Non amo dare qui giudizi su film e raccomandarne o sconsigliarne la visione. Al massimo slittano direttamente nella categoria "dobraroba". Questa è un'eccezione.
Poche sere fa ho visto
Essere e Avere, di Nicholas Philibert, un film-documentario ambientato nel Puy-de-Dôme, nella Francia rurale. È la storia di un anno scolastico in una vera multiclasse, o classe unica, in cui "i più piccoli", "i piccoli" e "i più grandi" vengono seguiti e istruiti da un maestro sulla soglia della pensione (si tratta per lui dell'ultimo anno di insegnamento).
Con occhio attento e quasi invisibile, il regista osserva e registra la vita della classe, i suoi ritmi quotidiani scanditi dalle stagioni: il film si apre infatti con uno scuolabus che affronta un paesaggio montano invernale e si chiude con le ultime lezioni all'aperto e la gita nel silenzio dei campi di grano in un'estate abbagliante.
Giorno dopo giorno, senza un'evidente imposizione di ritmo e senza apparente fretta, ci vengono mostrati minimi e lenti progressi, scene di vita familiare (come l'episodio dell'intera famiglia alle prese con il problema di aritmetica del bambino), momenti di vita di classe. Vediamo il maestro, alle prese con un dovere sentito e coltivato come vocazione, impartire i rudimenti della scrittura e della costruzione delle frasi, farsi severo di fronte a un litigio tra ragazzi, tranquillizzare una mamma preccupata per i problemi di apprendimento e di comunicazione della sua bambina e un bimbo in ansia per la malattia del papà. A un certo punto ascoltiamo il maestro parlare di sé e della sua storia familiare – i genitori fieri del suo lavoro di insegnante, i sacrifici della famiglia, una professione voluta e sentita fin da piccolo – e capiamo quanto sia a un tempo consapevole del suo ruolo e vicino ai genitori umili dei suoi allievi. Lo vediamo presente e sollecito, mentre dosa l'alfabeto e i numeri alla sua classe, sovrintende divertito alla loro educazione fino a quell'"au revoir monsieur" detto da ciascuno dei bambini, ultimo di una lunga serie e, semplicemente, ultimo: i bambini ci sfilano davanti agli occhi fuori dalla classe e dal film. La sola figura del maestro, l'aria un po' spaesata e commossa, occupa l'inquadratura finale.
E mi sono resa conto di questo: pensavo i due verbi impegnativi del titolo alludessero a concetti, a chissà quali lezioni morali. Sono invece i primi due verbi che si imparano a scuola, che si coniugano con lentezza esasperante, tra gli errori e gli incespicamenti.
Ho pensato spesso, negli ultimi giorni, a questo film-documentario in cui i bambini sono coltivati e protetti come belle e preziose piantine: si ha l'impressione che la scuola davvero li difenda e li custodisca, che si prenda cura di loro, che li renda più forti nonostante le lacune e le imperfezioni, e forse più fortunati dei loro genitori, migliori. Come deve essere.
Ne
L'argent de poche (tradotto in italiano come
Gli anni in tasca), che l'opera di Philibert richiama, anche per l'ambientazione – se non fosse che a Truffaut sta a cuore la storia, e anche un po' di autobiografia, e non la verosimiglianza – si assiste alla caduta dalla finestra di un bambino, con miracoloso lieto fine. Un personaggio commenta: "i bambini sbattono contro tutto, sbattono contro la vita, ma hanno la grazia divina, e anche la pelle dura".
Invece noi lo sappiamo, non hanno la pelle abbastanza dura. La "grazia divina" spesso si dimentica di loro, lasciandoci inariditi a desiderare che le cose andassero, se non come nel film di Truffaut, almeno come nella tenace, coraggiosa multiclasse di
Essere e Avere.