoggiato alla porta del bagno, manine a ventosa, mentre suocera dice: "Su, stai su, avanti, cosa ti prende". Fine della drammatizzazione).
Gli argomenti di mia suocera sono ripetitivi e normalmente autoriferiti: vanno dall'infanzia ai mobili svedesi, dalle cadute dal fasciatoio dei figli neonati allo scriteriato acquisto di un tecnigrafo (pena e sventura, pena e sventura) per il wannabe architetto di famiglia, dalla confusa mappa alimentare dei congiunti e dei loro partner (per esempio, fratellobbuono non mangia più la pizza marinara da almeno quindici anni, ma la cosa non è stata ancora registrata nella costellazione familiare) alla descrizione burocratica di travagli e parti, con lunghe divagazioni sulla sfortuna e la tristezza di non avere figlie femmine.
Mio padre, al secondo incontro, si trovò costretto dalle regole della buona educazione a darle un passaggio in macchina. Fu la mezz'ora d'autostrada più lunga della sua vita: in confronto il viaggio spazio-tempo di Bowman era una gita a Posillipo con l'aggiunta di qualche modesto effetto speciale. "Allora, papà, com'è andata?" "Bene. Ore 10.30, lezione di ginecologia". Ormai sarebbe in grado di gestirsi un podalico.
Ora, per un'imprevedibile scherzo del copriletto della sua camera d'albergo in Sardegna la sera dell'ultimo giorno di vacanza mia suocera è inciampata, è spettacolarmente caduta e si è fratturata la quarta vertebra lombare.
Vi risparmio le vicende alterne delle impegnative spoglie: ospedale a Nuoro, ambulanza a Olbia, aereo per Malpensa, ambulanza, ospedale alla periferia di Milano. I tempi sono stati così rapidi da indurre a pensare che per sveltire le pratiche ella sia stata semplicemente dichiarata persona non grata nella natzione sarda. Si mormora che le vicine di letto abbiano festeggiato con un'offerta sontuosa alla Madonna dei Martiri, con uno spettacolo pirotecnico e con il concerto sotto le stelle di un sosia di Fred Bongusto.
A chi legge, tutto questo sembrerà moderatamente semplice, ma durante le sue vicissitudini vertebrali mia suocera parlava. Parlava tanto che la Tac è venuta male. È riuscita perfino a convincere il personale dell'ambulanza a una deviazione: "Mi scusino, ma mio marito ha dimenticato il cellulare in albergo e adesso sta già all'aeroporto. A questo proposito, non so se le ho già raccontato di mio figlio Luca, volevo dire Giovanni, volevo dire Alberto..." "Signora non si preoccupi eravamo quasi di strada". È riuscita a dettare al telefono le sue ultime volontà dalla sala partenze, dove giaceva imbarellata e imbustata come una faraona: "Perché adesso ci manca solo che cada l'aereo".
Poi, a Milano, la tragedia. Stanza linda e moderna, tutti i comfort, televisore, telefono diretto. Ma nessuna vicina di letto. (Visualizzare mia suocera in posizione forzatamente orizzontale che fissa con aria smarrita il vuoto giaciglio accanto al suo e che tenta timide conversazioni con il telecomando).
Tre giorni fa, la svolta. Fa la sua comparsa La Vicina di Letto, l'idealtipo della donna sofferente ma coraggiosa con cui condividere finalmente i mille piccoli disturbi, le foto delle tragiche vacanze a Orosei e i pregi e i difetti della nuora evoluta e comunista, quella che "scrive anche su un block".
Appena entrato nella cameretta for two, fratellobbuono si accorge subito che qualcosa non va: mamma insolitamente zitta e vistosamente agitata. Lo vede, e prende a fare gesti ampi e incomprensibili, in un'estasi di cenni e ammiccamenti.
"Mamma? Quante parole? E congiunzioni?"
Gesti, cenni, nervosismo.
"Mettiamoci almeno d'accordo: film o libro?"
Cos'è il genio, cos'è l'istinto, a questo punto cos'è il karma: la Vicina di Letto è sordomuta.
E mia suocera, che avrebbe potuto trillare con voce da soprano "La signora non parla e non ci sente!", ha preferito mimare la propria disperazione con la stucchevole grazia di un clown triste.
Oggi, al telefono, mi ha detto: "Con la vicina non c'è male, mi intendo a gesti, così". Voglio vederla, a mimare le emorroidi di Tina o il mestiere del moroso della figlia di Pia o la disgraziata faccenda del tecnigrafo.
Poi ha aggiunto, inquietante: "Te, è come se ti avessi sempre davanti".
Comincerò a preoccuparmi quando chiederà un set di freccette in tungsteno.
[Disclaimer: ogni riferimento a fatti, persone o luoghi reali è puramente casuale. Si ringrazia il personale del reparto di radiologia per le amorose cure prestate alla paziente e (beh, sì) per il senso dell'umorismo]
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domenica, luglio 02, 2006
Il gattusometro, oggi
Frase del giorno: "Il cartellino? Me lo mangio!"
Gennaro Gattuso, 2 luglio 2006.
Gattusometro*: 96%.
*(cito dalla definizione di Anna)
Gattusometro: raffinato strumento di alta tecnologia che mette insieme l'influenza di diverse variabili (lunghezza del capello, barba o no, sudato o no, occhietto luccicoso o cupo, divisa o tenuta borghese, tibia o omero in bocca, vicinanza della prossima partita, se sta giocando col Milan o con la Nazionale, ormone femminile, varie ed eventuali) per calcolare l'abbracciabilità del piccolo e ingenuo Ringhio.
Update fondamentale: e che non si dica che qua ci piace buttar via le domeniche. Tamas l'aveva detto, non l'ha fatto, ci siamo rimaste/i male, l'ha fatto, si è già pentito: gattusometro.blogspot.com, un'idea del cazzo, ma forse anche no.
Gennaro Gattuso, 2 luglio 2006.
Gattusometro*: 96%.
*(cito dalla definizione di Anna)
Gattusometro: raffinato strumento di alta tecnologia che mette insieme l'influenza di diverse variabili (lunghezza del capello, barba o no, sudato o no, occhietto luccicoso o cupo, divisa o tenuta borghese, tibia o omero in bocca, vicinanza della prossima partita, se sta giocando col Milan o con la Nazionale, ormone femminile, varie ed eventuali) per calcolare l'abbracciabilità del piccolo e ingenuo Ringhio.
Update fondamentale: e che non si dica che qua ci piace buttar via le domeniche. Tamas l'aveva detto, non l'ha fatto, ci siamo rimaste/i male, l'ha fatto, si è già pentito: gattusometro.blogspot.com, un'idea del cazzo, ma forse anche no.
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venerdì, giugno 30, 2006
Prepartita
– Ciao mamma.
– Oh ciao stiamo guardando Germania-Argentina.
– Ecco appunto: come sta andando?
– Supplementari.
– Ah.
– Comunque l'arbitro sta da quella parte là.
Al momento: toniometro 75%, gattusometro 95%.
– Oh ciao stiamo guardando Germania-Argentina.
– Ecco appunto: come sta andando?
– Supplementari.
– Ah.
– Comunque l'arbitro sta da quella parte là.
Al momento: toniometro 75%, gattusometro 95%.
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mercoledì, giugno 28, 2006
Mirumir LE/Ometti barbuti sempre piaciuti
1. Eddie ha ragione: "scuro, barba folta, impegnato nello sterminio di agnelli come propaganda anticristiana": Bruno era inconfondibilmente il braccio destro numero 54. Esperto in jihad valligiana, dicono gli esperti.
2. Bipedi astenersi. È sanguinario, veste il turbante nero più elegantemente del Mullah Omar, sa usare la mitragliatrice meglio di Big Al, è più fotogenico di Bin Laden, è un ciclotimico non da poco ("Per un po' può essere di buon umore, improvvisamente si incupisce e resta così per ore") e apparentemente una gamba gli basta e gli avanza. È il Mullah Dadullah Akhund, mi permetto di tenerlo d'occhio.
3. Dr Omar is in tha house. Il Mullah si è rifatto vivo, in un'audiocassetta trasmessa da una televisione privata. Solo perché abbiamo perso la capitale dell'Afghanistan non significa che noi talebani siamo finiti, ha detto. Poi ha lanciato la pubblicità di una scopa ruotante (sic) di ultima generazione e di un set di padelle in Nano-Flon.
4. È scuro, ha la barba folta, è aggressivo, per fortuna tiene due gambe. Oggi il gattusometro segna il 90%.
2. Bipedi astenersi. È sanguinario, veste il turbante nero più elegantemente del Mullah Omar, sa usare la mitragliatrice meglio di Big Al, è più fotogenico di Bin Laden, è un ciclotimico non da poco ("Per un po' può essere di buon umore, improvvisamente si incupisce e resta così per ore") e apparentemente una gamba gli basta e gli avanza. È il Mullah Dadullah Akhund, mi permetto di tenerlo d'occhio.
3. Dr Omar is in tha house. Il Mullah si è rifatto vivo, in un'audiocassetta trasmessa da una televisione privata. Solo perché abbiamo perso la capitale dell'Afghanistan non significa che noi talebani siamo finiti, ha detto. Poi ha lanciato la pubblicità di una scopa ruotante (sic) di ultima generazione e di un set di padelle in Nano-Flon.
4. È scuro, ha la barba folta, è aggressivo, per fortuna tiene due gambe. Oggi il gattusometro segna il 90%.
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