Il maestro di musica diceva che lui l'Olivieri l'aveva conosciuta da giovane ed era bellissima, la ragazza più bella di Gorizia. Adesso però la Olivieri aveva un viso smunto tappezzato da una peluria chiara e folta e faceva spavento.
Antonia, sempre aggiornata sui progressi della chirurgia grazie alla lettura di pubblicazioni scientifiche come «Cronaca Vera» e «Stop», diceva che probabilmente quel viso era la conseguenza di un brutto incidente di macchina o di ustioni gravi, e che alla Olivieri avevano trapiantato la pelle prelevandola là dove era più morbida, il sedere, metodo già collaudato con la somma diva Sylvie Vartan.
Da dove venisse quella pelle non si sapeva, fatto sta che la Olivieri suscitava paura, sgomento e ribrezzo. Per non incrociare i suoi occhi, enormi e tossici, lo sfortunato chiamato alla lavagna si vedeva costretto a concentrarsi sulla peluria, un paesaggio nel quale controluce e in giornate particolarmente umide potevano formarsi arcobaleni.
Alla Olivieri io piacevo.
«Vittorelli, il mio arbiter elegan-»
«-tiarum» ero obbligata a scandire, perché lei ci faceva anche i rudimenti di latino, latino alle medie in una scuola che aveva fama di essere la migliore e nella quale per banali questioni di residenza confluivano soprattutto figli di operai, gente di Straccis, del Torrione, di via Cordaioli, insomma del Bronx.
«Vittorelli, che colori. Sei la nostra Madame... »
«Henriot.» Perché ci faceva anche un po' di storia dell'arte, l'arte che piaceva a lei.
Valerio Colella era figlio di operai pure lui, e a casa sua linguisticamente parlando vigeva il doppio corso monetario: ci si scambiava cioè mozziconi di frasi in dialetto e in un italiano molto elementare. In più il Colella era un ragazzo introverso, a scuola stentava, e soprattutto arrossiva forte e senza motivo sopra lo scollo di maglioni che sua madre gli sceglieva sobri come un monoscopio a colori.
Poi un giorno, in un compito in classe sul Leopardi, dopo una sfilza di pensieri convenzionali il Colella partì temerario per la tangente, forse per spiegare certe sue afasie esistenziali: "Mi sento come la Simca di mio papà, che bisogna sburtarla per farla partire".
La Olivieri lesse la frase a voce alta. Poi la rilesse. Nel mondo della Olivieri non esisteva il verbo sburtare. E del resto non esisteva neanche quella classe di poveracci, né l'odore di Big Babol, di sudore e di panni asciugati male. Il suo mondo erano i fiori freschi da Voigtländer, il caffè al Verdi o al Garibaldi, i tè danzanti della Ginnastica, le uscite sul fiume con gli amici della vecchia banda, una banda in cui le ragazze si chiamavano Argia e i ragazzi facevano alpinismo e si tiravano un colpo di rivoltella passati da poco i vent'anni. Quel mondo esisteva solo nei suoi occhi spaventosi, e nella peluria che alla minima corrente d'aria ondeggiava e si illuminava come lino delle fate. Nel mondo della Olivieri non si sburtava.
Fu così che la Olivieri quella mattina si scagliò sul Colella urlando.
Alla fine di lui rimase soltanto un mucchietto di pelle ossa e cartilagini, un ciuffo di capelli, un maglione lacero, un paio di Clarks contraffatte, due tubolari bianchi ingialliti sulla pianta, qualche cartina di caramella Golia, una pozzanghera di lacrime, un astuccio contenente una penna biro, un compasso, una matita 2B, una scolorina e una gomma profumata.
Questo vidi io, Madame Henriot, arbiter elegantiarum, sesto banco a sinistra nella disposizione a ferro di cavallo.
All'uscita della scuola il Colella trovò come sempre ad attenderlo suo padre con la vecchia Simca.
Come sempre toccò sburtarla per farla partire.