martedì, settembre 19, 2006

Mai dire mi dispiace

A casa non lo sapevano, ma a sei anni ero cresciuta abbastanza da arrampicarmi su una delle sedie imbottite del soggiorno e raggiungere l'Enciclopedia della Famiglia, una sintesi dello scibile domestico in otto volumi che spaziava dall'arredamento allo svezzamento con una disinvoltura e una predilezione per le immagini ammiccanti che ora definirei decisamente pop. Dopo una veloce occhiata a "Casa e Giardino" mi ero subito concentrata sulla sessuologia e sul controllo delle nascite (anche se per molto tempo, a causa di quel primo fatale errore di lettura, avrei detto Ogino-Kneipp). Tutte cose che mia madre avrebbe tentato di spiegarmi anni dopo, seguendo scrupolosamente le linee guida de "I Figli, volume 1: Dalla scuola elementare all'adolescenza". L'Enciclopedia della Famiglia era stata acquistata proprio per questo, trascurando però di sistemarla su uno scaffale più alto per non guastarmi la suspense al momento opportuno.
Comunque stavano cominciando gli emancipati anni Settanta, i cambiamenti erano nell'aria e io mi stavo inconsapevolmente mettendo al passo con i tempi, anche se ancora non mi era evidente il legame tra il malto Kneipp e le dinamiche delle ovaie.

Quando Antonia e la mamma si misero in testa di andare finalmente a vedere Love Story in seconda o in terza visione e dovettero scegliere se lasciarmi dalle zie o portarmi con loro, giudicarono che un po' di melassa non mi avrebbe fatto male e che comunque non ci avrei capito nulla. Si sbagliavano. La parte del sesso - quella che avrebbe dovuto risultarmi oscura - per quanto ingentilita era chiarissima (per lo meno non si parlava di malto). Trovai che l'attrice - che mia madre chiamava Ali Meggràv, non sapendo bene come comportarsi quando si trovava davanti una "a" e una "w" accostate - avesse le sopracciglia troppo folte, mentre lui mi piacque abbastanza. Il meccanismo emotivo a un certo punto mi sfuggì (mamma e Antonia apparentemente inconsolabili, io seduta in mezzo ad accarezzare compiaciuta il velluto rosso delle poltrone e a guardarmi attorno), e naturalmente non piansi. Imparai invece il nome di una grave malattia, leucemia, e mi venne in mente che dopo quell'Accidente di Sesso c'era il temibile Volume Medico.
Passai i giorni successivi a spiare illustrazioni spaventose, a sillabare termini oscuri e a covare una feroce ipocondria che avrebbe accompagnato tutti i momenti insopportabilmente felici della mia vita: ricordo ancora con un brivido d'orrore la sequenza che da una semplice appendice infiammata portava alla peritonite e a una coreografica esplosione finale, stile "Ultimi giorni di Pompei".
Fu dunque un sollievo chiudere "Il Corpo, volume 2: Guida medica" ed entrare nel rassicurante territorio dell'"Igiene", dove imparai le meraviglie della dieta macrobiotica (dunque il pollo alla sbirraglia di Antonia non era "in") e decisi che all'età minima consentita mi sarei depilata le sopracciglia.
La mamma e la nonna nel frattempo smisero il lutto per Ali Meggràv, concedendosi qualche romantica e tardiva lacrima solo quando si trattò di raccontare la trama a zia Graziella. Alla radio ogni tanto andava la versione cantata da Johnny Dorelli del tema musicale ("Grazie amore mio/di aver sfidato tutto il mondo insieme a me") e Antonia gestiva l'emergenza sentimentale commentando tempestivamente che quel Dorelli aveva proprio una gran faccia da smanfaro.

Presto ci dimenticammo di Love Story; io decisi che per il momento non avevo nessuna malattia mortale e archiviai l'Enciclopedia della Famiglia, transitando a più infantili letture nell'attesa di riuscire a tirar giù dallo scaffale I Peccati di Peyton Place, ancora inarrivabile. Poco tempo dopo al cinema uscì Il Padrino, che mi vietarono (versione italiana del tema musicale, "Parla più piano e vieni più vicino a me", cantata sempre dal Dorelli, l'asso pigliatutto delle melodie travagliate di natura medica o mafiosa).

In seguito vi fu un solo momento di imbarazzo, alla presenza di un ignaro ospite a pranzo. Accadde dopo il caffè, quando la mamma si avvicinò spingendo cerimoniosamente il carrello dei liquori, assortito secondo le regole de "La buona tavola, volume 1: cantina, bar e dispensa": dalla solennità dell'incedere avresti detto che seduto sul divano ci fosse Ugo Pagliai o anche quella faccia da smanfaro di Johnny Dorelli, e invece era solo un amico di papà.
– Qualcosa da bere, Tullio?
– Grazie, un amaro.
Antonia lo intese come il la per una battuta lungamente attesa:
– Amaro significa non dover mai dire mi dispiace.
Scosse il capo, si alzò dalla poltrona, si drappeggiò pensosamente un tovagliolo sul braccio sinistro e fece un'uscita di scena legnosa, lenta, memorabile.
Papà rimase a fissare la poltrona vuota, la mamma urtò con la bottiglia il bordo di un bicchiere, Tullio studiò l'orologio a muro con l'espressione stupefatta di uno che avesse appena scoperto la lancetta dei secondi. Sembravamo un gruppo di sospetti in un giallo del tenente Sheridan, tutti riuniti nel tinello prima della rivelazione finale: stessa studiata indifferenza, stessi sguardi sfuggenti, stessa aria vagamente colpevole. Poi dalla cucina arrivò il suono della radio a transistor di Antonia, accompagnato da un canticchiare soddisfatto in vivace arrampicata sulle note alte.
– Va' a chiedere alla signora Duse se per caso gradisce un Cynar, disse mio padre.

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