Usamah Nabil, un bambino iracheno di 10 anni che vive a Baghdad, ha un problema che non dipende in alcun modo da lui, che gli è toccato suo malgrado e nonostante i suoi tentativi di liberarsene:
"Questo problema lo segue ovunque vada. Non è un problema di salute, o sociale, o umanitario: il problema è che questo bambino assomiglia moltissimo a George W. Bush. Al punto che i suoi genitori e i suoi amici e compagni di scuola hanno smesso di chiamarlo con il suo vero nome, e lo chiamano 'Bush'."
Dice suo padre: "Mio figlio Usamah ha un'intelligenza vivace e lavora molto bene nel mio negozio. Ma il problema è il suo aspetto che somiglia a quello di... Bush, tanto che i clienti non lo chiamano più con il suo nome, lo chiamano "Piccolo Bush", e questo gli dà dispiacere, e qualche volta mi mette in imbarazzo quando reagisce a quel nome usando parole forti... Ha cominciato a odiare la scuola per quel soprannome... Ma io cerco di convincerlo che Bush verrà dimenticato tra qualche anno, e solo pochi lo ricorderanno, e che lui potrà vivere con il suo vero nome e il suo vero aspetto."
Ho capito, ma intanto.
La porastella è qui. Via Angry Arab.
Sì, va bene: Usamah Nabil "Bush".
Non c'è niente da ridere.
martedì, settembre 20, 2005
Il piccolo problema di Usamah
Etichette:
alcaida,
bin Laden,
braccidestri,
Bush,
iraq
Negoziati
Sai di vivere in un paese occupato "quando non puoi arrestare persone che sparano ai tuoi poliziotti e non puoi tenerle in carcere. Un esercito straniero demolisce i muri della tua prigione, porta via i suoi connazionali e consente la fuga di 150 detenuti".
[...]
"Oh, di certo qualcuno dirà che il sistema giudiziario iracheno è ingiusto, poco credibile, e che non gli si può affidare delle persone, ecc. Tutto questo può anche essere vero, e io non sono il genere di persona che pensa che un arresto sia un fatto indiscutibile. Ma questo non spiega la situazione dei soldati britannici: dopo tutto non erano stati rapiti in Gran Bretagna mentre badavano ai loro affari. Erano in Iraq, armati, "sotto copertura", e sparavano ai civili per la strada.
Secondo le autorità irachene questi uomini avevano aperto il fuoco contro ufficiali di polizia iracheni a un posto di blocco, e questo mi sembra molto verosimile. Dopo tutto, quale iracheno ha il diritto di chiedere all'Uomo occidentale di fermarsi a un posto di blocco? Nessuno, ovviamente, e se qualcuno osa farlo bisogna reagire sparando.
Naturalmente questi uomini erano anche sotto copertura, vestiti da arabi. Ma, anche così, gli iracheni avrebbero dovuto rendersi conto che questi erano Soldati Occidentali "con compiti speciali di sicurezza" e tenersene ben lontani. Possibile che non abbiano un po' di giudizio, questi indigeni?"
Under the Same Sun
Il portavoce del Ministro della Difesa inglese ha detto: "Non abbiamo avuto conferma dei dettagli. Non abbiamo appreso nulla che suggerisca che abbiamo assaltato la prigione. Sappiamo che ci sono stati negoziati."
E infatti. Non c'è niente di male a negoziare con i carri armati.
Nuova versione: "Due soldati britannici sono stati fermati e portati a un commissariato di polizia iracheno. Abbiamo cominciato a negoziare con le autorità irachene per ottenere la loro liberazione. Pensiamo che le autorità abbiano ordinato la loro liberazione, ma purtroppo non sono stati liberati e ci siamo preoccupati per la loro sicurezza e quindi un blindato di fanteria Warrier ha sfondato il muro di cinta in quel posto".
(a proposito: le mie traduzioni sono stranine, ma quelle di Repubblica di più)
Tutta colpa dell'Iran, comunque.
Aggiornamento con foto: "Minor damage was caused to the prison compound wall and to the house in which our two soldiers were held."
Brigadiere John Lorimer, Comandante della 12ma Brigata Meccanizzata.
[...]
"Oh, di certo qualcuno dirà che il sistema giudiziario iracheno è ingiusto, poco credibile, e che non gli si può affidare delle persone, ecc. Tutto questo può anche essere vero, e io non sono il genere di persona che pensa che un arresto sia un fatto indiscutibile. Ma questo non spiega la situazione dei soldati britannici: dopo tutto non erano stati rapiti in Gran Bretagna mentre badavano ai loro affari. Erano in Iraq, armati, "sotto copertura", e sparavano ai civili per la strada.
Secondo le autorità irachene questi uomini avevano aperto il fuoco contro ufficiali di polizia iracheni a un posto di blocco, e questo mi sembra molto verosimile. Dopo tutto, quale iracheno ha il diritto di chiedere all'Uomo occidentale di fermarsi a un posto di blocco? Nessuno, ovviamente, e se qualcuno osa farlo bisogna reagire sparando.
Naturalmente questi uomini erano anche sotto copertura, vestiti da arabi. Ma, anche così, gli iracheni avrebbero dovuto rendersi conto che questi erano Soldati Occidentali "con compiti speciali di sicurezza" e tenersene ben lontani. Possibile che non abbiano un po' di giudizio, questi indigeni?"
Under the Same Sun
Il portavoce del Ministro della Difesa inglese ha detto: "Non abbiamo avuto conferma dei dettagli. Non abbiamo appreso nulla che suggerisca che abbiamo assaltato la prigione. Sappiamo che ci sono stati negoziati."
E infatti. Non c'è niente di male a negoziare con i carri armati.
Nuova versione: "Due soldati britannici sono stati fermati e portati a un commissariato di polizia iracheno. Abbiamo cominciato a negoziare con le autorità irachene per ottenere la loro liberazione. Pensiamo che le autorità abbiano ordinato la loro liberazione, ma purtroppo non sono stati liberati e ci siamo preoccupati per la loro sicurezza e quindi un blindato di fanteria Warrier ha sfondato il muro di cinta in quel posto".
(a proposito: le mie traduzioni sono stranine, ma quelle di Repubblica di più)
Tutta colpa dell'Iran, comunque.
Aggiornamento con foto: "Minor damage was caused to the prison compound wall and to the house in which our two soldiers were held."
Brigadiere John Lorimer, Comandante della 12ma Brigata Meccanizzata.
Etichette:
Freedom fries,
iraq,
Usa
lunedì, settembre 19, 2005
Macabro puzzle/The sunshine girls
Esterno giorno, spiaggia. Due donne sui settanta, sedute in riva al mare. Bassa marea, gabbiani, luce settembrina.
– E poi, quei tocchi trovati a Doberdò?
– Nei sacchi delle scovazze, sì sì.
– L'altro giorno un torso...
– E poi dei arti: bracci, gambe.
– Ma niente teste.
– Niente. Per forza...
– Colle teste...
– Se fa il brodo!
– E poi, quei tocchi trovati a Doberdò?
– Nei sacchi delle scovazze, sì sì.
– L'altro giorno un torso...
– E poi dei arti: bracci, gambe.
– Ma niente teste.
– Niente. Per forza...
– Colle teste...
– Se fa il brodo!
Etichette:
città di G.,
dobraroba,
The Real Thing
martedì, settembre 13, 2005
Il macabro puzzle
A causa di elaborati lavori di rifacimento del vialetto sotto casa che prevedono un impiego smodato e mattiniero di martello pneumatico e ruspa mi assento per qualche giorno, metto pianeta e colonie in vacation mode e vi affido i commenti del blog per i soliti festini (ai quali potrei partecipare anch'io).
Questo per dire che, se sentite parlare del ritrovamento di un numero x di sacchetti contenenti resti umani in località Medeazza (Medja Vas) tra il Carso triestino (competenza del Calavera) e quello goriziano (doline mie), io ho ancora tutti i miei pezzetti al loro posto: il "macabro puzzle" con il quale sono alle prese "gli inquirenti" non condurrà alla mia foto segnaletica o al mio grazioso dna. Qui l'unico puzzle sarà il vialetto in questione, che i miei pretenziosi vicini vorranno lastricare di mattonelle zebrate Dolce e Gabbana o di mosaici pornosoft fintoromani.
Insomma, non sono stata depezzata.
Né ho bevuto del succo di frutta avvelenato da acquabomber.
Né (benché mi piaccia raccontarlo in giro e ne manifesti tutti i sintomi) sono stata rapita dagli alieni.
Vi bacio.
Questo per dire che, se sentite parlare del ritrovamento di un numero x di sacchetti contenenti resti umani in località Medeazza (Medja Vas) tra il Carso triestino (competenza del Calavera) e quello goriziano (doline mie), io ho ancora tutti i miei pezzetti al loro posto: il "macabro puzzle" con il quale sono alle prese "gli inquirenti" non condurrà alla mia foto segnaletica o al mio grazioso dna. Qui l'unico puzzle sarà il vialetto in questione, che i miei pretenziosi vicini vorranno lastricare di mattonelle zebrate Dolce e Gabbana o di mosaici pornosoft fintoromani.
Insomma, non sono stata depezzata.
Né ho bevuto del succo di frutta avvelenato da acquabomber.
Né (benché mi piaccia raccontarlo in giro e ne manifesti tutti i sintomi) sono stata rapita dagli alieni.
Vi bacio.
Etichette:
città di G.,
metablog,
The Real Thing
lunedì, settembre 12, 2005
L'innocente prima o poi si risente
Secondo fonti dell'esercito statunitense una buona parte (circa il 75%) degli iracheni catturati dagli americani in Iraq vengono rilasciati per mancanza di prove che attestino la loro pericolosità (traduzione: "perché sono innocenti"). Molti - circa la metà - sono rimessi in libertà pochi giorni dopo il loro arresto, ma altre migliaia di persone finiscono in carceri come Abu Ghraib, dove attendono in media sei mesi prima di esser scarcerate. Lo dice il tenente Kristy Miller, portavoce del sistema di dentenzione militare in Iraq.
Dall'inizio dell'invasione dell'Iraq fino agli inizi dello scorso mese 42.228 detenuti iracheni sono entrati in questo sistema di detenzione, e la maggior parte di essi è stata poi liberata. Venerdì scorso i detenuti erano 12.184.
Due membri iracheni del comitato che si occupa delle scarcerazioni hanno rivelato gli errori più comuni che portano all'arresto di innocenti. Un caso per tutti: i soldati statunitensi hanno arrestato un iracheno perché aveva con sé un manifesto con scritte in caratteri arabi e raffigurante un uomo decapitato. I soldati hanno subito pensato che si trattasse di propaganda terroristica e hanno trascinato l'uomo ad Abu Ghraib. Mesi dopo, quando gli avvocati iracheni hanno esaminato il caso si sono immediatamente resi conto che il manifesto era un innocente tributo a Imam Hussein, decapitato nel settimo secolo e profondamente venerato dagli Sciiti.
Se me ne vado in giro con il poster che raffigura (metti, e non ridere) la Salomè con la testa del Battista o il David con la testa di Golia e di consequenza - nell'impossibilità di spiegare l'equivoco ed essendo scambiata per una che va a tagliare la testa alle persone - mi faccio qualche mese di villeggiatura a spese del governo che occupa (ops, democratizza) il mio paese, mentre una commissione con calma si decide a scoprire l'esistenza del Caravaggio-questo-sconosciuto, magari quando esco non voglio tanto bene a quel paese che occupa (ops, democratizza) il mio. Magari a quel punto mio padre e tutti i miei cugini maschi anche di secondo grado si vorranno un po' vendicare. E io ne ho tanti, di cugini maschi anche di secondo grado.
Ovviamente a forza di arrestare innocenti si crea un certo risentimento: "Insurrezione dopo insurrezione, è diventato chiaro che se si gestiscono male le detenzioni si creano più insorti di quanti se ne vogliano eliminare", ha detto Anthony Cordesman del Centro per gli Studi Strategici Internazionali di Washington. Secondo Cordesman tutto questo succede perché gli americani hanno tardato a sviluppare un'accurata rete di intelligence. Semplicemente, non hanno reclutato un numero sufficiente di interpreti arabi.
Niente che non si sapesse già, vero? Però i numeri fanno una certa impressione.
Fonte: ajc.com
Dall'inizio dell'invasione dell'Iraq fino agli inizi dello scorso mese 42.228 detenuti iracheni sono entrati in questo sistema di detenzione, e la maggior parte di essi è stata poi liberata. Venerdì scorso i detenuti erano 12.184.
Due membri iracheni del comitato che si occupa delle scarcerazioni hanno rivelato gli errori più comuni che portano all'arresto di innocenti. Un caso per tutti: i soldati statunitensi hanno arrestato un iracheno perché aveva con sé un manifesto con scritte in caratteri arabi e raffigurante un uomo decapitato. I soldati hanno subito pensato che si trattasse di propaganda terroristica e hanno trascinato l'uomo ad Abu Ghraib. Mesi dopo, quando gli avvocati iracheni hanno esaminato il caso si sono immediatamente resi conto che il manifesto era un innocente tributo a Imam Hussein, decapitato nel settimo secolo e profondamente venerato dagli Sciiti.
Se me ne vado in giro con il poster che raffigura (metti, e non ridere) la Salomè con la testa del Battista o il David con la testa di Golia e di consequenza - nell'impossibilità di spiegare l'equivoco ed essendo scambiata per una che va a tagliare la testa alle persone - mi faccio qualche mese di villeggiatura a spese del governo che occupa (ops, democratizza) il mio paese, mentre una commissione con calma si decide a scoprire l'esistenza del Caravaggio-questo-sconosciuto, magari quando esco non voglio tanto bene a quel paese che occupa (ops, democratizza) il mio. Magari a quel punto mio padre e tutti i miei cugini maschi anche di secondo grado si vorranno un po' vendicare. E io ne ho tanti, di cugini maschi anche di secondo grado.
Ovviamente a forza di arrestare innocenti si crea un certo risentimento: "Insurrezione dopo insurrezione, è diventato chiaro che se si gestiscono male le detenzioni si creano più insorti di quanti se ne vogliano eliminare", ha detto Anthony Cordesman del Centro per gli Studi Strategici Internazionali di Washington. Secondo Cordesman tutto questo succede perché gli americani hanno tardato a sviluppare un'accurata rete di intelligence. Semplicemente, non hanno reclutato un numero sufficiente di interpreti arabi.
Niente che non si sapesse già, vero? Però i numeri fanno una certa impressione.
Fonte: ajc.com
Etichette:
Freedom fries,
iraq,
Usa
sabato, settembre 10, 2005
L'amico di John
Aggiornamento: colui che è entrato nel nostro album dei bei ricordi come "amico di John" si chiama Ben Marble ed è un giovane medico del pronto soccorso che nel tempo libero canta e suona in una rock band. La sua casa è stata distrutta dall'uragano, gli è appena nata una bambina, ha perso quasi tutto. Tranne la macchina. Ma i poliziotti costringono lui e gli altri che ancora hanno un'auto a lunghe deviazioni, con quel che costa la benzina. E così, quando sa che Cheney si trova da quelle parti e che verrà intervistato dalla tv, chiama un amico, prende la videocamera e con indosso una vecchia maglietta con su scritto "I pity da fool" parte per la sua piccola missione.
Ma non finisce qui.
Dopo un po' due della polizia militare lo vengono a cercare, mentre scava tra le macerie di casa sua, e lo ammanettano in attesa di ricevere informazioni sul suo conto. Dodici minuti dopo lo lasciano andare: "Hanno detto che non avevo infranto nessuna legge e che ero libero."
Poi il nostro eroe ha messo tutto il video in vendita su Ebay. Però ha dovuto togliere la parola fuck.
Santo paese.
Fonte: OpEdNews
Ma non finisce qui.
Dopo un po' due della polizia militare lo vengono a cercare, mentre scava tra le macerie di casa sua, e lo ammanettano in attesa di ricevere informazioni sul suo conto. Dodici minuti dopo lo lasciano andare: "Hanno detto che non avevo infranto nessuna legge e che ero libero."
Poi il nostro eroe ha messo tutto il video in vendita su Ebay. Però ha dovuto togliere la parola fuck.
Santo paese.
Fonte: OpEdNews
Etichette:
gofuckyourself
Il pianeta cadavere
Vi presento la colonia* Antipova, universo sette, quinta galassia:
Lo so, fa paura anche a me. Le luci e i colori sono quelli di un horror spaziale di Mario Bava (ma lui ci avrebbe aggiunto anche il fucsia), e la nube malefica è impossibile da ignorare.
Commento di A: "è come il lato oscuro della mente, l'imprevedibile pazzia, la follia di un impiegato del catasto che spara sulla folla."
Ancora adesso quando accedo alla schermata di riepilogo e vedo la mia nuova creatura (accanto alle più armoniose karenina, rostova, maslova e al pianeta principale mirumir) ho un lieve sobbalzo.
Adesso capisco come si sentiva la mamma del piccolo Charles Manson.
*per colonizzazione si intende prendere possesso di uno spazio vuoto, inospitale, completamente disabitato, e costruirci fabbrichette e laboratori. No, perché lo so che siete sospettosi per natura.
Lo so, fa paura anche a me. Le luci e i colori sono quelli di un horror spaziale di Mario Bava (ma lui ci avrebbe aggiunto anche il fucsia), e la nube malefica è impossibile da ignorare.
Commento di A: "è come il lato oscuro della mente, l'imprevedibile pazzia, la follia di un impiegato del catasto che spara sulla folla."
Ancora adesso quando accedo alla schermata di riepilogo e vedo la mia nuova creatura (accanto alle più armoniose karenina, rostova, maslova e al pianeta principale mirumir) ho un lieve sobbalzo.
Adesso capisco come si sentiva la mamma del piccolo Charles Manson.
*per colonizzazione si intende prendere possesso di uno spazio vuoto, inospitale, completamente disabitato, e costruirci fabbrichette e laboratori. No, perché lo so che siete sospettosi per natura.
Etichette:
dobraroba
venerdì, settembre 09, 2005
Non una, ma due volte
Voce fuori campo:
"Go fuck yourself Mr. Cheney. Go fuck yourself."
Disponibile in Quicktime e WMP su Crooks and Liars, qui.
E anche sul blog what tian has learned (link diretto, qui).
"Go fuck yourself Mr. Cheney. Go fuck yourself."
Disponibile in Quicktime e WMP su Crooks and Liars, qui.
E anche sul blog what tian has learned (link diretto, qui).
Etichette:
gofuckyourself
giovedì, settembre 08, 2005
Ventiquattro volte al secondo
La photographie, c'est la vérité
et le cinéma, c'est vingt-quatre fois la vérité par seconde.
Jean-Luc Godard
Grafica rivoluzionaria, stile inconfondibile, grandi contenuti: correte a vedere Kinobit, il vlog di Strelnik!
et le cinéma, c'est vingt-quatre fois la vérité par seconde.
Jean-Luc Godard
Grafica rivoluzionaria, stile inconfondibile, grandi contenuti: correte a vedere Kinobit, il vlog di Strelnik!
Il Terzo Mondo in casa
Di fronte agli umiliati e offesi di New Orleans il dubbio era venuto a molti, ma ora il rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano conferma che ci sono zone degli Stati Uniti povere come quelle del Terzo Mondo: il documento di 350 pagine - che può essere visto come una risposta insolitamente esplicita agli attacchi degli Stati Uniti all'ONU - critica la politica americana nella lotta alla povertà e afferma che "c'è urgente necessità di sviluppare una rete di sicurezza collettiva che vada oltre le risposte militari al terrorismo."
Per mezzo secolo gli Stati Uniti hanno assistito a un notevole calo della mortalità tra i bambini sotto i cinque anni, ma a partire dal 2000 questa tendenza si è invertita.
Anche se gli Stati Uniti sono primi al mondo nella spesa sanitaria - spendendo pro capite il doppio di quello che spendono in media le altre nazioni ricche dell'OCSE, e cioè il 13 per centro delle entrate nazionali - questo va sporporzionatamente a favore degli americani bianchi.
Il tasso di mortalità infantile negli Stati Uniti è oggi lo stesso della Malesia. Le spese in campo sanitario riflettono le sofisticate tecnologie americane. Ma il paradosso che sta al centro del sistema sanitario americano è che paesi che spendono molto meno degli Stati Uniti hanno in media una popolazione più sana, e questo a causa delle disparità e delle disuguaglianze americane. Un bambino appartenente al 5% costituito dalle famiglie più ricche d'America vivrà il 25% più a lungo di un bambino nato nel 5% costituito dalle famiglie più povere, e il tasso di mortalità infantile è lo stesso della Malesia che ha un quarto delle entrate degli Stati Uniti.
Tra i neri di Washington DC c'è una percentuale di mortalità infantile più alta dello stato indiano del Kerala.
La salute dei cittadini statunitensi dipende da molti fattori: l'assicurazione sanitaria, il reddito, la lingua e il livello di istruzione. Le madri nere hanno una doppia probabilità di mettere al mondo bambini sottopeso rispetto alle madri bianche, e i loro bambini hanno una probabilità maggiore di ammalarsi.
In tutti gli Stati Uniti i bambini neri hanno una doppia probabilità di morire prima di compiere un anno rispetto ai bambini bianchi.
Gli ispanoamericani hanno una doppia probabilità di non possedere un'assicurazione sanitaria.
Gli Stati Uniti sono l'unico paese ricco a non avere un sistema universale di assicurazione sanitaria. Più di una persona su sei in età lavorativa è priva di assicurazione. Tra le famiglie che vivono sotto la soglia della povertà, una su tre non è assicurata. Solo il 13% degli americani bianchi sono privi di assicurazione, in contrasto con il 21% dei neri e il 34% degli ispanoamericani. Nascere in una famiglia priva di assicurazione aumenta di circa il 50% le probabilità di morire entro il primo anno di vita.
Se fosse colmato il divario tra bianchi e neri nell'assistenza sanitaria, si salverebbero 85.000 vite all'anno.
La percentuale di povertà infantile (definita come l'appartenenza a una famiglia che ha un reddito inferiore al 50% del reddito medio nazionale) è attualmente superiore al 20%.
Fonti:
Human Development Report 2005
"UN hits back at US in report saying parts of America are as poor as Third World", The Independent
Per mezzo secolo gli Stati Uniti hanno assistito a un notevole calo della mortalità tra i bambini sotto i cinque anni, ma a partire dal 2000 questa tendenza si è invertita.
Anche se gli Stati Uniti sono primi al mondo nella spesa sanitaria - spendendo pro capite il doppio di quello che spendono in media le altre nazioni ricche dell'OCSE, e cioè il 13 per centro delle entrate nazionali - questo va sporporzionatamente a favore degli americani bianchi.
Il tasso di mortalità infantile negli Stati Uniti è oggi lo stesso della Malesia. Le spese in campo sanitario riflettono le sofisticate tecnologie americane. Ma il paradosso che sta al centro del sistema sanitario americano è che paesi che spendono molto meno degli Stati Uniti hanno in media una popolazione più sana, e questo a causa delle disparità e delle disuguaglianze americane. Un bambino appartenente al 5% costituito dalle famiglie più ricche d'America vivrà il 25% più a lungo di un bambino nato nel 5% costituito dalle famiglie più povere, e il tasso di mortalità infantile è lo stesso della Malesia che ha un quarto delle entrate degli Stati Uniti.
Tra i neri di Washington DC c'è una percentuale di mortalità infantile più alta dello stato indiano del Kerala.
La salute dei cittadini statunitensi dipende da molti fattori: l'assicurazione sanitaria, il reddito, la lingua e il livello di istruzione. Le madri nere hanno una doppia probabilità di mettere al mondo bambini sottopeso rispetto alle madri bianche, e i loro bambini hanno una probabilità maggiore di ammalarsi.
In tutti gli Stati Uniti i bambini neri hanno una doppia probabilità di morire prima di compiere un anno rispetto ai bambini bianchi.
Gli ispanoamericani hanno una doppia probabilità di non possedere un'assicurazione sanitaria.
Gli Stati Uniti sono l'unico paese ricco a non avere un sistema universale di assicurazione sanitaria. Più di una persona su sei in età lavorativa è priva di assicurazione. Tra le famiglie che vivono sotto la soglia della povertà, una su tre non è assicurata. Solo il 13% degli americani bianchi sono privi di assicurazione, in contrasto con il 21% dei neri e il 34% degli ispanoamericani. Nascere in una famiglia priva di assicurazione aumenta di circa il 50% le probabilità di morire entro il primo anno di vita.
Se fosse colmato il divario tra bianchi e neri nell'assistenza sanitaria, si salverebbero 85.000 vite all'anno.
La percentuale di povertà infantile (definita come l'appartenenza a una famiglia che ha un reddito inferiore al 50% del reddito medio nazionale) è attualmente superiore al 20%.
Fonti:
Human Development Report 2005
"UN hits back at US in report saying parts of America are as poor as Third World", The Independent
Etichette:
Katrina,
NewOrleans,
Usa
Di questo non si parla
Oggi è il nono giorno di sciopero della fame dei sette compagni che chiedono al Ministero degli Esteri e al governo italiano di garantire i visti ai sei esponenti della società civile irachena invitati alla Conferenza di Chianciano dell'1-2 ottobre 2005.
È bene ricordare chi sono questi esponenti:
Sheikh Jawad al Khalesi, leader dell'Iraqi National Foundation Congress; professore universitario sciita che si è opposto alle elezioni del 30 gennaio. Sta cercando di formare un fronte politico interconfessionale dell’opposizione. È già intervenuto diverse volte all’estero ed anche in Europa.
Ayatollah Sheikh Ahmed al Baghdadi, una delle più importanti autorità religiose sciite.
Salah al Mukhtar, già ambasciatore iracheno in India e Vietnam. Intellettuale dell’ambiente nazionalista-progressista. Attualmente esiliato in Yemen, collabora con numerosi giornali arabi.
Sheikh Hassan al Zargani, Portavoce internazionale del movimento di Muqtada al Sadr e editore del giornale Hawza chiuso dagli americani. Attualmente esule in Siria.
Mohamad Faris, Comunista patriottico iracheno residente in Siria. Sta lavorando per l’unificazione delle forze della Resistenza.
Ibrahim al Kubaisi, Medico di Falluja, fratello del segretario dell’Alleanza Patriottica Irachena, rapito dagli americani il 4 settembre 2004. Anch’egli ha già avuto modo di lasciare alcune volte l’Iraq.
Va ricordato anche che (come si è appreso agli inizi di agosto) 44 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno inviato una richiesta formale al governo italiano, invitandolo ad impedire lo svolgimento del convegno. L’ambasciata italiana a Baghdad, nei giorni successivi, ha comunicato che i visti richiesti per gli esponenti iracheni non sarebbero stati più concessi per decisione politica del Ministero degli Esteri.
Ora, l'impressione è che i mezzi di informazione ad ampia diffusione siano finora stati indecisi tra il non parlare affatto di questa vicenda e il parlarne in modo confuso e poco informato (per fare un esempio, si confonde tra l'organizzazione della conferenza e la presunta raccolta di fondi a favore della resistenza irachena).
Non sto parlando di solidarietà con il popolo iracheno e di critica dell'occupazione angloamericana (benché le trovi legittime e perfettamente sensate), mi fermo molto prima: non capisco perché quei sei esponenti della società civile irachena sono considerati pericolosi dal nostro Ministero degli Esteri (e lasciamo perdere discorsi vaghi sul terrorismo e la sicurezza del nostro paese: quellesei persone, e i loro tre interpreti, via), e se la decisione di non rilasciare i visti è conseguenza diretta delle pressioni americane e della lettera dei 44 membri del congresso degli Stati Uniti. A questo punto sono curiosa: c'è il pericolo che questi signori vengano qui ad "attentare alla nostra sicurezza"? E come? Ah, già, parlando: di elezioni irachene, di governi fantoccio, di Abu Ghraib, degli scontri interconfessionali alimentati dagli Stati Uniti, di guerra e di occupazione.
Un grazie ai "pericolosi" Sette che digiunano.
Tutte le informazioni sullo sciopero e le iniziative in corso, qui.
È bene ricordare chi sono questi esponenti:
Sheikh Jawad al Khalesi, leader dell'Iraqi National Foundation Congress; professore universitario sciita che si è opposto alle elezioni del 30 gennaio. Sta cercando di formare un fronte politico interconfessionale dell’opposizione. È già intervenuto diverse volte all’estero ed anche in Europa.
Ayatollah Sheikh Ahmed al Baghdadi, una delle più importanti autorità religiose sciite.
Salah al Mukhtar, già ambasciatore iracheno in India e Vietnam. Intellettuale dell’ambiente nazionalista-progressista. Attualmente esiliato in Yemen, collabora con numerosi giornali arabi.
Sheikh Hassan al Zargani, Portavoce internazionale del movimento di Muqtada al Sadr e editore del giornale Hawza chiuso dagli americani. Attualmente esule in Siria.
Mohamad Faris, Comunista patriottico iracheno residente in Siria. Sta lavorando per l’unificazione delle forze della Resistenza.
Ibrahim al Kubaisi, Medico di Falluja, fratello del segretario dell’Alleanza Patriottica Irachena, rapito dagli americani il 4 settembre 2004. Anch’egli ha già avuto modo di lasciare alcune volte l’Iraq.
Va ricordato anche che (come si è appreso agli inizi di agosto) 44 membri del Congresso degli Stati Uniti hanno inviato una richiesta formale al governo italiano, invitandolo ad impedire lo svolgimento del convegno. L’ambasciata italiana a Baghdad, nei giorni successivi, ha comunicato che i visti richiesti per gli esponenti iracheni non sarebbero stati più concessi per decisione politica del Ministero degli Esteri.
Ora, l'impressione è che i mezzi di informazione ad ampia diffusione siano finora stati indecisi tra il non parlare affatto di questa vicenda e il parlarne in modo confuso e poco informato (per fare un esempio, si confonde tra l'organizzazione della conferenza e la presunta raccolta di fondi a favore della resistenza irachena).
Non sto parlando di solidarietà con il popolo iracheno e di critica dell'occupazione angloamericana (benché le trovi legittime e perfettamente sensate), mi fermo molto prima: non capisco perché quei sei esponenti della società civile irachena sono considerati pericolosi dal nostro Ministero degli Esteri (e lasciamo perdere discorsi vaghi sul terrorismo e la sicurezza del nostro paese: quellesei persone, e i loro tre interpreti, via), e se la decisione di non rilasciare i visti è conseguenza diretta delle pressioni americane e della lettera dei 44 membri del congresso degli Stati Uniti. A questo punto sono curiosa: c'è il pericolo che questi signori vengano qui ad "attentare alla nostra sicurezza"? E come? Ah, già, parlando: di elezioni irachene, di governi fantoccio, di Abu Ghraib, degli scontri interconfessionali alimentati dagli Stati Uniti, di guerra e di occupazione.
Un grazie ai "pericolosi" Sette che digiunano.
Tutte le informazioni sullo sciopero e le iniziative in corso, qui.
martedì, settembre 06, 2005
Guarda chi si rivede
La FEMA, l'Agenzia federale per la gestione delle emergenze, qualche giorno fa aveva elencato sul suo sito le associazioni a cui mandare contributi in denaro per aiutare le vittime dell’uragano Katrina. Oggi quella pagina non esiste più (io ho fatto in tempo a vederla grazie a una segnalazione di Pino), ma, in breve, metteva a disposizione i nomi e i numeri di telefono della Croce Rossa, di Operation Blessing e di America's Second Harvest, una rete nazionale di banche del cibo.
Operation Blessing, con il suo bilancio di 190 milioni di dollari, è parte integrante dell'impero di Pat Robertson, il telepredicatore fondatore della Christian Coalition. E questo si sa.
Quello che si sa meno sta scritto oggi sul New York Daily News.
Nel 1994, durante il genocidio del Ruanda, Robertson usò il suo circuito televisivo 700 Club per raccogliere donazioni pubbliche a favore dei profughi ruandesi.
Nel 1999 un'indagine dell'ufficio del procuratore generale della Virginia concluse che gli aerei acquistati per portare nello Zaire gli aiuti umanitari per i rifugiati furono in realtà principalmente usati per trasportare apparecchiature in una miniera di diamanti gestita da una compagnia chiamata African Development Corp.
Chi dirigeva quella compagnia mineraria e ne era l'unico azionista? Pat Robertson stesso.
Si era assicurato la concessione mineraria da Mobutu Sese Seko, suo amico di lunga data e all’epoca dittatore dello Zaire.
Fonte: “Disaster used as political payoff”, New York Daily News.
(via War and Piece)
Operation Blessing, con il suo bilancio di 190 milioni di dollari, è parte integrante dell'impero di Pat Robertson, il telepredicatore fondatore della Christian Coalition. E questo si sa.
Quello che si sa meno sta scritto oggi sul New York Daily News.
Nel 1994, durante il genocidio del Ruanda, Robertson usò il suo circuito televisivo 700 Club per raccogliere donazioni pubbliche a favore dei profughi ruandesi.
Nel 1999 un'indagine dell'ufficio del procuratore generale della Virginia concluse che gli aerei acquistati per portare nello Zaire gli aiuti umanitari per i rifugiati furono in realtà principalmente usati per trasportare apparecchiature in una miniera di diamanti gestita da una compagnia chiamata African Development Corp.
Chi dirigeva quella compagnia mineraria e ne era l'unico azionista? Pat Robertson stesso.
Si era assicurato la concessione mineraria da Mobutu Sese Seko, suo amico di lunga data e all’epoca dittatore dello Zaire.
Fonte: “Disaster used as political payoff”, New York Daily News.
(via War and Piece)
Etichette:
Katrina,
NewOrleans,
Usa
Fallimenti
Scrive oggi Eugene Robinson sul Washington Post:
"Ogni città grande o piccola della Louisiana che non sia stata colpita dall’uragano è piena di sfollati. E poi ci sono le decine di migliaia in Texas e le moltitudini che si ritrovano sparse negli stati vicini. Le comunità che ospitano queste persone hanno le migliori intenzioni, ma molte non saranno in grado di sostenere economicamente il peso aggiuntivo. Dove andranno queste persone? Perché non c’era un piano?
Ed è qui che comincio a puntare il dito, perché pochi giorni sul posto del disastro mi hanno convinto che due sono le cose in cui il governo federale ha fallito, e che di questo fallimento possiamo incolpare unicamente il presidente.
Primo, un’amministrazione che a partire dall’11 settembre 2001 ci ha detto che un grande attentato terroristico è inevitabile avrebbe dovuto prevedere un buon piano per evacuare una grande città americana. Anche se non ci fosse stato un piano specifico per New Orleans – benché si sapesse che una rottura degli argini era una delle catastrofi naturali più probabili – avrebbe dovuto esserci un piano generico. George W. Bush ci ha detto più volte che le nostre città erano minacciate. Non avrebbe dovuto ordinare un piano per sgomberarle?
Secondo, qualcuno avrebbe dovuto pensare a cosa fare di centinaia di migliaia di sfollati, sia nell’immediato sia a lungo termine. Mentre la gente lasciava in massa New Orleans, sono state le autorità locali e statali a far fronte alla sfida, inventandosi cosa fare man mano che i problemi si ponevano. Portate quel gruppo di persone all’Astrodome. Abbiamo un albergo vuoto che possiamo usare. Mandatene un centinaio in chiesa e faremo del nostro meglio.
Le tendopoli non sono un’ipotesi entusiasmante, ma neanche l’improvvisazione. Qual è il problema? Il fervore ideologico dell’amministrazione Bush per lo “small government” (“meno governo”)? La Casa Bianca pensa davvero che la responsabilità maggiore debba ricadere sui volontari, sulle parrocchie, sugli individui? O si tratta solo di incredibile incompetenza e scarsa lungimiranza?"
Fonte: "It's your failure too, Mr Bush"
"Ogni città grande o piccola della Louisiana che non sia stata colpita dall’uragano è piena di sfollati. E poi ci sono le decine di migliaia in Texas e le moltitudini che si ritrovano sparse negli stati vicini. Le comunità che ospitano queste persone hanno le migliori intenzioni, ma molte non saranno in grado di sostenere economicamente il peso aggiuntivo. Dove andranno queste persone? Perché non c’era un piano?
Ed è qui che comincio a puntare il dito, perché pochi giorni sul posto del disastro mi hanno convinto che due sono le cose in cui il governo federale ha fallito, e che di questo fallimento possiamo incolpare unicamente il presidente.
Primo, un’amministrazione che a partire dall’11 settembre 2001 ci ha detto che un grande attentato terroristico è inevitabile avrebbe dovuto prevedere un buon piano per evacuare una grande città americana. Anche se non ci fosse stato un piano specifico per New Orleans – benché si sapesse che una rottura degli argini era una delle catastrofi naturali più probabili – avrebbe dovuto esserci un piano generico. George W. Bush ci ha detto più volte che le nostre città erano minacciate. Non avrebbe dovuto ordinare un piano per sgomberarle?
Secondo, qualcuno avrebbe dovuto pensare a cosa fare di centinaia di migliaia di sfollati, sia nell’immediato sia a lungo termine. Mentre la gente lasciava in massa New Orleans, sono state le autorità locali e statali a far fronte alla sfida, inventandosi cosa fare man mano che i problemi si ponevano. Portate quel gruppo di persone all’Astrodome. Abbiamo un albergo vuoto che possiamo usare. Mandatene un centinaio in chiesa e faremo del nostro meglio.
Le tendopoli non sono un’ipotesi entusiasmante, ma neanche l’improvvisazione. Qual è il problema? Il fervore ideologico dell’amministrazione Bush per lo “small government” (“meno governo”)? La Casa Bianca pensa davvero che la responsabilità maggiore debba ricadere sui volontari, sulle parrocchie, sugli individui? O si tratta solo di incredibile incompetenza e scarsa lungimiranza?"
Fonte: "It's your failure too, Mr Bush"
Etichette:
Katrina,
NewOrleans,
Usa
lunedì, settembre 05, 2005
Il problema di questi graffiti
- Stai dipingendo il muro, lo fai sembrare bello.
- Grazie.
- Non vogliamo che sia bello, odiamo questo muro, vattene via.
Il problema è che i graffiti di Banksy in Cisgiordania sono proprio belli.
(via electronic intifada)
domenica, settembre 04, 2005
Chiedo scusa se parlo di Cuba
E adesso se permettete parliamo anche di Cuba.
Ne parliamo partendo da quello che scrive sulla catastrofe di New Orleans Stan Goff nel suo Feral Scholar:
"Niente di tutto questo è naturale. La guerra non è naturale, e non lo è neanche la povertà. Di questo sta morendo la gente, non di un uragano.
[...]
Cuba ha evacuato 660.000 persone prima dell’Uragano Dennis, un Categoria 4 che l’ha colpita in luglio, e ha contato dieci morti. E questo perché Cuba non solo investe nella preparazione alle calamità e in difesa civile, ma perché c’è un forte coinvolgimento sociale nelle infrastrutture mediche, nel conseguimento di alti livelli di alfabetismo, nell’appoggio che il governo offre agli organizzatori delle comunità locali, solo per citare alcune delle ragioni.
Noi abbiamo fatto un’evacuazione da libero mercato, abbiamo detto alle persone di andarsene con i propri mezzi e quando era troppo tardi. Cuba è povera di risorse. Gli Stati Uniti sono ricchi di risorse. Immaginate un po’.”
Goff cita un rapporto dell'Oxfam America sul modello cubano di preparazione ai disastri. Il documento sottolinea l'importanza di alcuni elementi di fondamentale importanza nell'arginare gli effetti delle calamità:
- Accesso universale ai servizi (istruzione, salute, ecc.)
- Politiche per ridurre le disparità sociali ed economiche
- Notevole investimento in capitale umano
- Investimenti del governo nelle infrastrutture
- Organizzazione economica e sociale
Secondo il rapporto dell'Oxfam gli ultimi tre elementi del modello di sviluppo cubano producono effetti moltiplicatori che migliorano la prevenzione del rischio in vari modi. Basti considerare che il 95,9% della popolazione è alfabetizzata e in grado di accedere al materiale informativo sulle calamità. I bambini vanno a scuola fino alla nona classe. In tutto il paese c’è un sistema di strade adeguato che facilita le rapide evacuazioni. Ci sono regole edilizie che contribuiscono a limitare la vulnerabilità degli edifici. E poi il 95% delle case ha l’elettricità, così che le persone possano ricevere le notizie sui disastri dalla televisione e dalla radio.
Di Cuba, ma questa volta in relazione all'Uragano Ivan, parla anche Marjorie Cohn in un pezzo dal titolo "The Two Americas":
"Nel settembre dello scorso anno un uragano di categoria 5 ha spazzato la piccola isola di Cuba con venti di 250 chilometri orari. Più di 1,5 milioni di cubani sono stati evacuati in zone sicure prima dell’arrivo dell’uragano. Sono state distrutte 20.000 case, ma non c’è stato nessun morto.
Qual è il segreto di Fidel Castro? Secondo il Dr. Nelson Valdes, professore di sociologia all’Università del New Mexico e specializzato in America Latina, 'tanto per cominciare, l’intera difesa civile è radicata nella comunità. La gente sa in anticipo dove deve andare.'
'I capi cubani vanno in TV e prendono in mano la situazione,' ha detto Valdes.
[...]
Limitarsi a pigiare la gente in uno stadio è impensabile' a Cuba. 'In tutti i rifugi è presente personale medico del quartiere. A Cuba i medici di base prendono parte all’evacuazione con i loro assistiti, e sanno già, per esempio, chi può avere bisogno di insulina.'
Vengono portati via anche gli animali, gli apparecchi TV e frigoriferi, 'così che le persone non esitino ad andarsene per timore che qualcuno rubi le loro cose.'
Dopo l’uragano Ivan il Segretariato Internazionale delle Nazioni Unite per la Riduzione dei Disastri ha citato Cuba come un modello per la preparazione agli uragani. Il direttore dell’ISDR Salvano Briceno ha detto: 'Il sistema cubano potrebbe facilmente essere applicato ad altri paesi con condizioni economiche simili e perfino a paesi con risorse più ingenti che però non riescono a proteggere la popolazione come fa Cuba.'
[...]
Quando l’Uragano Ivan ha colpito Cuba non è stato imposto nessun coprifuoco. Non ci sono stati saccheggi o violenze. Tutti erano nella stessa barca.
Fidel Castro, che ha paragonato i preparativi del governo per l’Uragano Ivan ai preparativi per l’invasione degli Stati Uniti a lungo temuta, ha commentato: 'Ci prepariamo a questo da 45 anni.'"
Ne parliamo partendo da quello che scrive sulla catastrofe di New Orleans Stan Goff nel suo Feral Scholar:
"Niente di tutto questo è naturale. La guerra non è naturale, e non lo è neanche la povertà. Di questo sta morendo la gente, non di un uragano.
[...]
Cuba ha evacuato 660.000 persone prima dell’Uragano Dennis, un Categoria 4 che l’ha colpita in luglio, e ha contato dieci morti. E questo perché Cuba non solo investe nella preparazione alle calamità e in difesa civile, ma perché c’è un forte coinvolgimento sociale nelle infrastrutture mediche, nel conseguimento di alti livelli di alfabetismo, nell’appoggio che il governo offre agli organizzatori delle comunità locali, solo per citare alcune delle ragioni.
Noi abbiamo fatto un’evacuazione da libero mercato, abbiamo detto alle persone di andarsene con i propri mezzi e quando era troppo tardi. Cuba è povera di risorse. Gli Stati Uniti sono ricchi di risorse. Immaginate un po’.”
Goff cita un rapporto dell'Oxfam America sul modello cubano di preparazione ai disastri. Il documento sottolinea l'importanza di alcuni elementi di fondamentale importanza nell'arginare gli effetti delle calamità:
- Accesso universale ai servizi (istruzione, salute, ecc.)
- Politiche per ridurre le disparità sociali ed economiche
- Notevole investimento in capitale umano
- Investimenti del governo nelle infrastrutture
- Organizzazione economica e sociale
Secondo il rapporto dell'Oxfam gli ultimi tre elementi del modello di sviluppo cubano producono effetti moltiplicatori che migliorano la prevenzione del rischio in vari modi. Basti considerare che il 95,9% della popolazione è alfabetizzata e in grado di accedere al materiale informativo sulle calamità. I bambini vanno a scuola fino alla nona classe. In tutto il paese c’è un sistema di strade adeguato che facilita le rapide evacuazioni. Ci sono regole edilizie che contribuiscono a limitare la vulnerabilità degli edifici. E poi il 95% delle case ha l’elettricità, così che le persone possano ricevere le notizie sui disastri dalla televisione e dalla radio.
Di Cuba, ma questa volta in relazione all'Uragano Ivan, parla anche Marjorie Cohn in un pezzo dal titolo "The Two Americas":
"Nel settembre dello scorso anno un uragano di categoria 5 ha spazzato la piccola isola di Cuba con venti di 250 chilometri orari. Più di 1,5 milioni di cubani sono stati evacuati in zone sicure prima dell’arrivo dell’uragano. Sono state distrutte 20.000 case, ma non c’è stato nessun morto.
Qual è il segreto di Fidel Castro? Secondo il Dr. Nelson Valdes, professore di sociologia all’Università del New Mexico e specializzato in America Latina, 'tanto per cominciare, l’intera difesa civile è radicata nella comunità. La gente sa in anticipo dove deve andare.'
'I capi cubani vanno in TV e prendono in mano la situazione,' ha detto Valdes.
[...]
Limitarsi a pigiare la gente in uno stadio è impensabile' a Cuba. 'In tutti i rifugi è presente personale medico del quartiere. A Cuba i medici di base prendono parte all’evacuazione con i loro assistiti, e sanno già, per esempio, chi può avere bisogno di insulina.'
Vengono portati via anche gli animali, gli apparecchi TV e frigoriferi, 'così che le persone non esitino ad andarsene per timore che qualcuno rubi le loro cose.'
Dopo l’uragano Ivan il Segretariato Internazionale delle Nazioni Unite per la Riduzione dei Disastri ha citato Cuba come un modello per la preparazione agli uragani. Il direttore dell’ISDR Salvano Briceno ha detto: 'Il sistema cubano potrebbe facilmente essere applicato ad altri paesi con condizioni economiche simili e perfino a paesi con risorse più ingenti che però non riescono a proteggere la popolazione come fa Cuba.'
[...]
Quando l’Uragano Ivan ha colpito Cuba non è stato imposto nessun coprifuoco. Non ci sono stati saccheggi o violenze. Tutti erano nella stessa barca.
Fidel Castro, che ha paragonato i preparativi del governo per l’Uragano Ivan ai preparativi per l’invasione degli Stati Uniti a lungo temuta, ha commentato: 'Ci prepariamo a questo da 45 anni.'"
Imparare (anche) dal Bangladesh
Nei commenti abbiamo parlato delle inondazioni che ogni anno provocano migliaia di morti in Cina. C'è più di un paese che potrebbe insegnare qualcosa agli Stati Uniti nella gestione di queste emergenze, soprattutto quando si tratta di provvedere nell'immediato alla salute dei più deboli e degli indifesi.
Nel blog di Daniel Brett c'è un post molto interessante sull'alluvione del Bangladesh di poco più di un anno fa:
"Sono stati colpiti 41 distretti su 64, 30 milioni di abitanti hanno perso o abbandonato le loro abitazioni e ci sono stati almeno 600 morti.
Rispetto all'uragano Katrina si è trattato di una catastrofe di proporzioni ben maggiori, e il numero di morti è stato probabilmente inferiore. Ma il disastro è stato contenuto grazie all'istinto di sopravvivenza del popolo del Bangladesh, alla sua capacità di ingegnarsi di fronte alle avversità e a un forte senso del lavoro.
Invece di sparare e saccheggiare, i bangladesi hanno immediatamente usato le loro modeste risorse per limitare l'impatto delle inondazioni prima che giungessero gli aiuti internazionali.
Scrisse allora il blogger bangladese Rezwan:
'Adesso la vera sfida sta nel tenere lontane le vittime dalle epidemie e dalle malattie e nel riabilitarle. Sul territorio si sono distribuite quasi 5000 unità mediche per cercare di contenere il diffondersi di malattie. In tutto il paese si è fatto molto per fornire cibo alle vittime dell'alluvione, che ora si trovano raccolte in rifugi improvvisati (di solito le istituzioni scolastiche governative). Nel mio quartiere in una sola via ci sono ben due iniziative per raccogliere le donazioni sotto forma di farina, sale, acqua e porzioni di cibo da mandare alle vittime.'
Paragonate questo con New Orleans, dove si spara agli elicotteri dei soccorritori, dove i corpi marciscono per strada, gli ospedali non hanno capacità né medicine e solo i mass media sembrano essere in grado di mobilitarsi.
Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo, ma è riuscito comunque a raggiungere una crescita dello 0,3% del prodotto agricolo tra il luglio 2004 e il giugno 2005, rispetto al 4,3% dell'anno finanziario precedente. Se il raccolto totale di grano è sceso del 4,0%, il riso raccolto nel febbraio-marzo del 2005 è aumentato del 9,4% rispetto all'anno precedente, e questo accadeva meno di sei mesi dopo l'inondazione. Il prodotto interno lordo è crollato dell'1,1%, ma è stata una conseguenza dell'abolizione delle quote di commercio nei mercati occidentali più che dell'inondazione.
Il fatto che l'economia sia stata capace di riprendersi così presto dall'inondazione testimonia la capacità dei bangladesi di rimettersi in piedi e ricominciare a costruire. Questo istinto di sopravvivenza probabilmente deve molto alla guerra di liberazione del 1970-71 contro il Pakistan, in cui sono morte centinaia di migliaia di bangladesi.
Gli americani non hanno mai veramente dovuto affrontare avversità di questo tipo. La loro società è stata atomizzata dal capitalismo del libero mercato e i legami sociali sono deboli, rendendo molto più difficile la solidarietà e l'aiuto reciproco. Invece i bangladesi attribuiscono una grande importanza ai legami sociali e familiari, che li hanno accompagnati attraverso una moltitudine di disastri umani e naturali. Le esperienze del Bangladesh ci dimostrano che, di fronte alle catastrofi, il denaro non rende la società più compatta o meglio organizzata.
Gli americani hanno molto da imparare dal Bangladesh in termini di ordine sociale e di gestione delle emergenze. È tempo di rinunciare a questo atteggiamento di superiorità."
Nel blog di Daniel Brett c'è un post molto interessante sull'alluvione del Bangladesh di poco più di un anno fa:
"Sono stati colpiti 41 distretti su 64, 30 milioni di abitanti hanno perso o abbandonato le loro abitazioni e ci sono stati almeno 600 morti.
Rispetto all'uragano Katrina si è trattato di una catastrofe di proporzioni ben maggiori, e il numero di morti è stato probabilmente inferiore. Ma il disastro è stato contenuto grazie all'istinto di sopravvivenza del popolo del Bangladesh, alla sua capacità di ingegnarsi di fronte alle avversità e a un forte senso del lavoro.
Invece di sparare e saccheggiare, i bangladesi hanno immediatamente usato le loro modeste risorse per limitare l'impatto delle inondazioni prima che giungessero gli aiuti internazionali.
Scrisse allora il blogger bangladese Rezwan:
'Adesso la vera sfida sta nel tenere lontane le vittime dalle epidemie e dalle malattie e nel riabilitarle. Sul territorio si sono distribuite quasi 5000 unità mediche per cercare di contenere il diffondersi di malattie. In tutto il paese si è fatto molto per fornire cibo alle vittime dell'alluvione, che ora si trovano raccolte in rifugi improvvisati (di solito le istituzioni scolastiche governative). Nel mio quartiere in una sola via ci sono ben due iniziative per raccogliere le donazioni sotto forma di farina, sale, acqua e porzioni di cibo da mandare alle vittime.'
Paragonate questo con New Orleans, dove si spara agli elicotteri dei soccorritori, dove i corpi marciscono per strada, gli ospedali non hanno capacità né medicine e solo i mass media sembrano essere in grado di mobilitarsi.
Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo, ma è riuscito comunque a raggiungere una crescita dello 0,3% del prodotto agricolo tra il luglio 2004 e il giugno 2005, rispetto al 4,3% dell'anno finanziario precedente. Se il raccolto totale di grano è sceso del 4,0%, il riso raccolto nel febbraio-marzo del 2005 è aumentato del 9,4% rispetto all'anno precedente, e questo accadeva meno di sei mesi dopo l'inondazione. Il prodotto interno lordo è crollato dell'1,1%, ma è stata una conseguenza dell'abolizione delle quote di commercio nei mercati occidentali più che dell'inondazione.
Il fatto che l'economia sia stata capace di riprendersi così presto dall'inondazione testimonia la capacità dei bangladesi di rimettersi in piedi e ricominciare a costruire. Questo istinto di sopravvivenza probabilmente deve molto alla guerra di liberazione del 1970-71 contro il Pakistan, in cui sono morte centinaia di migliaia di bangladesi.
Gli americani non hanno mai veramente dovuto affrontare avversità di questo tipo. La loro società è stata atomizzata dal capitalismo del libero mercato e i legami sociali sono deboli, rendendo molto più difficile la solidarietà e l'aiuto reciproco. Invece i bangladesi attribuiscono una grande importanza ai legami sociali e familiari, che li hanno accompagnati attraverso una moltitudine di disastri umani e naturali. Le esperienze del Bangladesh ci dimostrano che, di fronte alle catastrofi, il denaro non rende la società più compatta o meglio organizzata.
Gli americani hanno molto da imparare dal Bangladesh in termini di ordine sociale e di gestione delle emergenze. È tempo di rinunciare a questo atteggiamento di superiorità."
Etichette:
Bangladesh,
Katrina
venerdì, settembre 02, 2005
Coloro che hanno scelto di restare
"Nella distruzione di New Orleans sono confluite molte delle tendenze più pericolose della politica e della cultura americane: la povertà, il razzismo, il militarismo, l'avidità delle élite del potere, i danni ambientali, la corruzione e il decadimento della democrazia a ogni livello.
Molto di tutto ciò si rispecchia nello strano linguaggio che anche i mezzi di informazione più cauti hanno usato per descrivere le vittime maggiormente colpite dall'uragano e dalle sue devastanti conseguenze: "coloro che hanno scelto di restare." La situazione è stata subito descritta in modo da lusingare i pregiudizi dei benestanti e negare la realtà dei più vulnerabili.
È ovvio che la grande maggioranza di coloro che non sono scappati sono poveri: non avevano un luogo dove andare, non avevano la possibilità di andarci, non avevano i mezzi per mantenere se stessi e le proprie famiglie in posti estranei. Se ci sono sicuramente state delle persone che sono rimaste per scelta, i più sono rimasti perché non avevano scelta.
Sono rimasti intrappolati dalla loro povertà, e hanno pagato con la vita.
E tuttavia, attraverso lo spettro mediatico, dagli osservatori privilegiati filtra una leggera sfumatura di disapprovazione, la chiara insinuazione che le vittime sono semplicemente state troppo pigre o incapaci per mettersi in salvo. Non c'è comprensione - nemmeno un tentativo di comprensione - per la miseria, l'isolamento, l'immobilità dei poveri, dei malati e dei disperati che vivono tra noi.
[...]
Per quanto colpevole, criminale e odiosa sia l'amministrazione Bush, è solo l'apoteosi di una tendenza della società americana che è diventata sempre più forte e che dura da decenni: la distruzione dell'idea di un bene comune, di un settore pubblico i cui benefici e le cui responsabilità sono condivisi da tutti, e amministrati con il consenso dei cittadini. Per più di trent'anni la destra corporativa ha condotto un'implacabile e concentrata campagna contro il bene comune, cercando di atomizzare gli individui in isolate "unità di consumo" le cui energie politiche - tenute in uno stato di scarsa informazione dagli onnipresenti mezzi di informazione corporativi - possono essere sviate a piacimento verso temi "caldi" (i matrimoni gay, la preghiera a scuola, il vilipendio alla bandiera [...] la minaccia del terrorismo, ecc. ecc.] che non mettono mai in pericolo la realtà del Big Money, dei soldi veri."
Chris Floyd, "The Perfect Storm. New Orleans and the Death of the Common Good", su Counterpunch.
Molto di tutto ciò si rispecchia nello strano linguaggio che anche i mezzi di informazione più cauti hanno usato per descrivere le vittime maggiormente colpite dall'uragano e dalle sue devastanti conseguenze: "coloro che hanno scelto di restare." La situazione è stata subito descritta in modo da lusingare i pregiudizi dei benestanti e negare la realtà dei più vulnerabili.
È ovvio che la grande maggioranza di coloro che non sono scappati sono poveri: non avevano un luogo dove andare, non avevano la possibilità di andarci, non avevano i mezzi per mantenere se stessi e le proprie famiglie in posti estranei. Se ci sono sicuramente state delle persone che sono rimaste per scelta, i più sono rimasti perché non avevano scelta.
Sono rimasti intrappolati dalla loro povertà, e hanno pagato con la vita.
E tuttavia, attraverso lo spettro mediatico, dagli osservatori privilegiati filtra una leggera sfumatura di disapprovazione, la chiara insinuazione che le vittime sono semplicemente state troppo pigre o incapaci per mettersi in salvo. Non c'è comprensione - nemmeno un tentativo di comprensione - per la miseria, l'isolamento, l'immobilità dei poveri, dei malati e dei disperati che vivono tra noi.
[...]
Per quanto colpevole, criminale e odiosa sia l'amministrazione Bush, è solo l'apoteosi di una tendenza della società americana che è diventata sempre più forte e che dura da decenni: la distruzione dell'idea di un bene comune, di un settore pubblico i cui benefici e le cui responsabilità sono condivisi da tutti, e amministrati con il consenso dei cittadini. Per più di trent'anni la destra corporativa ha condotto un'implacabile e concentrata campagna contro il bene comune, cercando di atomizzare gli individui in isolate "unità di consumo" le cui energie politiche - tenute in uno stato di scarsa informazione dagli onnipresenti mezzi di informazione corporativi - possono essere sviate a piacimento verso temi "caldi" (i matrimoni gay, la preghiera a scuola, il vilipendio alla bandiera [...] la minaccia del terrorismo, ecc. ecc.] che non mettono mai in pericolo la realtà del Big Money, dei soldi veri."
Chris Floyd, "The Perfect Storm. New Orleans and the Death of the Common Good", su Counterpunch.
Etichette:
Katrina,
NewOrleans,
Usa
Google mon amour
Il Premio "Chiave di Ricerca" di oggi è già stato assegnato:
"e 'corretto' dire che ho battuto la testa vicino un letto?"
Ha anche avuto la sensibilità di mettere "corretto" tra virgolette, ché non si sa mai.
"e 'corretto' dire che ho battuto la testa vicino un letto?"
Ha anche avuto la sensibilità di mettere "corretto" tra virgolette, ché non si sa mai.
Etichette:
metablog
giovedì, settembre 01, 2005
Un due tre via: Aserejé in tibetano
Toni_i scrive:
"Ho sentito (ma purtroppo non sono riuscito a trovare nei negozi di cd) una versione di Aserejé (il tormentone delle Las Ketchup!) in... tibetano! Propongo una gara tra i frequentatori del blog per trovare la versione in mp3. La proporrei come nuovo inno dei lavoratori e delle lavoratrici della regione himalaiana.
'Aserejé, ja deje tejebe tude jebere
Sebiunouba majabi an de bugui an de buididipí...'"
E così, per celebrare il 40° anniversario della fondazione della Regione Autonoma Tibetana, la gara parte... ora! e durerà fino all'esaurimento dei concorrenti.
Sebiunouba a tutti.
"Ho sentito (ma purtroppo non sono riuscito a trovare nei negozi di cd) una versione di Aserejé (il tormentone delle Las Ketchup!) in... tibetano! Propongo una gara tra i frequentatori del blog per trovare la versione in mp3. La proporrei come nuovo inno dei lavoratori e delle lavoratrici della regione himalaiana.
'Aserejé, ja deje tejebe tude jebere
Sebiunouba majabi an de bugui an de buididipí...'"
E così, per celebrare il 40° anniversario della fondazione della Regione Autonoma Tibetana, la gara parte... ora! e durerà fino all'esaurimento dei concorrenti.
Sebiunouba a tutti.
Etichette:
ohno
mercoledì, agosto 31, 2005
Terroristi assassini
La puntata di Controcorrente di ieri sera su SkyTg24 avrebbe dovuto essere dedicata al Convegno di Chianciano. In realtà del convegno non si è parlato moltissimo, e la colpa non è stata di Leonardo Mazzei, portavoce del Comitato Iraq Libero, né di Franco Cardini: il livello di approfondimento è stato zero. Il conduttore ha esordito ponendo il problema morale di fronte allo sgozzamento dei civili. Conosco modi migliori per cominciare a parlare del Convegno sull'Iraq, del mancato rilascio dei visti, delle pressioni americane e della sudditanza italiana. Insomma, argomenti ce ne sarebbero stati, per un'ora di trasmissione compreso il Tg.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di Massimo Teodori, ospite in studio.
Ebbene, Teodori è riuscito a nominare:
"terrorismo assassino"/"terroristi assassini": 10 volte.
"terrorismo"/"terroristi": 9 volte.
Nel tempo rimanente a sua disposizione:
ha finto di voler abbandonare lo studio: 1 volta
si è rivolto a Franco Cardini ricordandogli le sue posizioni di "estrema destra" ("più a destra dell'MSI"), senza che vi fosse alcun collegamento con il contesto: 2 volte.
E non è neanche facile, in una trasmissione di un'ora. Non escludo che si sia lasciato scappare qualche balbettio sul "terror.. assass.."; in tal caso il mio calcolo andrebbe rivisto.
Mentre scorrevano i titoli di coda, lettura di e-mail da casa ("I resistenti iracheni sono come i repubblichini?"), risposta secca di Cardini, tazza di cappuccino offerta dal conduttore a Mazzei che poche ore dopo avrebbe cominciato lo sciopero della fame.
Non voglio deprimermi.
Voglio solo espatriare.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di Massimo Teodori, ospite in studio.
Ebbene, Teodori è riuscito a nominare:
"terrorismo assassino"/"terroristi assassini": 10 volte.
"terrorismo"/"terroristi": 9 volte.
Nel tempo rimanente a sua disposizione:
ha finto di voler abbandonare lo studio: 1 volta
si è rivolto a Franco Cardini ricordandogli le sue posizioni di "estrema destra" ("più a destra dell'MSI"), senza che vi fosse alcun collegamento con il contesto: 2 volte.
E non è neanche facile, in una trasmissione di un'ora. Non escludo che si sia lasciato scappare qualche balbettio sul "terror.. assass.."; in tal caso il mio calcolo andrebbe rivisto.
Mentre scorrevano i titoli di coda, lettura di e-mail da casa ("I resistenti iracheni sono come i repubblichini?"), risposta secca di Cardini, tazza di cappuccino offerta dal conduttore a Mazzei che poche ore dopo avrebbe cominciato lo sciopero della fame.
Non voglio deprimermi.
Voglio solo espatriare.
Etichette:
media,
terrorismo
Iscriviti a:
Post (Atom)