martedì, gennaio 20, 2009
Black human is going to first president
Hello every one.
How are you doing today.
Nice to see you.
My news is OBAMA.
OBAMA is black human.
Black human is going to first president.
OBAMA is win.
[Dal blog di un professore americano che vive in Giappone, insegna ai ragazzi delle superiori e ogni tanto pubblica le creazioni in Engrish dei suoi studenti.
Arigato gozaimasu, Andrea!].
lunedì, gennaio 19, 2009
Grande Concorso Completa la Frase!/2
Ne avete abbastanza di studi pseudoparaultraquasiscientifici sulle origini di dipendenze/manie/fobie/istinti/vezzi/turbe psichiche/golosità/capricci e della vittoria schiacciante di Voyager sul comune buon senso?
Partecipate al Grande Concorso Completa la Frase (senza l'aiutino di Google) e Vinci una Madonnina Placcata Zecchina!
La frase di oggi è: "... è il sorprendente risultato di uno studio dell'Università di Newcastle".
Voi tentate di completarmi la frase che poi ce la ridiamo un po' tra noi.
LA SOLUZIONE
Ed ecco la frase completa:
"La ricchezza del loro partner assicura alle donne, oltre a un futuro economicamente solido, un sesso appagante con un maggior numero di orgasmi: è il sorprendente risultato di uno studio dell'Università di Newcastle, di cui dà notizia il Times nell'edizione online".
Link.
Ora, capite: si fanno ricerche! Noi stiamo qua - chi in Siberia con le galosce, chi a fare logistica delle virgole, chi a cercare uno che gli compri il Chelsea -, e a Newcastle c'è un tale dottor Pollet che trae conclusioni sorprendenti for a living.
Il colpo di scena, badate bene, è che il Pollet non mi è andato in giro a somministrare questionari tra le donne in età orgasmica di Newcastle, lui ha preso i risultati di uno studio cinese.
Dunque magari la variabile non sono i soldi ma l'anatra laccata alla pechinese o la fonduta sichuanese (voi vi aspettavate che scrivessi involtini primavera, lo so, stavo per). O qualche cosa che sta nel tè.
La perla: "La novità di questa ricerca consiste nel fatto che l’orgasmo non ha funzione riproduttiva".
E questa è la buona notizia (non so voi, ma io un po' me la sentivo).
La cattiva notizia è che è misteriosamente legato agli Studi di Settore.
giovedì, gennaio 15, 2009
Se pensavate che la vita di un merlo laborioso fosse facile
1. Un merlo laborioso ha raccolto nel primo volo 3 chili di insetti, e nel secondo volo 2 volte di più. Il merlo operoso* si è mangiato 1/3 di tutti gli insetti catturati, e ha diviso gli altri in parti uguali tra i suoi tre uccellini. Quanti chili di insetti sono rimasti a ciascun uccellino?
*il merlo operoso e il merlo laborioso sono lo stesso merlo, mi sono presa questa libertà per un attacco di sinonimite e per complicare la soluzione moltiplicando vertiginosamente il numero di cargo - ops, merli - coinvolti, N.d.T.!
Più che un merlo, un pellicano.
Un condor.
Un corriere UPS.
martedì, gennaio 13, 2009
Di funghi e bambine
sabato, gennaio 10, 2009
venerdì, gennaio 09, 2009
Schivare si può
Lo scorso settembre.
- Buonasera, favorisca patente e libretto.
- Buonas... un momento, eh.
- Torna a casa?
- Sì, ehm.
- Passato una bella serata?
- Abbastanza, grazie.
- Viene dalla Strada del Vallone?
- Sì. No, sa, perché io ero terrorizzata dalla guida, e invece adesso questa strada tutte curve di notte mi piace tantissimo.
- Attenzione, però.
- Vado piano.
- Attenzione ai caprioli.
- Certo.
- Se un capriolo le attraversa la strada, non lo schivi.
- Eh?
- Non lo schivi, mai.
- Ma.
- Un mio amico è morto per schivare un riccio. Sul Vallone.
- Va bene.
- Tutto a posto, buonanotte.
- Buonanotte.
- E si ricordi: mai schivare un capriolo.
Questa notte.
Stava immobile sul ciglio della strada, poi ha attraversato, si è bloccato, ho sterzato, ha ripreso a correre, ho inchiodato. Ho sentito i suoi zoccoli che scalciavano contro il mio paraurti mentre prendeva lo slancio per correre via e scartare verso il bosco.
Ho schivato un cucciolo di capriolo.
Quel tratto di strada non era ghiacciato, non arrivavano auto in senso opposto, i freni funzionavano e lui era bellissimo. La radio trasmetteva "All along the watchtower", versione di Jimi Hendrix, e da due minuti era il mio compleanno.
[Per M.: non te lo posso promettere, che non lo rifarò].
- Buonasera, favorisca patente e libretto.
- Buonas... un momento, eh.
- Torna a casa?
- Sì, ehm.
- Passato una bella serata?
- Abbastanza, grazie.
- Viene dalla Strada del Vallone?
- Sì. No, sa, perché io ero terrorizzata dalla guida, e invece adesso questa strada tutte curve di notte mi piace tantissimo.
- Attenzione, però.
- Vado piano.
- Attenzione ai caprioli.
- Certo.
- Se un capriolo le attraversa la strada, non lo schivi.
- Eh?
- Non lo schivi, mai.
- Ma.
- Un mio amico è morto per schivare un riccio. Sul Vallone.
- Va bene.
- Tutto a posto, buonanotte.
- Buonanotte.
- E si ricordi: mai schivare un capriolo.
Questa notte.
Stava immobile sul ciglio della strada, poi ha attraversato, si è bloccato, ho sterzato, ha ripreso a correre, ho inchiodato. Ho sentito i suoi zoccoli che scalciavano contro il mio paraurti mentre prendeva lo slancio per correre via e scartare verso il bosco.
Ho schivato un cucciolo di capriolo.
Quel tratto di strada non era ghiacciato, non arrivavano auto in senso opposto, i freni funzionavano e lui era bellissimo. La radio trasmetteva "All along the watchtower", versione di Jimi Hendrix, e da due minuti era il mio compleanno.
[Per M.: non te lo posso promettere, che non lo rifarò].
giovedì, gennaio 08, 2009
I Mostri della Razza Tlaxcalteca...
... Adesso hanno il russkij blog, dove raccoglieranno le traduzioni in russo, daranno notizia di ciò che si traduce dal russo e riprenderanno notizie e comunicati.
Russi, russisti, amici, congiunti, conoscenti, inquilini, coinquilini, casigliani: fate girare. Passatemi anche qualche bell'indirizzo email russo (siti di informazione, agenzie di stampa) cui possa mandare un entusiasmante comunicato, ché le idee non sono mai troppe. Ci fanno comodo anche, come sempre, traduttori disposti a regalarci un po' del loro tempo.
Link: Тлакскала пo-русскиGrazie, con molti baci,
M.
Russi, russisti, amici, congiunti, conoscenti, inquilini, coinquilini, casigliani: fate girare. Passatemi anche qualche bell'indirizzo email russo (siti di informazione, agenzie di stampa) cui possa mandare un entusiasmante comunicato, ché le idee non sono mai troppe. Ci fanno comodo anche, come sempre, traduttori disposti a regalarci un po' del loro tempo.
Link: Тлакскала пo-русскиGrazie, con molti baci,
M.
mercoledì, gennaio 07, 2009
Di meglio
"Dalla città di Beit Hanoun, nella parte settentrionale di Gaza, si è alzata una torre di fumo dopo un altro bombardamento, lunedì mattina, e una mezza dozzina di israeliani, in cima a una collina polverosa, osservava la scena come un gruppo di strateghi militari da salotto. Avi Pilchick ha bevuto un lungo sorso di Pepsi e ha appoggiato un piede sulla sedia da giardino che si era portato dietro per guardare i combattimenti. 'Stanno andando bene', ha detto Pilchick, 20 anni, a proposito delle forze israeliane che combattevano contro i militanti palestinesi di Gaza, 'ma possono fare di meglio'".
Fonte.
"Com'è facile cancellare la storia dei palestinesi, distruggere il racconto della loro tragedia, scansare la grottesca ironia che – in qualunque altro conflitto – i giornalisti si sarebbero affrettati a sottolineare: il fatto che gli originari, legittimi proprietari della terra israeliana sulla quale esplodono i razzi di Hamas vivono a Gaza.
Ecco perché Gaza esiste: perché i palestinesi che vivevano ad Ashkelon nei campi circostanti – Askalaan in arabo – vennero privati delle loro terre nel 1948 quando fu creato Israele e finirono sulle spiagge di Gaza. Queste persone – o i loro nipoti e bisnipoti – fanno parte del milione e mezzo di profughi palestinesi stipati nella fogna di Gaza, l'80% delle cui famiglie un tempo viveva in quello che è ora Israele. Questa è storicamente la verità: la maggior parte degli abitanti di Gaza non viene da Gaza.
Ma a guardare i telegiornali si direbbe che la storia sia cominciata ieri, che un manipolo di pazzi antisemiti barbuti sia spuntato all'improvviso tra le baracche di Gaza – una feccia umana costituita da miserabili senza origini – e abbia cominciato a lanciare missili contro un Israele pacifico e democratico scatenando la sacrosanta reazione dell'aviazione israeliana. In questa storia non c'è posto per il fatto che i nonni delle cinque sorelline uccise nel campo di Jabalya venissero proprio dalla terra i cui attuali proprietari le hanno bombardate e uccise.
Sia Yitzhak Rabin che Shimon Peres dissero negli anni Novanta che avrebbero voluto che Gaza semplicemente scomparisse, sprofondasse nel mare, e il perché lo capite da soli. L'esistenza di Gaza è un promemoria permanente delle centinaia di migliaia di palestinesi che si sono visti portare via le loro case da Israele, che sono fuggiti o sono stati cacciati per paura o per la pulizia etnica israeliana 60 anni fa, quando l'Europa del secondo dopoguerra veniva travolta da ondate di rifugiati e quando il destino di un mucchio di arabi cacciati dalla loro terra non preoccupava il mondo".
Estratto da: Robert Fisk, Why bombing Ashkelon is the most tragic irony, 30 dicembre 2008, traduzione mia.
Fonte.
"Com'è facile cancellare la storia dei palestinesi, distruggere il racconto della loro tragedia, scansare la grottesca ironia che – in qualunque altro conflitto – i giornalisti si sarebbero affrettati a sottolineare: il fatto che gli originari, legittimi proprietari della terra israeliana sulla quale esplodono i razzi di Hamas vivono a Gaza.
Ecco perché Gaza esiste: perché i palestinesi che vivevano ad Ashkelon nei campi circostanti – Askalaan in arabo – vennero privati delle loro terre nel 1948 quando fu creato Israele e finirono sulle spiagge di Gaza. Queste persone – o i loro nipoti e bisnipoti – fanno parte del milione e mezzo di profughi palestinesi stipati nella fogna di Gaza, l'80% delle cui famiglie un tempo viveva in quello che è ora Israele. Questa è storicamente la verità: la maggior parte degli abitanti di Gaza non viene da Gaza.
Ma a guardare i telegiornali si direbbe che la storia sia cominciata ieri, che un manipolo di pazzi antisemiti barbuti sia spuntato all'improvviso tra le baracche di Gaza – una feccia umana costituita da miserabili senza origini – e abbia cominciato a lanciare missili contro un Israele pacifico e democratico scatenando la sacrosanta reazione dell'aviazione israeliana. In questa storia non c'è posto per il fatto che i nonni delle cinque sorelline uccise nel campo di Jabalya venissero proprio dalla terra i cui attuali proprietari le hanno bombardate e uccise.
Sia Yitzhak Rabin che Shimon Peres dissero negli anni Novanta che avrebbero voluto che Gaza semplicemente scomparisse, sprofondasse nel mare, e il perché lo capite da soli. L'esistenza di Gaza è un promemoria permanente delle centinaia di migliaia di palestinesi che si sono visti portare via le loro case da Israele, che sono fuggiti o sono stati cacciati per paura o per la pulizia etnica israeliana 60 anni fa, quando l'Europa del secondo dopoguerra veniva travolta da ondate di rifugiati e quando il destino di un mucchio di arabi cacciati dalla loro terra non preoccupava il mondo".
Estratto da: Robert Fisk, Why bombing Ashkelon is the most tragic irony, 30 dicembre 2008, traduzione mia.
sabato, gennaio 03, 2009
400 colpi fanno almeno cinque ergastoli
I 400 colpi di Truffaut secondo il Televideo de La 7 (Hat tip: Insostituibile Bracciodestro Andrea).
"Uscito di galera per tentato furto, Ray ora fa il pasticciere. Quando due compari gli propongono un colpo milionario, non dice di no e lo mette a segno. La zia, cui era affidato il figlio Timmy, gli rispedisce il ragazzino che Ray non vedeva da tempo. Il terribile piccolino, per ottenere le attenzioni paterne, lo ricatta nascondendo il bottino".
Per giustizia poetica potremmo inventare una trama nouvelle vague per il film Papà ti aggiusto io?
Grazie Andrea, son bei momenti.
"Uscito di galera per tentato furto, Ray ora fa il pasticciere. Quando due compari gli propongono un colpo milionario, non dice di no e lo mette a segno. La zia, cui era affidato il figlio Timmy, gli rispedisce il ragazzino che Ray non vedeva da tempo. Il terribile piccolino, per ottenere le attenzioni paterne, lo ricatta nascondendo il bottino".
Per giustizia poetica potremmo inventare una trama nouvelle vague per il film Papà ti aggiusto io?
Grazie Andrea, son bei momenti.
mercoledì, dicembre 31, 2008
Un mestiere pericoloso - il Discorso di Caracas di Roberto Bolaño
Il 2 agosto 1999 Roberto Bolaño ricevette a Caracas il Premio Rómulo Gallegos per il suo romanzo I detective selvaggi: quello che doveva essere un semplice discorso di accettazione si rivelò una riflessione divagante, ironica e dolorosa sulla vita, l'impegno, l'appartenenza, il mestiere delle armi e quello della scrittura, la giovinezza, il sogno, lo scrivere come lettera d'amore o come lettera d'addio a una generazione.
Di modi per farvi gli auguri ce ne sarebbero tanti; oggi questo per me è il migliore: buon anno, restate sempre giovani e nel 2009 leggete almeno un libro di Bolaño.
[Nella foto: stencil fotografato nei pressi del MACBA, Barcellona]
Discorso di Caracas
di Roberto Bolaño
Ho sempre avuto un problema con il Venezuela. Un problema infantile, frutto della mia educazione disorganizzata; un problema minimo; ma comunque un problema. Il centro del problema è di natura verbale e geografica. Probabilmente è dovuto anche a una sorta di dislessia mai diagnosticata. E con questo non voglio dire che mia madre non mi portasse mai dal dottore; anzi, fino all'età di dieci anni fui un assiduo frequentatore di studi medici e perfino ospedali, ma a quel punto mia madre decise che ero abbastanza forte per cavarmela.
Ma torniamo al problema. Da piccolo giocavo a calcio. Avevo la maglia numero 11, quella di Pepe e Zagalo ai Mondiali di Svezia, ed ero un giocatore entusiasta ma mediocre, anche se calciavo con il sinistro e pare che chi calcia con il sinistro non stoni durante la partita. Nel mio caso non era vero: stonavo quasi sempre, anche se talvolta, diciamo ogni sei mesi, mi capitava di giocare una buona partita e di recuperare almeno in parte l'enorme credito perduto. La sera, com'è naturale, prima di addormentarmi pensavo e ripensavo alle mie penose doti di calciatore. Fu allora che intuii consapevolmente per la prima volta la mia dislessia. Calciavo con il sinistro ma scrivevo con la destra. Era un dato di fatto. Mi sarebbe piaciuto scrivere con la sinistra, ma usavo la destra. Ed eccolo lì, il problema. Per esempio, quando l'allenatore diceva “Passala a destra, Bolaño”, non sapevo dove passarla. E a volte capitava perfino che quando giocavo sulla fascia sinistra e sentivo il mio allenatore sgolarsi, dovessi fermarmi a pensare: sinistra – destra. Destra era il campo di calcio, sinistra era calciare fuori, verso i pochi spettatori, bambini come me, o verso i miseri pascoli che circondavano i campi di calcio di Quilpue, o Cauquenes, o della provincia di Bío-Bío. Con il tempo, naturalmente, imparai ad avere un punto di riferimento ogni volta che mi chiedevano indicazioni o mi informavano su una via che stava a destra o a sinistra, e quel riferimento non era la mano con cui scrivevo ma il piede con cui calciavo il pallone.
Con il Venezuela, più o meno nello stesso periodo – cioè fino a ieri – avevo un problema simile. Il problema era la sua capitale. Per me la cosa più logica era che la capitale del Venezuela fosse Bogotá. E la capitale della Colombia, Caracas. Perché? Be', per una logica verbale, o la logica delle lettere. La v di Venezuela è simile, per non dire legata, alla b di Bogotá. E la c di Colombia è cugina prima della c di Caracas. Può sembrare irrilevante, e probabilmente lo è, ma per me costituì un problema di prima grandezza quando, in una certa occasione, in Messico, durante una conferenza sui poeti urbani della Colombia, mi misi a parlare della potenza dei poeti di Caracas, e la gente – gente cortese ed educata come voi – rimase zitta, in attesa che concludessi la digressione sui poeti di Caracas e cominciassi a parlare di quelli di Bogotá, ma quello che feci fu continuare a parlare di quelli di Caracas, della loro estetica della distruzione. Li paragonai perfino ai Futuristi italiani – con i dovuti distinguo, naturalmente – e ai primi Lettristi, il gruppo fondato da Isidore Isou e Maurice Lemaître, il gruppo dal quale sarebbe nato il germe del Situazionismo di Guy Debord, e a quel punto il pubblico cominciò a fare delle congetture. Dovettero pensare che i poeti di Bogotá fossero emigrati in massa a Caracas, o che i poeti di Caracas avessero svolto un ruolo decisivo nel nuovo gruppo di poeti di Bogotá, e quando conclusi il mio discorso, bruscamente come mi piaceva fare allora, il pubblico si alzò in piedi, applaudì timidamente e poi si precipitò a leggere il manifesto all'ingresso. E mentre me ne stavo andando, accompagnato dal poeta messicano Mario Santiago, che veniva sempre in giro con me e che sicuramente si era accorto del mio errore pur non dicendo niente, perché per Mario gli sbagli e gli errori e gli equivoci sono come le nuvole di Baudelaire che migrano nel cielo, cioè qualcosa da osservare ma mai correggere – mentre me ne stavo andando, insomma, ci siamo imbattuti in un vecchio poeta venezuelano (e quando dico “vecchio” ripenso a quel momento e mi rendo conto che il poeta venezuelano era probabilmente più giovane di me adesso), il quale ci disse con le lacrime agli occhi che doveva esserci stato un errore, che non aveva mai sentito nominare questi misteriosi poeti di Caracas.
A questo punto del discorso ho l'impressione che don Rómulo Gallegos debba rivoltarsi nella tomba. “Ma a chi hanno dato il mio premio?” starà pensando. Mi perdoni, don Rómulo. È solo che perfino doña Bárbara, con la b, suona come Venezuela e Bogotá, e anche Bolivar suona come Venezuela e doña Bárbara. Bolivar e Bárbara, che bella coppia sarebbero stati, anche se gli altri due romanzi di don Rómulo, Cantaclaro e Canaima, potrebbero tranquillamente essere romanzi colombiani, il che mi porta a pensare che forse lo sono, e che sotto la mia dislessia potrebbe esserci un metodo, un bastardo metodo semiotico o grafologico o metasintattico o fonemico o semplicemente poetico, e che la verità delle verità è che Caracas è la capitale della Colombia, proprio come Bogotá è la capitale del Venezuela, come Bolivar, che è venezuelano, muore in Colombia, che è anche Venezuela e Messico e Cile.
Non so se riuscite a capire quello che voglio dire.
Pobre Negro, per esempio, di don Rómulo, è un romanzo eminentemente peruviano. La Casa Verde, di Vargas Llosa, è un romanzo colombo-venezuelano. Terra Nostra, di Fuentes, è un romanzo argentino, anche se vi consiglio di non chiedermi su cosa io basi questa mia affermazione, perché la risposta sarebbe prolissa e noiosa. L'accademia patafisica insegna (e anche misteriosamente) la scienza delle soluzioni immaginarie, che come tutti sapete è quella che studia le leggi che regolano le eccezioni. E questo trauma nell'ordine delle lettere è, in un certo senso, un problema immaginario che richiede una soluzione immaginaria.
Ma torniamo a don Rómulo prima di arrivare a Jarry e notiamo alcuni strani segnali lungo il cammino. Ho appena vinto l'undicesimo Premio Rómulo Gallegos. Numero 11. Giocavo con la maglia numero 11. Questa a voi potrà sembrare una coincidenza, ma a me fa tremare i polsi. Il numero 11, che non sapeva distinguere la destra dalla sinistra e confondeva Caracas con Bogotá, ha appena vinto (e uso questa parentetica per ringraziare ancora la giuria, in particolare Ángeles Mastretta) l'undicesimo Premio Rómulo Gallegos. Cosa ne penserebbe don Rómulo? L'altro giorno, al telefono, Pere Gimferrer, che è un grande poeta e inoltre sa tutto e ha letto tutto, mi ha detto che a Barcellona ci sono due targhe commemorative collocate sulle case in cui don Rómulo aveva vissuto. Secondo Gimferrer (anche se non ci metterebbe la mano sul fuoco), il grande scrittore venezuelano cominciò a scrivere Canaima in una di quelle case.
La verità è che io prendo al 99,9% alla lettera quello che dice Gimferrer, e così, mentre Gimferrer parlava (una delle case con le targhe non era una casa ma una panchina, il che solleva una serie di dubbi; per esempio se don Rómulo durante il suo soggiorno a Barcellona – e dico “soggiorno” e non “esilio” perché un latino-americano non è mai in esilio in Spagna – avesse lavorato su una panchina o se la panchina fosse giunta in seguito a installarsi nella casa del romanziere)... Come dicevo, mentre il poeta catalano parlava, ho cominciato a pensare alle mie ormai lontane (ma non meno stancanti, soprattutto nel mio ricordo) passeggiate nel quartiere Eixample, e mi sono visto nuovamente lì, che me ne andavo a zonzo nel 1977, 1978, forse 1982, e all'improvviso ho visto una via nella luce del tramonto, vicino a Muntaner, e ho scorto un numero, il numero 11, e poi mi sono allontanato un po', ed ecco lì la targa. Questo è ciò che ho visto, con gli occhi della mente.
Ma è anche probabile che durante gli anni trascorsi a Barcellona sia davvero passato per quella via e abbia visto la targa, una targa che magari dice “Qui visse Rómulo Gallegos, romanziere e uomo politico, nato a Caracas nel 1884, morto nel 1969”, e poi altre cose, scritte in caratteri più piccoli, come i suoi libri, i riconoscimenti, e via dicendo. Ed è possibile che abbia pensato, senza fermarmi, a un altro famoso scrittore colombiano, anche se avrei potuto farlo solo senza fermarmi, insisto, perché allora conoscevo i libri di don Rómulo in quanto erano obbligatori a scuola in Cile o in Messico, non ricordo quale dei due paesi, e mi era piaciuto Doña Bárbara, anche se secondo Gimferrer Canaima è migliore, e naturalmente sapevo che don Rómulo era venezuelano e non colombiano. Il che significa ben poco, essere colombiani o venezuelani, e a questo punto torniamo, come respinti indietro da un fulmine, alla b di Bolivar, che non era dislessico e al quale non sarebbe dispiaciuta un'America Latina unita, una preferenza che condivido con il Liberatore, giacché per me è lo stesso se la gente dice che sono cileno, anche se alcuni colleghi cileni preferiscono considerarmi messicano o mi chiamano messicano, anche se alcuni colleghi messicani preferiscono chiamarmi spagnolo, o perfino disperso in battaglia. E di fatto per me è lo stesso essere considerato uno spagnolo, anche se alcuni colleghi spagnoli vanno su tutte le furie e cominciano a dichiarare che sono venezuelano, nato a Caracas o Bogotá, il che non mi dà molto fastidio, anzi, il contrario.
La verità è che sono cileno e sono anche molte altre cose. E giunti a questo punto devo abbandonare Jarry e Bolivar e cercare di ricordare lo scrittore che disse che la patria di uno scrittore è la sua lingua. Non ne ricordo il nome. Forse era uno scrittore che scriveva in spagnolo. Forse era uno scrittore che scriveva in inglese o in francese. La patria di uno scrittore, disse, è la sua lingua. Suona un po' demagogico, ma concordo pienamente con lui, e so che talvolta non abbiamo altra scelta che diventare un po' demagogici, proprio come a volte non abbiamo altra scelta che metterci a ballare un bolero sotto la luce dei lampioni o di una luna rossa. Sebbene sia anche vero che la patria di uno scrittore non è la sua lingua, o non solo la sua lingua, ma anche la gente che ama. E a volte la patria di uno scrittore non è la gente che ama ma i suoi ricordi. E altre volte la sola patria di uno scrittore è la sua lealtà, e il suo coraggio. In realtà molte possono essere le patrie di uno scrittore, e a volte l'identità di quella patria dipende molto da quello che sta scrivendo in quel momento. Le patrie possono essere tante, mi viene ora da pensare, ma il passaporto può essere uno solo, e quel passaporto è evidentemente la qualità della sua scrittura. Il che non significa scrivere bene, perché chiunque può farlo, ma scrivere meravigliosamente bene, e nemmeno quello, perché chiunque può scrivere anche meravigliosamente bene. Cos'è, allora, la scrittura di qualità? Be', quello che è sempre stata: saper infilare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Correre lungo il bordo del precipizio: da una parte l'abisso senza fondo e dall'altra i volti amati, i volti amati sorridenti, e i libri, e gli amici, e il cibo. E accettarlo, anche se talvolta può pesarci addosso più della lastra tombale che copre i resti di ogni scrittore morto. La letteratura, come potrebbe dire un canto popolare andaluso, è pericolosa.
E adesso che sono tornato al numero 11, che è il numero di quelli che corrono lungo le fasce, e adesso che ho citato il pericolo, ricordo la pagina del Quijote in cui si discutono i meriti delle armi e delle lettere, e suppongo che, alla fine, ciò di cui si discute sia la differenza nel livello di rischio, che è anche il livello di virtù, insito in ciascuna occupazione. E Cervantes, che era un soldato, fa che le armi vincano sulle lettere e il soldato vinca sull'onorevole occupazione del poeta. E se leggiamo bene queste pagine (cosa che adesso, mentre scrivo questo discorso, non sto facendo, anche se dal tavolo a cui sono seduto riesco a vedere le mie due edizioni del Quijote), ci sentiremo un forte aroma di malinconia, perché Cervantes fa vincere la sua gioventù, il fantasma della sua perduta gioventù, sulla realtà dell'esercizio della prosa e della poesia, che fino ad allora gli era stato tanto avverso. E questo mi torna alla mente perché in grande misura tutto quello che ho scritto è una lettera d'amore o una lettera d'addio alla mia generazione, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e che a un certo punto abbiamo scelto le armi (anche se in questo caso sarebbe più giusto parlare di “militanza”) e abbiamo dato il poco che avevamo, o la cosa più grande che avevano, che era la nostra giovinezza, a una causa che credevamo la più generosa del mondo e che in un certo senso lo era, ma in realtà no.
Inutile dire che abbiamo lottato con le unghie e con i denti, ma avevamo dei capi corrotti, leader codardi, un apparato di propaganda peggiore di un lebbrosario. Abbiamo lottato per partiti che, se avessero vinto, ci avrebbero immediatamente spedito in un campo di lavori forzati. Abbiamo combattuto e abbiamo riversato tutta la nostra generosità in un ideale morto da cinquant'anni, e alcuni di noi lo sapevano, come facevamo a non saperlo se avevamo letto Trotsky o eravamo trotskisti? Eppure l'abbiamo fatto, perché eravamo stupidi e generosi, come lo sono i giovani, dando tutto e non chiedendo niente in cambio. E adesso di quei giovani non resta niente, quelli che non sono morti in Bolivia sono morti in Argentina o in Perù, e quelli che sono sopravvissuti sono andati a morire in Cile o in Messico, e quelli che non sono morti lì sono stati uccisi in seguito in Nicaragua, in Colombia, a El Salvador. Tutta l'America Latina è disseminata delle ossa di quei giovani dimenticati. E questo è quello che spinge Cervantes a scegliere le armi a scapito della poesia. Anche i suoi compagni erano morti. O vecchi e abbandonati, nella miseria e nell'oblio. Scegliere era scegliere la gioventù, scegliere gli sconfitti e quelli che avevano perduto tutto. E questo fa Cervantes, sceglie la gioventù. E perfino in questa debolezza malinconica, in questo vuoto dell'anima, Cervantes è il più lucido, perché sa che gli scrittori non hanno bisogno di nessuno che esalti il loro lavoro. Siamo noi stessi a esaltarlo.
Spesso lo facciamo maledicendo l'ora in cui abbiamo deciso di diventare scrittori, ma generalmente tendiamo ad applaudire e a ballare quando siamo soli, perché questo è un mestiere solitario, e recitiamo le nostre pagine a noi stessi, ed è il nostro modo di lodarci, e non abbiamo bisogno che qualcuno ci dica cosa dobbiamo fare e tanto meno che il nostro lavoro venga dichiarato il più onorevole di tutti. Cervantes, che non era dislessico ma che il mestiere delle armi aveva menomato, sapeva perfettamente quello che diceva. La letteratura è un'occupazione pericolosa.
Il che ci conduce direttamente ad Alfred Jarry, che aveva una pistola e amava sparare, e al numero 11, l'estremo sinistro, che guarda con la coda dell'occhio mentre sfreccia come un proiettile accanto alla targa e alla casa dove era vissuto don Rómulo. E spero che a questo punto del discorso don Rómulo non sia più arrabbiato con me, che non appaia in sogno a Domingo Miliani chiedendogli perché mi abbiano assegnato il premio che porta il suo nome, un premio che per me è enormemente importante – sono il primo cileno a riceverlo –, un premio che raddoppia la sfida, se mai fosse possibile, come se la sfida per sua stessa natura non fosse già raddoppiata o triplicata. Un premio, dunque, parrebbe un atto gratuito, e ora che ci penso potrebbe essere così, un premio ha in effetti in sé qualcosa di gratuito. È un atto gratuito che non parla del mio romanzo o dei suoi meriti ma della generosità di una giuria. (Fino a ieri, non conoscevo nessuno dei suoi membri). Che sia chiaro, perché come i reduci di Lepanto di Cervantes e come i reduci delle guerre fiorite latino-americane, la mia unica ricchezza è la dignità. Lo leggo e non ci credo. Io che parlo di dignità. Forse lo spirito di don Rómulo non apparirà in sogno a Domingo Miliani, ma a me.
Ma queste parole sono ormai scritte, a Caracas (Venezuela), e una cosa è chiara: don Rómulo non può apparirmi in sogno per la semplice ragione che non riesco a dormire. Fuori cantano i grilli. Calcolo che a occhio e croce ce ne saranno dieci o ventimila. Forse la voce di don Rómulo è uno dei loro canti, confuso, gioiosamente confuso, nella notte venezuelana, nella notte americana, nella notte che appartiene a tutti noi, a quelli che dormono e a quelli che non riescono a dormire. Mi sento come Pinocchio.
Link
Di modi per farvi gli auguri ce ne sarebbero tanti; oggi questo per me è il migliore: buon anno, restate sempre giovani e nel 2009 leggete almeno un libro di Bolaño.
[Nella foto: stencil fotografato nei pressi del MACBA, Barcellona]
Discorso di Caracas
di Roberto Bolaño
Ho sempre avuto un problema con il Venezuela. Un problema infantile, frutto della mia educazione disorganizzata; un problema minimo; ma comunque un problema. Il centro del problema è di natura verbale e geografica. Probabilmente è dovuto anche a una sorta di dislessia mai diagnosticata. E con questo non voglio dire che mia madre non mi portasse mai dal dottore; anzi, fino all'età di dieci anni fui un assiduo frequentatore di studi medici e perfino ospedali, ma a quel punto mia madre decise che ero abbastanza forte per cavarmela.
Ma torniamo al problema. Da piccolo giocavo a calcio. Avevo la maglia numero 11, quella di Pepe e Zagalo ai Mondiali di Svezia, ed ero un giocatore entusiasta ma mediocre, anche se calciavo con il sinistro e pare che chi calcia con il sinistro non stoni durante la partita. Nel mio caso non era vero: stonavo quasi sempre, anche se talvolta, diciamo ogni sei mesi, mi capitava di giocare una buona partita e di recuperare almeno in parte l'enorme credito perduto. La sera, com'è naturale, prima di addormentarmi pensavo e ripensavo alle mie penose doti di calciatore. Fu allora che intuii consapevolmente per la prima volta la mia dislessia. Calciavo con il sinistro ma scrivevo con la destra. Era un dato di fatto. Mi sarebbe piaciuto scrivere con la sinistra, ma usavo la destra. Ed eccolo lì, il problema. Per esempio, quando l'allenatore diceva “Passala a destra, Bolaño”, non sapevo dove passarla. E a volte capitava perfino che quando giocavo sulla fascia sinistra e sentivo il mio allenatore sgolarsi, dovessi fermarmi a pensare: sinistra – destra. Destra era il campo di calcio, sinistra era calciare fuori, verso i pochi spettatori, bambini come me, o verso i miseri pascoli che circondavano i campi di calcio di Quilpue, o Cauquenes, o della provincia di Bío-Bío. Con il tempo, naturalmente, imparai ad avere un punto di riferimento ogni volta che mi chiedevano indicazioni o mi informavano su una via che stava a destra o a sinistra, e quel riferimento non era la mano con cui scrivevo ma il piede con cui calciavo il pallone.
Con il Venezuela, più o meno nello stesso periodo – cioè fino a ieri – avevo un problema simile. Il problema era la sua capitale. Per me la cosa più logica era che la capitale del Venezuela fosse Bogotá. E la capitale della Colombia, Caracas. Perché? Be', per una logica verbale, o la logica delle lettere. La v di Venezuela è simile, per non dire legata, alla b di Bogotá. E la c di Colombia è cugina prima della c di Caracas. Può sembrare irrilevante, e probabilmente lo è, ma per me costituì un problema di prima grandezza quando, in una certa occasione, in Messico, durante una conferenza sui poeti urbani della Colombia, mi misi a parlare della potenza dei poeti di Caracas, e la gente – gente cortese ed educata come voi – rimase zitta, in attesa che concludessi la digressione sui poeti di Caracas e cominciassi a parlare di quelli di Bogotá, ma quello che feci fu continuare a parlare di quelli di Caracas, della loro estetica della distruzione. Li paragonai perfino ai Futuristi italiani – con i dovuti distinguo, naturalmente – e ai primi Lettristi, il gruppo fondato da Isidore Isou e Maurice Lemaître, il gruppo dal quale sarebbe nato il germe del Situazionismo di Guy Debord, e a quel punto il pubblico cominciò a fare delle congetture. Dovettero pensare che i poeti di Bogotá fossero emigrati in massa a Caracas, o che i poeti di Caracas avessero svolto un ruolo decisivo nel nuovo gruppo di poeti di Bogotá, e quando conclusi il mio discorso, bruscamente come mi piaceva fare allora, il pubblico si alzò in piedi, applaudì timidamente e poi si precipitò a leggere il manifesto all'ingresso. E mentre me ne stavo andando, accompagnato dal poeta messicano Mario Santiago, che veniva sempre in giro con me e che sicuramente si era accorto del mio errore pur non dicendo niente, perché per Mario gli sbagli e gli errori e gli equivoci sono come le nuvole di Baudelaire che migrano nel cielo, cioè qualcosa da osservare ma mai correggere – mentre me ne stavo andando, insomma, ci siamo imbattuti in un vecchio poeta venezuelano (e quando dico “vecchio” ripenso a quel momento e mi rendo conto che il poeta venezuelano era probabilmente più giovane di me adesso), il quale ci disse con le lacrime agli occhi che doveva esserci stato un errore, che non aveva mai sentito nominare questi misteriosi poeti di Caracas.
A questo punto del discorso ho l'impressione che don Rómulo Gallegos debba rivoltarsi nella tomba. “Ma a chi hanno dato il mio premio?” starà pensando. Mi perdoni, don Rómulo. È solo che perfino doña Bárbara, con la b, suona come Venezuela e Bogotá, e anche Bolivar suona come Venezuela e doña Bárbara. Bolivar e Bárbara, che bella coppia sarebbero stati, anche se gli altri due romanzi di don Rómulo, Cantaclaro e Canaima, potrebbero tranquillamente essere romanzi colombiani, il che mi porta a pensare che forse lo sono, e che sotto la mia dislessia potrebbe esserci un metodo, un bastardo metodo semiotico o grafologico o metasintattico o fonemico o semplicemente poetico, e che la verità delle verità è che Caracas è la capitale della Colombia, proprio come Bogotá è la capitale del Venezuela, come Bolivar, che è venezuelano, muore in Colombia, che è anche Venezuela e Messico e Cile.
Non so se riuscite a capire quello che voglio dire.
Pobre Negro, per esempio, di don Rómulo, è un romanzo eminentemente peruviano. La Casa Verde, di Vargas Llosa, è un romanzo colombo-venezuelano. Terra Nostra, di Fuentes, è un romanzo argentino, anche se vi consiglio di non chiedermi su cosa io basi questa mia affermazione, perché la risposta sarebbe prolissa e noiosa. L'accademia patafisica insegna (e anche misteriosamente) la scienza delle soluzioni immaginarie, che come tutti sapete è quella che studia le leggi che regolano le eccezioni. E questo trauma nell'ordine delle lettere è, in un certo senso, un problema immaginario che richiede una soluzione immaginaria.
Ma torniamo a don Rómulo prima di arrivare a Jarry e notiamo alcuni strani segnali lungo il cammino. Ho appena vinto l'undicesimo Premio Rómulo Gallegos. Numero 11. Giocavo con la maglia numero 11. Questa a voi potrà sembrare una coincidenza, ma a me fa tremare i polsi. Il numero 11, che non sapeva distinguere la destra dalla sinistra e confondeva Caracas con Bogotá, ha appena vinto (e uso questa parentetica per ringraziare ancora la giuria, in particolare Ángeles Mastretta) l'undicesimo Premio Rómulo Gallegos. Cosa ne penserebbe don Rómulo? L'altro giorno, al telefono, Pere Gimferrer, che è un grande poeta e inoltre sa tutto e ha letto tutto, mi ha detto che a Barcellona ci sono due targhe commemorative collocate sulle case in cui don Rómulo aveva vissuto. Secondo Gimferrer (anche se non ci metterebbe la mano sul fuoco), il grande scrittore venezuelano cominciò a scrivere Canaima in una di quelle case.
La verità è che io prendo al 99,9% alla lettera quello che dice Gimferrer, e così, mentre Gimferrer parlava (una delle case con le targhe non era una casa ma una panchina, il che solleva una serie di dubbi; per esempio se don Rómulo durante il suo soggiorno a Barcellona – e dico “soggiorno” e non “esilio” perché un latino-americano non è mai in esilio in Spagna – avesse lavorato su una panchina o se la panchina fosse giunta in seguito a installarsi nella casa del romanziere)... Come dicevo, mentre il poeta catalano parlava, ho cominciato a pensare alle mie ormai lontane (ma non meno stancanti, soprattutto nel mio ricordo) passeggiate nel quartiere Eixample, e mi sono visto nuovamente lì, che me ne andavo a zonzo nel 1977, 1978, forse 1982, e all'improvviso ho visto una via nella luce del tramonto, vicino a Muntaner, e ho scorto un numero, il numero 11, e poi mi sono allontanato un po', ed ecco lì la targa. Questo è ciò che ho visto, con gli occhi della mente.
Ma è anche probabile che durante gli anni trascorsi a Barcellona sia davvero passato per quella via e abbia visto la targa, una targa che magari dice “Qui visse Rómulo Gallegos, romanziere e uomo politico, nato a Caracas nel 1884, morto nel 1969”, e poi altre cose, scritte in caratteri più piccoli, come i suoi libri, i riconoscimenti, e via dicendo. Ed è possibile che abbia pensato, senza fermarmi, a un altro famoso scrittore colombiano, anche se avrei potuto farlo solo senza fermarmi, insisto, perché allora conoscevo i libri di don Rómulo in quanto erano obbligatori a scuola in Cile o in Messico, non ricordo quale dei due paesi, e mi era piaciuto Doña Bárbara, anche se secondo Gimferrer Canaima è migliore, e naturalmente sapevo che don Rómulo era venezuelano e non colombiano. Il che significa ben poco, essere colombiani o venezuelani, e a questo punto torniamo, come respinti indietro da un fulmine, alla b di Bolivar, che non era dislessico e al quale non sarebbe dispiaciuta un'America Latina unita, una preferenza che condivido con il Liberatore, giacché per me è lo stesso se la gente dice che sono cileno, anche se alcuni colleghi cileni preferiscono considerarmi messicano o mi chiamano messicano, anche se alcuni colleghi messicani preferiscono chiamarmi spagnolo, o perfino disperso in battaglia. E di fatto per me è lo stesso essere considerato uno spagnolo, anche se alcuni colleghi spagnoli vanno su tutte le furie e cominciano a dichiarare che sono venezuelano, nato a Caracas o Bogotá, il che non mi dà molto fastidio, anzi, il contrario.
La verità è che sono cileno e sono anche molte altre cose. E giunti a questo punto devo abbandonare Jarry e Bolivar e cercare di ricordare lo scrittore che disse che la patria di uno scrittore è la sua lingua. Non ne ricordo il nome. Forse era uno scrittore che scriveva in spagnolo. Forse era uno scrittore che scriveva in inglese o in francese. La patria di uno scrittore, disse, è la sua lingua. Suona un po' demagogico, ma concordo pienamente con lui, e so che talvolta non abbiamo altra scelta che diventare un po' demagogici, proprio come a volte non abbiamo altra scelta che metterci a ballare un bolero sotto la luce dei lampioni o di una luna rossa. Sebbene sia anche vero che la patria di uno scrittore non è la sua lingua, o non solo la sua lingua, ma anche la gente che ama. E a volte la patria di uno scrittore non è la gente che ama ma i suoi ricordi. E altre volte la sola patria di uno scrittore è la sua lealtà, e il suo coraggio. In realtà molte possono essere le patrie di uno scrittore, e a volte l'identità di quella patria dipende molto da quello che sta scrivendo in quel momento. Le patrie possono essere tante, mi viene ora da pensare, ma il passaporto può essere uno solo, e quel passaporto è evidentemente la qualità della sua scrittura. Il che non significa scrivere bene, perché chiunque può farlo, ma scrivere meravigliosamente bene, e nemmeno quello, perché chiunque può scrivere anche meravigliosamente bene. Cos'è, allora, la scrittura di qualità? Be', quello che è sempre stata: saper infilare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Correre lungo il bordo del precipizio: da una parte l'abisso senza fondo e dall'altra i volti amati, i volti amati sorridenti, e i libri, e gli amici, e il cibo. E accettarlo, anche se talvolta può pesarci addosso più della lastra tombale che copre i resti di ogni scrittore morto. La letteratura, come potrebbe dire un canto popolare andaluso, è pericolosa.
E adesso che sono tornato al numero 11, che è il numero di quelli che corrono lungo le fasce, e adesso che ho citato il pericolo, ricordo la pagina del Quijote in cui si discutono i meriti delle armi e delle lettere, e suppongo che, alla fine, ciò di cui si discute sia la differenza nel livello di rischio, che è anche il livello di virtù, insito in ciascuna occupazione. E Cervantes, che era un soldato, fa che le armi vincano sulle lettere e il soldato vinca sull'onorevole occupazione del poeta. E se leggiamo bene queste pagine (cosa che adesso, mentre scrivo questo discorso, non sto facendo, anche se dal tavolo a cui sono seduto riesco a vedere le mie due edizioni del Quijote), ci sentiremo un forte aroma di malinconia, perché Cervantes fa vincere la sua gioventù, il fantasma della sua perduta gioventù, sulla realtà dell'esercizio della prosa e della poesia, che fino ad allora gli era stato tanto avverso. E questo mi torna alla mente perché in grande misura tutto quello che ho scritto è una lettera d'amore o una lettera d'addio alla mia generazione, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e che a un certo punto abbiamo scelto le armi (anche se in questo caso sarebbe più giusto parlare di “militanza”) e abbiamo dato il poco che avevamo, o la cosa più grande che avevano, che era la nostra giovinezza, a una causa che credevamo la più generosa del mondo e che in un certo senso lo era, ma in realtà no.
Inutile dire che abbiamo lottato con le unghie e con i denti, ma avevamo dei capi corrotti, leader codardi, un apparato di propaganda peggiore di un lebbrosario. Abbiamo lottato per partiti che, se avessero vinto, ci avrebbero immediatamente spedito in un campo di lavori forzati. Abbiamo combattuto e abbiamo riversato tutta la nostra generosità in un ideale morto da cinquant'anni, e alcuni di noi lo sapevano, come facevamo a non saperlo se avevamo letto Trotsky o eravamo trotskisti? Eppure l'abbiamo fatto, perché eravamo stupidi e generosi, come lo sono i giovani, dando tutto e non chiedendo niente in cambio. E adesso di quei giovani non resta niente, quelli che non sono morti in Bolivia sono morti in Argentina o in Perù, e quelli che sono sopravvissuti sono andati a morire in Cile o in Messico, e quelli che non sono morti lì sono stati uccisi in seguito in Nicaragua, in Colombia, a El Salvador. Tutta l'America Latina è disseminata delle ossa di quei giovani dimenticati. E questo è quello che spinge Cervantes a scegliere le armi a scapito della poesia. Anche i suoi compagni erano morti. O vecchi e abbandonati, nella miseria e nell'oblio. Scegliere era scegliere la gioventù, scegliere gli sconfitti e quelli che avevano perduto tutto. E questo fa Cervantes, sceglie la gioventù. E perfino in questa debolezza malinconica, in questo vuoto dell'anima, Cervantes è il più lucido, perché sa che gli scrittori non hanno bisogno di nessuno che esalti il loro lavoro. Siamo noi stessi a esaltarlo.
Spesso lo facciamo maledicendo l'ora in cui abbiamo deciso di diventare scrittori, ma generalmente tendiamo ad applaudire e a ballare quando siamo soli, perché questo è un mestiere solitario, e recitiamo le nostre pagine a noi stessi, ed è il nostro modo di lodarci, e non abbiamo bisogno che qualcuno ci dica cosa dobbiamo fare e tanto meno che il nostro lavoro venga dichiarato il più onorevole di tutti. Cervantes, che non era dislessico ma che il mestiere delle armi aveva menomato, sapeva perfettamente quello che diceva. La letteratura è un'occupazione pericolosa.
Il che ci conduce direttamente ad Alfred Jarry, che aveva una pistola e amava sparare, e al numero 11, l'estremo sinistro, che guarda con la coda dell'occhio mentre sfreccia come un proiettile accanto alla targa e alla casa dove era vissuto don Rómulo. E spero che a questo punto del discorso don Rómulo non sia più arrabbiato con me, che non appaia in sogno a Domingo Miliani chiedendogli perché mi abbiano assegnato il premio che porta il suo nome, un premio che per me è enormemente importante – sono il primo cileno a riceverlo –, un premio che raddoppia la sfida, se mai fosse possibile, come se la sfida per sua stessa natura non fosse già raddoppiata o triplicata. Un premio, dunque, parrebbe un atto gratuito, e ora che ci penso potrebbe essere così, un premio ha in effetti in sé qualcosa di gratuito. È un atto gratuito che non parla del mio romanzo o dei suoi meriti ma della generosità di una giuria. (Fino a ieri, non conoscevo nessuno dei suoi membri). Che sia chiaro, perché come i reduci di Lepanto di Cervantes e come i reduci delle guerre fiorite latino-americane, la mia unica ricchezza è la dignità. Lo leggo e non ci credo. Io che parlo di dignità. Forse lo spirito di don Rómulo non apparirà in sogno a Domingo Miliani, ma a me.
Ma queste parole sono ormai scritte, a Caracas (Venezuela), e una cosa è chiara: don Rómulo non può apparirmi in sogno per la semplice ragione che non riesco a dormire. Fuori cantano i grilli. Calcolo che a occhio e croce ce ne saranno dieci o ventimila. Forse la voce di don Rómulo è uno dei loro canti, confuso, gioiosamente confuso, nella notte venezuelana, nella notte americana, nella notte che appartiene a tutti noi, a quelli che dormono e a quelli che non riescono a dormire. Mi sento come Pinocchio.
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lunedì, dicembre 29, 2008
Gaza: la storia non raccontata
Gaza: la storia non raccontata
di Ramzy Baroud
19 dicembre 2008
È incomprensibile che una regione come la Striscia di Gaza, così ricca di storia, così satura di dignità, possa essere ridotta a pochi soffietti editoriali, frasi scarne e affermazioni riduzioniste, comode ma ingannevoli, prive di ogni significato rilevante o perfino di un autentico valore analitico.
Il fatto è che la Striscia di Gaza è ben più del milione e mezzo di palestinesi affamati che starebbero scontando la militanza di Hamas o la “punizione collettiva” di Israele, a seconda di come i mezzi di informazione decidono di etichettare il problema.
Ma soprattutto l'esistenza di Gaza da tempo immemore non dev'essere giustapposta alla sua vicinanza a Israele, al fallimento o il successo nel “garantire” a una minuscola città israeliana – costruita su terra sottratta a quella che solo 60 anni fa era considerata parte della Provincia di Gaza – la sicurezza che le è necessaria. È proprio questa aspettativa che ha reso l'uccisione e il ferimento di migliaia di palestinesi a Gaza un prezzo che valeva la pena di pagare, dal cinico punto di vista di molti.
Queste aspettative irrealistiche e l'indifferenza per una storia importante continueranno a costare care e serviranno solo agli scopi di coloro che sono interessati alle rapide generalizzazioni. Sì, Gaza può anche essere economicamente morta, ma le sue lotte e tribolazioni attuali sono coerenti con un patrimonio di conquiste, colonialismo e occupazioni straniere, e anche con il trionfo collettivo del suo popolo nella sua capacità di elevarsi al di sopra della tirannia degli invasori.
In tempi relativamente recenti Gaza è diventata una storia ricorrente con l'afflusso dei profughi del 1948, cacciati dalle loro case dalle milizie sioniste o fuggiti per il bene delle loro famiglie con la speranza di poter tornare quando la Palestina fosse stata ristabilita. Queste persone si stabilirono a Gaza vivendo in assoluta povertà, una situazione che continua, più o meno, fino a oggi.
La storia di Gaza e Gaza stessa erano ampiamente irrilevanti, se non addirittura rivoltanti. Dal punto di vista dei rifugiati che si riversavano nella Striscia dal sud della Palestina esse rappresentavano la somma della loro perdita, umiliazione e, a volte, disperazione. Importava poco ai contadini profughi, mentre fuggivano a Gaza, il fatto che stessero probabilmente camminando sulla stessa antica strada che correva lungo la costa palestinese quando Gaza era l'ultima metropoli per i viaggiatori diretti in Egitto che stavano per imbarcarsi in una spietata traversata del deserto attraverso il Sinai.
Allora non importava che Gaza fosse la città, come sta scritto nel Libro dei Giudici, dove Sansone aveva compiuto le sue famose gesta ed era morto. Il Cristianesimo importava ai profughi solo nella misura in cui le antiche chiese di Gaza offrivano riparo alle stanche membra in fuga da cecchini, proiettili e massacri. Perfino la credenza, forte tra i musulmani, che il bisnonno del Profeta Maometto, Hashem, fosse morto durante uno dei suoi viaggi dalla Mecca al Levante e fosse stato sepolto a Gaza, aveva soprattutto una valenza sentimentale. La sua tomba nella città di Gaza veniva visitata da molti profughi, che si inginocchiavano e pregavano Dio perché un giorno permettesse loro di tornare alla loro umile esistenza e alla vita dalla quale erano stati separati con la forza.
Ma la storia di Gaza assunse maggiore rilevanza per i rifugiati quando si resero conto che la loro permanenza temporanea nella Striscia si sarebbe probabilmente prolungata. Solo allora le tante storie di conquiste, tragedie, trionfi ma anche pura bontà divennero essenziali. Un pellegrino in Terra Santa, che passò per Gaza nel 570 d.C., scrisse in latino: “Gaza è una città splendida, piena di cose piacevoli; i suoi uomini sono i più onesti, si distinguono per la loro generosità e per il calore che dimostrano ad amici e visitatori”.
La storia di Gaza divenne ancora più importante quando i rifugiati si accorsero che i loro scontri con Israele non erano ancora finiti, e che avevano bisogno di una grande tenacia morale per sopravvivere a ciò che sarebbe stato visto come una delle più gravi catastrofi umanitarie di recente memoria. E di fatto c'era un grande passato storico di cui meravigliarsi e dal quale trarre forza e conferma.
I conquistatori sono arrivati e ripartiti, Gaza è rimasta dov'è. Questa è stata la lezione ricorrente per intere generazioni, perfino millenni. Gli antichi egizi vennero e se ne andarono, come pure gli hyksôs, gli assiri, i persiani, i greci, i romani, gli ottomani, i britannici e ora gli israeliani. E in tutto questo Gaza è rimasta forte e fiera. Né la sanguinosa conquista di Alessandro Magno nel 332 a.C. né il feroce attacco di Alessandro Ianneo nel 96 a.C. hanno spezzato lo spirito di Gaza o tolto qualcosa alla sua grandezza eterna. È sempre rinata per poi raggiungere un grado di civiltà inaudito, come fece nel V secolo d.C. Fu a Gaza che nel 1170 i crociati cedettero il controllo strategico della città a Saladino per aprire un'altra epoca di prosperità e crescita, occasionalmente interrotta da conquistatori e stranieri con ambizioni coloniali, ma senza successo. Le rovine dimenticate delle civiltà passate non facevano che ricordare che i nemici di Gaza non avrebbero mai prevalso, e che tutt'al più avrebbero registrato la loro presenza con un altro edificio di roccia e cemento presto dimenticato.
Adesso Gaza sta attraversando un'altra fase di difficoltà e di sfide. I suoi moderni conquistatori sono spietati quanto quelli antichi. È vero, Gaza soffre ma resta in piedi, la sua gente è piena di risorse e resistente come è sempre stata, battagliera come è sempre stata, e decisa a sopravvivere a tutti i costi, perché questo è quello che gli abitanti di Gaza sanno fare meglio. E io lo so bene, è la mia terra natale.
Originale: Gaza: The Untold Story
Originale pubblicato il 19 dicembre 2008
Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.
URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=6689&lg=it
[Traduzioni, sintesi e analisi saranno postate dall'altra parte su 2.0, come sempre e senza interruzioni festizie; qui vedremo, contro il piombo fuso al momento la leggerezza funziona poco. Vi abbraccio].
di Ramzy Baroud
19 dicembre 2008
È incomprensibile che una regione come la Striscia di Gaza, così ricca di storia, così satura di dignità, possa essere ridotta a pochi soffietti editoriali, frasi scarne e affermazioni riduzioniste, comode ma ingannevoli, prive di ogni significato rilevante o perfino di un autentico valore analitico.
Il fatto è che la Striscia di Gaza è ben più del milione e mezzo di palestinesi affamati che starebbero scontando la militanza di Hamas o la “punizione collettiva” di Israele, a seconda di come i mezzi di informazione decidono di etichettare il problema.
Ma soprattutto l'esistenza di Gaza da tempo immemore non dev'essere giustapposta alla sua vicinanza a Israele, al fallimento o il successo nel “garantire” a una minuscola città israeliana – costruita su terra sottratta a quella che solo 60 anni fa era considerata parte della Provincia di Gaza – la sicurezza che le è necessaria. È proprio questa aspettativa che ha reso l'uccisione e il ferimento di migliaia di palestinesi a Gaza un prezzo che valeva la pena di pagare, dal cinico punto di vista di molti.
Queste aspettative irrealistiche e l'indifferenza per una storia importante continueranno a costare care e serviranno solo agli scopi di coloro che sono interessati alle rapide generalizzazioni. Sì, Gaza può anche essere economicamente morta, ma le sue lotte e tribolazioni attuali sono coerenti con un patrimonio di conquiste, colonialismo e occupazioni straniere, e anche con il trionfo collettivo del suo popolo nella sua capacità di elevarsi al di sopra della tirannia degli invasori.
In tempi relativamente recenti Gaza è diventata una storia ricorrente con l'afflusso dei profughi del 1948, cacciati dalle loro case dalle milizie sioniste o fuggiti per il bene delle loro famiglie con la speranza di poter tornare quando la Palestina fosse stata ristabilita. Queste persone si stabilirono a Gaza vivendo in assoluta povertà, una situazione che continua, più o meno, fino a oggi.
La storia di Gaza e Gaza stessa erano ampiamente irrilevanti, se non addirittura rivoltanti. Dal punto di vista dei rifugiati che si riversavano nella Striscia dal sud della Palestina esse rappresentavano la somma della loro perdita, umiliazione e, a volte, disperazione. Importava poco ai contadini profughi, mentre fuggivano a Gaza, il fatto che stessero probabilmente camminando sulla stessa antica strada che correva lungo la costa palestinese quando Gaza era l'ultima metropoli per i viaggiatori diretti in Egitto che stavano per imbarcarsi in una spietata traversata del deserto attraverso il Sinai.
Allora non importava che Gaza fosse la città, come sta scritto nel Libro dei Giudici, dove Sansone aveva compiuto le sue famose gesta ed era morto. Il Cristianesimo importava ai profughi solo nella misura in cui le antiche chiese di Gaza offrivano riparo alle stanche membra in fuga da cecchini, proiettili e massacri. Perfino la credenza, forte tra i musulmani, che il bisnonno del Profeta Maometto, Hashem, fosse morto durante uno dei suoi viaggi dalla Mecca al Levante e fosse stato sepolto a Gaza, aveva soprattutto una valenza sentimentale. La sua tomba nella città di Gaza veniva visitata da molti profughi, che si inginocchiavano e pregavano Dio perché un giorno permettesse loro di tornare alla loro umile esistenza e alla vita dalla quale erano stati separati con la forza.
Ma la storia di Gaza assunse maggiore rilevanza per i rifugiati quando si resero conto che la loro permanenza temporanea nella Striscia si sarebbe probabilmente prolungata. Solo allora le tante storie di conquiste, tragedie, trionfi ma anche pura bontà divennero essenziali. Un pellegrino in Terra Santa, che passò per Gaza nel 570 d.C., scrisse in latino: “Gaza è una città splendida, piena di cose piacevoli; i suoi uomini sono i più onesti, si distinguono per la loro generosità e per il calore che dimostrano ad amici e visitatori”.
La storia di Gaza divenne ancora più importante quando i rifugiati si accorsero che i loro scontri con Israele non erano ancora finiti, e che avevano bisogno di una grande tenacia morale per sopravvivere a ciò che sarebbe stato visto come una delle più gravi catastrofi umanitarie di recente memoria. E di fatto c'era un grande passato storico di cui meravigliarsi e dal quale trarre forza e conferma.
I conquistatori sono arrivati e ripartiti, Gaza è rimasta dov'è. Questa è stata la lezione ricorrente per intere generazioni, perfino millenni. Gli antichi egizi vennero e se ne andarono, come pure gli hyksôs, gli assiri, i persiani, i greci, i romani, gli ottomani, i britannici e ora gli israeliani. E in tutto questo Gaza è rimasta forte e fiera. Né la sanguinosa conquista di Alessandro Magno nel 332 a.C. né il feroce attacco di Alessandro Ianneo nel 96 a.C. hanno spezzato lo spirito di Gaza o tolto qualcosa alla sua grandezza eterna. È sempre rinata per poi raggiungere un grado di civiltà inaudito, come fece nel V secolo d.C. Fu a Gaza che nel 1170 i crociati cedettero il controllo strategico della città a Saladino per aprire un'altra epoca di prosperità e crescita, occasionalmente interrotta da conquistatori e stranieri con ambizioni coloniali, ma senza successo. Le rovine dimenticate delle civiltà passate non facevano che ricordare che i nemici di Gaza non avrebbero mai prevalso, e che tutt'al più avrebbero registrato la loro presenza con un altro edificio di roccia e cemento presto dimenticato.
Adesso Gaza sta attraversando un'altra fase di difficoltà e di sfide. I suoi moderni conquistatori sono spietati quanto quelli antichi. È vero, Gaza soffre ma resta in piedi, la sua gente è piena di risorse e resistente come è sempre stata, battagliera come è sempre stata, e decisa a sopravvivere a tutti i costi, perché questo è quello che gli abitanti di Gaza sanno fare meglio. E io lo so bene, è la mia terra natale.
Originale: Gaza: The Untold Story
Originale pubblicato il 19 dicembre 2008
Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.
URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=6689&lg=it
[Traduzioni, sintesi e analisi saranno postate dall'altra parte su 2.0, come sempre e senza interruzioni festizie; qui vedremo, contro il piombo fuso al momento la leggerezza funziona poco. Vi abbraccio].
venerdì, dicembre 26, 2008
Happy War, Xmas is Over
Natale 2008. Fun facts.
1. Ho scoperto che se dimentico a casa un'intera borsa di regali non se ne accorge nessuno. L'inconveniente è facilmente risolvibile girellando per il soggiorno con fare indifferente, preferibilmente a ritmo di samba, e agguantando tutto ciò che capita sottomano (cornici in lega di titanio, set di candele galleggianti al profumo di mangobanana, Babbi Natale porcellanati sculettanti al ritmo di jingle bells rock, crocifissi arte povera, paffuti Gesù Bambini iperrealisti) e poi miagolare con il migliore sguardo da bionda "ce l'hai un po' di carta da regalo che non ho fatto in tempo... ?"
2. Ho sempre considerato una cattiveria gratuita mettere il crocifisso nel raggio visivo del Gesù Bambino pisolante nel presepe. Al di là di tutto. No?
3. Sono usciti dal paniere:
a. Le catene di sant'Antonio di sms: virali, moleste, seriali, stucchevoli. Ne sono arrivate solo due, un vago e confuso augurio di vedere il Natale con gli occhi di un bambino (immaginarsi due occhi di bambino su una faccia normale, Maria Vergine che impressione) e una roba lunga come i dieci comandamenti che ho ritrovato pari pari nella pubblicità a tutta pagina della Despar sul giornale. Sì, ciao, eh.
b. Le sculture di pasta al sale! Ve le ricordate?, un momento fa esistevano, e poi puf, sparite nell'iperuranio. Penso che dipenda da un tempo di dimezzamento brevissimo e dall'umidità: a un certo punto si sono sgretolate simultaneamente, in una catastrofe di ghirlande crollate, petali impazziti, frutti sfatti, steli afflosciati. Ma mai troppo presto: ciao.
c. I termometri galileiani. E ho detto tutto.
4. Voglio trascinare davanti al Tribunale dell'Aia quello che una mattina si è svegliato e ha reso obbligatorio con un ukaz il salmone in tutte le pietanze natalizie. Da noialtri il salmone è ovunque: sulle tartine, nella pasta, dentro i secondi, nei bignè, nascosto nel cestino del pane, nel panettone al posto dei canditi.
Secondo me ci ha messo lo zampino uno scandinavo stronzo. Oppure è colpa del self-service dell'Ikea che ha incoraggiato nell'insicura mentalità italiana l'equazione salmone=welfare nordico. Comunque non è naturale, io sono per l'introduzione del cefalo sulle tavole del nord-est.
5. Grande passo avanti: ho ricevuto in regalo un copridivano. Fatto bizzarro, ha lo stesso colore del portadocumenti in lana cotta dello scorso anno. Quale colore? Salmone. Dio. Frase accompagnatoria: "Puoi usarlo anche come copriletto". Ma che culo.
6. La star della Vigilia è la saliera a forma di sfera di vetro con la neve dentro. Cioè, teoricamente tu la rovesci ed esce il sale. Solo che fa impressione, hai sempre paura che invece del sale da quel sinistro buchino si riverseranno sulle linguine, nell'ordine: un liquido semidenso non identificato e vagamente galileiano; della neve sintetica; casette di foggia varia; un'orda di personaggini brulicanti e leggermente deformi alla Bruegel il vecchio, pattinatori, vecchie con cesti di mele marce, cani, cacciatori, capretti sgozzati, stragi degli innocenti in miniatura, Icari in picchiata. Guardate che fa impressione. Naturalmente sulle linguine e sulla coda di rospo al salmone il sale manca sempre. C'è regolarmente quello che tenta di fare il furbo e lo chiede a gran voce. "C'è il sale?" "Ce l'hai davanti!" "Dove?" "Lì, lì" "Ehm" "Ma sì, la palla con la neve". A quella famiglia il funzionalismo gli fa una pippa, credetemi. Alvar Aalto per loro è l'inventore delle penne alla panna e salmone. O un portarotoli dell'Ikea.
7. Poi c'è il macinapepe gigante, quello a forma di missile terra-aria. Sta lì, in mezzo al tavolo. Spunta in tutte le foto come la Torre Eiffel a Parigi, ed è così grande da limitare il campo visivo dei commensali: "Sai che l'altra volta hanno fatto il brasato?" "Sì, ma guarda che c'ero anch'io" "Ah, cazzo, ma va?"
8. La scusa più azzardata, eroica e disperatamente vana per schivare il pranzo di Natale in famiglia è ancora una volta di D., la mia pasionaria preferita:
- Eh, forse non posso, ho quel problema alla tiroide.
- Ma va', se le analisi sono a posto.
- Ah. Sì?
- Sì.
- Va bene. Allora vorrà dire che sono cardiopatica.
Goodbye Natale, hello simpatico Santo Stefano. Auguri, deliziosi portatori di onomastico!
Io Santo Stefano me lo immagino come un esteta della pantofola che se avesse potuto scegliere col cavolo che avrebbe fatto il protomartire lasciandosi lapidare per finire sul calendario. "Dai, Stefi, scendi che ci sono i liberti incazzati!" "'Speta che finisco il cicchino" "Scendi!" "Momento che mi scade il kefir" "Dai!" "Andate avanti voi, che c'ho l'azzimo in forno!"
1. Ho scoperto che se dimentico a casa un'intera borsa di regali non se ne accorge nessuno. L'inconveniente è facilmente risolvibile girellando per il soggiorno con fare indifferente, preferibilmente a ritmo di samba, e agguantando tutto ciò che capita sottomano (cornici in lega di titanio, set di candele galleggianti al profumo di mangobanana, Babbi Natale porcellanati sculettanti al ritmo di jingle bells rock, crocifissi arte povera, paffuti Gesù Bambini iperrealisti) e poi miagolare con il migliore sguardo da bionda "ce l'hai un po' di carta da regalo che non ho fatto in tempo... ?"
2. Ho sempre considerato una cattiveria gratuita mettere il crocifisso nel raggio visivo del Gesù Bambino pisolante nel presepe. Al di là di tutto. No?
3. Sono usciti dal paniere:
a. Le catene di sant'Antonio di sms: virali, moleste, seriali, stucchevoli. Ne sono arrivate solo due, un vago e confuso augurio di vedere il Natale con gli occhi di un bambino (immaginarsi due occhi di bambino su una faccia normale, Maria Vergine che impressione) e una roba lunga come i dieci comandamenti che ho ritrovato pari pari nella pubblicità a tutta pagina della Despar sul giornale. Sì, ciao, eh.
b. Le sculture di pasta al sale! Ve le ricordate?, un momento fa esistevano, e poi puf, sparite nell'iperuranio. Penso che dipenda da un tempo di dimezzamento brevissimo e dall'umidità: a un certo punto si sono sgretolate simultaneamente, in una catastrofe di ghirlande crollate, petali impazziti, frutti sfatti, steli afflosciati. Ma mai troppo presto: ciao.
c. I termometri galileiani. E ho detto tutto.
4. Voglio trascinare davanti al Tribunale dell'Aia quello che una mattina si è svegliato e ha reso obbligatorio con un ukaz il salmone in tutte le pietanze natalizie. Da noialtri il salmone è ovunque: sulle tartine, nella pasta, dentro i secondi, nei bignè, nascosto nel cestino del pane, nel panettone al posto dei canditi.
Secondo me ci ha messo lo zampino uno scandinavo stronzo. Oppure è colpa del self-service dell'Ikea che ha incoraggiato nell'insicura mentalità italiana l'equazione salmone=welfare nordico. Comunque non è naturale, io sono per l'introduzione del cefalo sulle tavole del nord-est.
5. Grande passo avanti: ho ricevuto in regalo un copridivano. Fatto bizzarro, ha lo stesso colore del portadocumenti in lana cotta dello scorso anno. Quale colore? Salmone. Dio. Frase accompagnatoria: "Puoi usarlo anche come copriletto". Ma che culo.
6. La star della Vigilia è la saliera a forma di sfera di vetro con la neve dentro. Cioè, teoricamente tu la rovesci ed esce il sale. Solo che fa impressione, hai sempre paura che invece del sale da quel sinistro buchino si riverseranno sulle linguine, nell'ordine: un liquido semidenso non identificato e vagamente galileiano; della neve sintetica; casette di foggia varia; un'orda di personaggini brulicanti e leggermente deformi alla Bruegel il vecchio, pattinatori, vecchie con cesti di mele marce, cani, cacciatori, capretti sgozzati, stragi degli innocenti in miniatura, Icari in picchiata. Guardate che fa impressione. Naturalmente sulle linguine e sulla coda di rospo al salmone il sale manca sempre. C'è regolarmente quello che tenta di fare il furbo e lo chiede a gran voce. "C'è il sale?" "Ce l'hai davanti!" "Dove?" "Lì, lì" "Ehm" "Ma sì, la palla con la neve". A quella famiglia il funzionalismo gli fa una pippa, credetemi. Alvar Aalto per loro è l'inventore delle penne alla panna e salmone. O un portarotoli dell'Ikea.
7. Poi c'è il macinapepe gigante, quello a forma di missile terra-aria. Sta lì, in mezzo al tavolo. Spunta in tutte le foto come la Torre Eiffel a Parigi, ed è così grande da limitare il campo visivo dei commensali: "Sai che l'altra volta hanno fatto il brasato?" "Sì, ma guarda che c'ero anch'io" "Ah, cazzo, ma va?"
8. La scusa più azzardata, eroica e disperatamente vana per schivare il pranzo di Natale in famiglia è ancora una volta di D., la mia pasionaria preferita:
- Eh, forse non posso, ho quel problema alla tiroide.
- Ma va', se le analisi sono a posto.
- Ah. Sì?
- Sì.
- Va bene. Allora vorrà dire che sono cardiopatica.
Goodbye Natale, hello simpatico Santo Stefano. Auguri, deliziosi portatori di onomastico!
Io Santo Stefano me lo immagino come un esteta della pantofola che se avesse potuto scegliere col cavolo che avrebbe fatto il protomartire lasciandosi lapidare per finire sul calendario. "Dai, Stefi, scendi che ci sono i liberti incazzati!" "'Speta che finisco il cicchino" "Scendi!" "Momento che mi scade il kefir" "Dai!" "Andate avanti voi, che c'ho l'azzimo in forno!"
mercoledì, dicembre 24, 2008
Fai felice Gesù Bambino, adotta un bignè
Mi è stato appena cinicamente comunicato il menù di stasera, con malinconico disclaimer incorporato: "Peccato che noi il pesce non lo sappiamo cucinare".
Antipasti vari con salmone, gamberetti e bignè ripieni di formaggio.
Pasta corta con gamberetti, vongole e zucchine.
Rombo al forno con patatine e pomodorini.
Formaggi.
Insalata di rinforzo (chissà perché la chiamano così, ho sempre il dubbio che ci buttino dentro una manciata di stimolanti sintetici e di funghetti psichedelici: spiegherebbe molte cose).
Panettone, se A. si ricorda di portarlo.
(Ti prego, ricordati, o ci tocca riciclare i bignè. Anche se non ci sono tutte e tre le Marie va bene lo stesso, portane almeno una).
Perché ho improvvisamente voglia di violare i diritti umani di qualcuno?
Antipasti vari con salmone, gamberetti e bignè ripieni di formaggio.
Pasta corta con gamberetti, vongole e zucchine.
Rombo al forno con patatine e pomodorini.
Formaggi.
Insalata di rinforzo (chissà perché la chiamano così, ho sempre il dubbio che ci buttino dentro una manciata di stimolanti sintetici e di funghetti psichedelici: spiegherebbe molte cose).
Panettone, se A. si ricorda di portarlo.
(Ti prego, ricordati, o ci tocca riciclare i bignè. Anche se non ci sono tutte e tre le Marie va bene lo stesso, portane almeno una).
Perché ho improvvisamente voglia di violare i diritti umani di qualcuno?
Ancora pazzi per la Moldavia/Moldova
Che barba che noia.
Che barba che noia.
Che barba che noia.
Oh, però.
Ultimo sviluppo di una lunga complicata guerra tra autorità cittadine e governo: a Chisinau la polizia ha arrestato un albero di Natale.
Link
Che barba che noia.
Che barba che noia.
Oh, però.
Ultimo sviluppo di una lunga complicata guerra tra autorità cittadine e governo: a Chisinau la polizia ha arrestato un albero di Natale.
Link
martedì, dicembre 23, 2008
Vogliamo l'occhio e anche la sua parte
Racconto di D.:
"Sai che mio padre si è operato alla cataratta. Un occhio, l'altro a marzo. Adesso con quell'occhio ci vede benissimo. E così l'altro giorno a telefono mi fa:
- Sono stato al centro commerciale con la mamma e la sua amica Tosca.
- Eh.
- Sono brutte.
- Ma chi.
- La mamma e la Tosca. Adesso le vedo. Sono brutte. Truccate a quel modo, con il blu sugli occhi, tutte quelle pieghe.
- Ossantodio.
- Tu non puoi parlarle?
- A chi, alla mamma?
- Sì.
- E no, papà.
- È brutta.
- ...
- È che a me piacerebbe la Barbara D'Urso.
La Barbara D'Urso, gli piace. Metà dei suoi anni.
E comunque ci vedeva anche prima. Un giorno al mare mi indica una tizia e mi fa 'Quella lì io la chiamo l'impettita, sta nel condominio di fronte'. Perché impettita, dico io? 'Guardala. Comunque in costume non è mica tanto magra'. In costume sembriamo tutti più grassi, dico io. 'Ma a vederla girare per casa in mutande non mi sembrava', dice lui".
"Sai che mio padre si è operato alla cataratta. Un occhio, l'altro a marzo. Adesso con quell'occhio ci vede benissimo. E così l'altro giorno a telefono mi fa:
- Sono stato al centro commerciale con la mamma e la sua amica Tosca.
- Eh.
- Sono brutte.
- Ma chi.
- La mamma e la Tosca. Adesso le vedo. Sono brutte. Truccate a quel modo, con il blu sugli occhi, tutte quelle pieghe.
- Ossantodio.
- Tu non puoi parlarle?
- A chi, alla mamma?
- Sì.
- E no, papà.
- È brutta.
- ...
- È che a me piacerebbe la Barbara D'Urso.
La Barbara D'Urso, gli piace. Metà dei suoi anni.
E comunque ci vedeva anche prima. Un giorno al mare mi indica una tizia e mi fa 'Quella lì io la chiamo l'impettita, sta nel condominio di fronte'. Perché impettita, dico io? 'Guardala. Comunque in costume non è mica tanto magra'. In costume sembriamo tutti più grassi, dico io. 'Ma a vederla girare per casa in mutande non mi sembrava', dice lui".
L'uomo di pace e il suo cappello
Finalmente una citazione dal War Nerd che (per quanto mi riguarda) non ha bisogno di disclaimer:
"Ah, che meraviglia: Bono ha preso un altro premio. Ecco una cosa che renderà il nostro mondo migliore, Bono che prende un altro premio. La cosa peggiore è il nome del premio: 'Uomo di pace'. Esatto: se qualcuno di voi dovesse ancora dubitarne, il 16 dicembre 2008 un gruppo internazionale di vecchi svitati si è riunito e ha nominato ufficialmente Bono uomo di pace dell'anno.
Ci sono tante persone degne di essere odiate a questo mondo, ma non riesco a pensare a nessuno che meriti due pallottole al petto e una alla testa più del nostro amico Bono. O come si chiama. Bono è il nome che si è scelto quando ha messo insieme il suo gruppetto rock cattolico, gli U2. Sarà stato un omaggio a Sonny e Cher: 'Santo Bono, che fu martirizzato da un albero su una pista di sci'. E il nome strambo che hanno dato al gruppo, U2, come 'you too', 'anche tu': a un tempo spiritoso e inclusivo, il genere di umorismo che perfino i liberal sono in grado di afferrare. Questi tizi erano gli ingegni degli anni Ottanta, capito. L'amichetto di Bono dai tempi della scuola cattolica si chiama 'The Edge', il che è ancora più buffo. Quando pensi a uno affilato pensi subito a uno come gli U2, a cervelli fini tipo Bono che una volta ha prenotato un biglietto aereo di prima classe per il suo cappello da cowboy".
Link: Exiledonline
"Ah, che meraviglia: Bono ha preso un altro premio. Ecco una cosa che renderà il nostro mondo migliore, Bono che prende un altro premio. La cosa peggiore è il nome del premio: 'Uomo di pace'. Esatto: se qualcuno di voi dovesse ancora dubitarne, il 16 dicembre 2008 un gruppo internazionale di vecchi svitati si è riunito e ha nominato ufficialmente Bono uomo di pace dell'anno.
Ci sono tante persone degne di essere odiate a questo mondo, ma non riesco a pensare a nessuno che meriti due pallottole al petto e una alla testa più del nostro amico Bono. O come si chiama. Bono è il nome che si è scelto quando ha messo insieme il suo gruppetto rock cattolico, gli U2. Sarà stato un omaggio a Sonny e Cher: 'Santo Bono, che fu martirizzato da un albero su una pista di sci'. E il nome strambo che hanno dato al gruppo, U2, come 'you too', 'anche tu': a un tempo spiritoso e inclusivo, il genere di umorismo che perfino i liberal sono in grado di afferrare. Questi tizi erano gli ingegni degli anni Ottanta, capito. L'amichetto di Bono dai tempi della scuola cattolica si chiama 'The Edge', il che è ancora più buffo. Quando pensi a uno affilato pensi subito a uno come gli U2, a cervelli fini tipo Bono che una volta ha prenotato un biglietto aereo di prima classe per il suo cappello da cowboy".
Link: Exiledonline
domenica, dicembre 21, 2008
Genialno
Dovete.
Fidatevi.
Ma prego.
Buddha Sweetie Boys, "Budda-pop ha špalach" (Buddha-pop sulle traversine)
Prosvetlenie je-ee
Probuždenie je-ee
Sostradanie
Očiščaet ummm
Mani Padme Hum!
[Illuminazione - Risveglio - Compassione - Purifica la mente - Om Mani Padme Hum!]
venerdì, dicembre 19, 2008
Com. Serv. Num. 5468/bis
Sì, su 2.0 era scomparsa la sidebar a destra.
Da circa un mese non funzionavano più i feed.
Adesso funziona tutto di nuovo e per ora si va avanti così, sempre su:
http://mirumir.altervista. org
Vorrei evitare migrazioni su altre piattaforme e soprattutto cambiamenti di indirizzo. In compenso con il nuovo anno 2.0 diventerà probabilmente più ricco e (spero) più interessante.
Grazie per la pazienza,
baci.
Da circa un mese non funzionavano più i feed.
Adesso funziona tutto di nuovo e per ora si va avanti così, sempre su:
http://mirumir.altervista. org
Vorrei evitare migrazioni su altre piattaforme e soprattutto cambiamenti di indirizzo. In compenso con il nuovo anno 2.0 diventerà probabilmente più ricco e (spero) più interessante.
Grazie per la pazienza,
baci.
giovedì, dicembre 18, 2008
Meilare l'iban
- Scusi, ci ho messo un po' perché lei mi risultava ancora come azienda.
- Ma io non è che sono mai stata un'azienda, eh.
- Beh, tipo.
- Allora, me lo fa questo conto con home banking a 0,80 euro al mese bancomat gratis da comune mortale?
- Domani le meilo l'iban.
Io non so se faccio bene a fidarmi di uno che tiene le foto dei figli sopra il calorifero.
- Ma io non è che sono mai stata un'azienda, eh.
- Beh, tipo.
- Allora, me lo fa questo conto con home banking a 0,80 euro al mese bancomat gratis da comune mortale?
- Domani le meilo l'iban.
Io non so se faccio bene a fidarmi di uno che tiene le foto dei figli sopra il calorifero.
mercoledì, dicembre 17, 2008
Il Kursk, la tragedia e il kitsch
"Per soli 300 rubli, circa 10 dollari, i russi possono ora decorare i loro acquari con riproduzioni del Kursk, il sottomarino affondato otto anni fa nel quale morirono soffocati 118 marinai russi. Notate il certificato che garantisce l'importante fatto che la decorazione per acquari è 'Made in Russia'.
Quale migliore regalo di Natale per i vostri pesciolini? Immaginate i vostri Pesci Arlecchino che sfrecciano sotto lo scafo, i Baciucchioni che se la spassano sull'elica, quel curiosoni di Danio Choprai che sbocconcellano il mangime nella mensa del Kursk... è insieme divertente e istruttivo!
Alcuni blogger russi stanno già gridando 'troppo presto!' Altri pensano/sperano che sia uno scherzo, il che ci riporta al grido di dolore 'troppo presto!'. Come ha belato un blogger, 'Un americano metterebbe una copia del Titanic nel proprio acquario?'
Risposta: No.
Ma solo perché quando muoiono gli americani è una tragedia, quando muoiono altre persone è kitsch. La commedia non è un affare semplice come si crede, gente".
Mark Ames, Russians decorate their aquariums with Kursk replicas
Ames ha ragione.
Comunque, risposta: Magari sì.
Link
Quale migliore regalo di Natale per i vostri pesciolini? Immaginate i vostri Pesci Arlecchino che sfrecciano sotto lo scafo, i Baciucchioni che se la spassano sull'elica, quel curiosoni di Danio Choprai che sbocconcellano il mangime nella mensa del Kursk... è insieme divertente e istruttivo!
Alcuni blogger russi stanno già gridando 'troppo presto!' Altri pensano/sperano che sia uno scherzo, il che ci riporta al grido di dolore 'troppo presto!'. Come ha belato un blogger, 'Un americano metterebbe una copia del Titanic nel proprio acquario?'
Risposta: No.
Ma solo perché quando muoiono gli americani è una tragedia, quando muoiono altre persone è kitsch. La commedia non è un affare semplice come si crede, gente".
Mark Ames, Russians decorate their aquariums with Kursk replicas
Ames ha ragione.
Comunque, risposta: Magari sì.
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