Eh beh:
Abu Ghraib è un'incubatrice di terroristi, sapete. Hanno il tempo di farsi torturare e anche di organizzarsi.
Fonte: New York Times
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giovedì, febbraio 16, 2006
Da non credere
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venerdì, febbraio 10, 2006
Il favoloso mondo di Scott McClellan
Quando George W. Bush tace (dopo la fantastica uscita sulle "Liberty-I mean-Library-I mean-Bank Towers in Los Angeles") c'è pur sempre il suo addetto stampa Scott McClellan.
Ecco come ha gestito le domande di "Helen" durante la conferenza stampa di ieri alla Casa Bianca.
Domanda: Questa dovrebbe essere una guerra al terrorismo, e per sua stessa ammissione il Presidente ha detto che non c'era nessun collegamento tra l'Iraq e i terroristi. Dunque perché siamo ancora in Iraq a uccidere e a farci uccidere?
MR. McCLELLAN: Be', credo che il Presidente ne abbia già parlato oggi. La posta in Iraq è alta. E ha detto su cosa ci stiamo concentrando...
D: ... perché è alta?
MR. McCLELLAN: Be', l'Iraq è il fronte principale nella guerra al terrorismo. Basta vedere la lettera di Zawahiri a Zarqawi. Riconoscono quanto ci sia in ballo. E noi facciamo altrettanto. E dobbiamo continuare a procedere con il nostro piano per ottenere la vittoria. Ecco perché ci stiamo concentrando...
D: Perché siete andati in Iraq?
MR. McCLELLAN: Be', il Presidente è...
D: Non c'erano, i terroristi.
MR. McCLELLAN: Non sto cercando di tornare sul fatto che... sulle decisioni che abbiamo già preso.
D: Io sì.
MR. McCLELLAN: Abbiamo già spiegato dettagliatamente le ragioni per cui ci siamo andati, ed era perché Saddam...
D: Che poi si sono rivelate sbagliate.
MR. McCLELLAN: La scelta spettava a Saddam Hussein. Continuava a sfidare la comunità internazionale. E il Presidente dopo l'11 settembre decise che non intendevamo aspettare che le minacce si concretizzassero. Dovevamo affrontarlo prima che fosse troppo tardi. E come ha già detto oggi...
D: Era l'Iraq, e non c'erano.
MR. McCLELLAN: Be', credo che avrebbe dovuto ascoltare bene quello che ha detto il Presidente oggi.
D: L'ho fatto.
MR. McCLELLAN: Ha parlato dell'importanza della libertà che sconfigge il terrorismo e della sua capacità di imporsi. Il Medio Oriente è una regione del mondo pericolosa. Quello che stiamo cercando di fare...
D: Perché è stato attaccato l'Iraq?
MR. McCLELLAN: Quello che stiamo cercando di fare è contribuire a trasformare quella regione martoriata offrendole un futuro più promettente. È questo l'effetto della libertà. Le società libere sono società pacifiche. E un Iraq libero contribuirà a ispirare il resto del Medio Oriente.
Ecco come ha gestito le domande di "Helen" durante la conferenza stampa di ieri alla Casa Bianca.
Domanda: Questa dovrebbe essere una guerra al terrorismo, e per sua stessa ammissione il Presidente ha detto che non c'era nessun collegamento tra l'Iraq e i terroristi. Dunque perché siamo ancora in Iraq a uccidere e a farci uccidere?
MR. McCLELLAN: Be', credo che il Presidente ne abbia già parlato oggi. La posta in Iraq è alta. E ha detto su cosa ci stiamo concentrando...
D: ... perché è alta?
MR. McCLELLAN: Be', l'Iraq è il fronte principale nella guerra al terrorismo. Basta vedere la lettera di Zawahiri a Zarqawi. Riconoscono quanto ci sia in ballo. E noi facciamo altrettanto. E dobbiamo continuare a procedere con il nostro piano per ottenere la vittoria. Ecco perché ci stiamo concentrando...
D: Perché siete andati in Iraq?
MR. McCLELLAN: Be', il Presidente è...
D: Non c'erano, i terroristi.
MR. McCLELLAN: Non sto cercando di tornare sul fatto che... sulle decisioni che abbiamo già preso.
D: Io sì.
MR. McCLELLAN: Abbiamo già spiegato dettagliatamente le ragioni per cui ci siamo andati, ed era perché Saddam...
D: Che poi si sono rivelate sbagliate.
MR. McCLELLAN: La scelta spettava a Saddam Hussein. Continuava a sfidare la comunità internazionale. E il Presidente dopo l'11 settembre decise che non intendevamo aspettare che le minacce si concretizzassero. Dovevamo affrontarlo prima che fosse troppo tardi. E come ha già detto oggi...
D: Era l'Iraq, e non c'erano.
MR. McCLELLAN: Be', credo che avrebbe dovuto ascoltare bene quello che ha detto il Presidente oggi.
D: L'ho fatto.
MR. McCLELLAN: Ha parlato dell'importanza della libertà che sconfigge il terrorismo e della sua capacità di imporsi. Il Medio Oriente è una regione del mondo pericolosa. Quello che stiamo cercando di fare...
D: Perché è stato attaccato l'Iraq?
MR. McCLELLAN: Quello che stiamo cercando di fare è contribuire a trasformare quella regione martoriata offrendole un futuro più promettente. È questo l'effetto della libertà. Le società libere sono società pacifiche. E un Iraq libero contribuirà a ispirare il resto del Medio Oriente.
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martedì, gennaio 31, 2006
La scoperta del giorno
Tenere in arresto le mogli dei sospetti terroristi può rivelarsi controproducente, dicono gli esperti.
Trattenere per due giorni una donna che sta ancora allattando il figlio neonato, sperando che questo contribuisca a stanare il marito; attaccare sulla porta di un sospetto combattente il biglietto "vieni a riprenderti tua moglie"; insomma, la tattica "voi uscite di lì e noi vi restituiamo la donne" finirebbe per amareggiare un po' gli iracheni.
A meno che per donne non si intendano le suocere, ma questa è una mia considerazione.
E con le scoperte sconvolgenti direi che per oggi abbiamo finito.
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sabato, gennaio 28, 2006
The Guantanamo Happy Meal
Link a 2.0 sulle condizioni dei detenuti di Guantanamo che fanno lo sciopero della fame per ottenere un giusto processo. Anticipazione: stanno molto male.
Intanto so lavorando all'ipnopedia.
Intanto so lavorando all'ipnopedia.
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lunedì, gennaio 23, 2006
Operazione Verdun
Una città trasformata in prigione
di Dahr Jamail
(con Arkan Hamed)
SINIYAH, Iraq – Gli abitanti di Siniyah, un villaggio a 200 km a nord di Baghdad, sono infuriati per il muro di sabbia lungo una decina chilometri costruito dall’esercito americano per tenere sotto controllo gli attacchi da parte dei ribelli.
“La nostra città è diventata un campo di battaglia,” ha detto all’Inter Press Service l’ingegnere trentacinquenne Fuad Al-Mohandis, fermo a un posto di blocco alla periferia della città. "Sono state distrutte moltissime case e gli americani stanno minando aree in cui pensano che possano trovarsi dei combattenti, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di zone vicine ad abitazioni di civili innocenti."
I soldati della 101ma Divisione aviotrasportata hanno subito attacchi pressoché quotidiani per mezzo di bombe sistemate ai bordi delle strade.
Fuad ha detto l’esercito americano ha imposto un coprifuoco dalle cinque del pomeriggio e che “al momento ci sono molte esplosioni che terrorizzano i nostri bambini.”
Il 7 gennaio l’esercito statunitense ha cominciato a usare le ruspe per costruire un’ampia barriera di sabbia attorno alla città nel tentativo di isolare i combattenti che attaccano le pattuglie americane. Gli oleodotti verso la Turchia che si trovano in quest’area sono stati regolarmente sabotati dai gruppi della resistenza.
Queste misure drastiche hanno fatto infuriare molti dei 3000 abitanti della cittadina.
“Pensano che in questo modo riusciranno a fermare la resistenza," ha dichiarato all’IPS Amer, 43 anni, dipendente della vicina raffineria di Beji. “Ma gli americani così facendo stanno provocando una resistenza ancora maggiore. La resistenza non smetterà di attaccarli finché non si ritireranno dal nostro paese.”
Il dipendente ha detto che non era stato in grado di uscire di casa per diversi giorni, e che non aveva potuto recarsi al lavoro né a visitare i suoi familiari fuori Siniyah.
L’esercito statunitense ha battezzato la costruzione del muro di sabbia “Operazione Verdun”, richiamandosi a una battaglia della prima guerra mondiale. Le forze d’occupazione pensano che la città sia diventata la base dalla quale vengono lanciati gli attacchi alle loro pattuglie e i bombardamenti a colpi di mortaio contro la vicina Base di Summerall.
Vicino alla città sono stati installati dei posti blocco, dove le forze di sicurezza irachene e statunitensi perquisiscono tutti i veicoli alla ricerca di armi e di esplosivi.
“Non siamo più in grado di lavorare, i nostri redditi dipendono dalla distribuzione del carburante,” ha detto alla IPS il camionista Abdul Qadr a uno dei posti di blocco. “Ci troviamo in una situazione molto difficile. La città è attualmente isolata e ovunque stanno costruendo barricate per fermare i combattenti. Tutti i giorni fanno incursione nelle nostre case alla ricerca di stranieri, ma non riescono a trovarne.”
Abdul Qadr, che è cresciuto a Siniyah, ha detto all’IPS che lui e i suoi vicini hanno l’impressione di trovarsi in un “campo di concentramento.” Così anche gli abitanti di Fallujah e Samarra hanno descritto le loro città quando le forze statunitensi vi hanno costruito attorno dei muri simili a questo.
A Samarra l’esercito americano ha costruito un muro di 18 chilometri, mentre a Fallujah sono tuttora installati posti di blocco all’israeliana. Le forze d’occupazione hanno imposto misure simili anche in altre città come Al-Qa'im, Haditha, Ramadi, Balad, and Abu Hishma.
Da quando tali misure sono state messe in atto nelle diverse città, gli attacchi contro le forze di sicurezza non hanno fatto che aumentare, fino a giungere a una media di più di cento al giorno negli ultimi mesi.
“Gli americani pensano che i combattenti vengano dall’estero,” ha commentato Qadr. “Ma non è così. Non riescono a capire che la sola vera soluzione è permettere a un popolo di governarsi da solo?”
(Inter Press Service)
Fonte in inglese: http://www.antiwar.com/jamail/?articleid=8424
Traduzione in francese: http://quibla.net/iraq2006/iraq1.htm
Tradotto dall'inglese in italiano da Mirumir, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (transtlaxcala@yahoo.com ). Questa traduzione è in Copyleft.
di Dahr Jamail
(con Arkan Hamed)
SINIYAH, Iraq – Gli abitanti di Siniyah, un villaggio a 200 km a nord di Baghdad, sono infuriati per il muro di sabbia lungo una decina chilometri costruito dall’esercito americano per tenere sotto controllo gli attacchi da parte dei ribelli.
“La nostra città è diventata un campo di battaglia,” ha detto all’Inter Press Service l’ingegnere trentacinquenne Fuad Al-Mohandis, fermo a un posto di blocco alla periferia della città. "Sono state distrutte moltissime case e gli americani stanno minando aree in cui pensano che possano trovarsi dei combattenti, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di zone vicine ad abitazioni di civili innocenti."
I soldati della 101ma Divisione aviotrasportata hanno subito attacchi pressoché quotidiani per mezzo di bombe sistemate ai bordi delle strade.
Fuad ha detto l’esercito americano ha imposto un coprifuoco dalle cinque del pomeriggio e che “al momento ci sono molte esplosioni che terrorizzano i nostri bambini.”
Il 7 gennaio l’esercito statunitense ha cominciato a usare le ruspe per costruire un’ampia barriera di sabbia attorno alla città nel tentativo di isolare i combattenti che attaccano le pattuglie americane. Gli oleodotti verso la Turchia che si trovano in quest’area sono stati regolarmente sabotati dai gruppi della resistenza.
Queste misure drastiche hanno fatto infuriare molti dei 3000 abitanti della cittadina.
“Pensano che in questo modo riusciranno a fermare la resistenza," ha dichiarato all’IPS Amer, 43 anni, dipendente della vicina raffineria di Beji. “Ma gli americani così facendo stanno provocando una resistenza ancora maggiore. La resistenza non smetterà di attaccarli finché non si ritireranno dal nostro paese.”
Il dipendente ha detto che non era stato in grado di uscire di casa per diversi giorni, e che non aveva potuto recarsi al lavoro né a visitare i suoi familiari fuori Siniyah.
L’esercito statunitense ha battezzato la costruzione del muro di sabbia “Operazione Verdun”, richiamandosi a una battaglia della prima guerra mondiale. Le forze d’occupazione pensano che la città sia diventata la base dalla quale vengono lanciati gli attacchi alle loro pattuglie e i bombardamenti a colpi di mortaio contro la vicina Base di Summerall.
Vicino alla città sono stati installati dei posti blocco, dove le forze di sicurezza irachene e statunitensi perquisiscono tutti i veicoli alla ricerca di armi e di esplosivi.
“Non siamo più in grado di lavorare, i nostri redditi dipendono dalla distribuzione del carburante,” ha detto alla IPS il camionista Abdul Qadr a uno dei posti di blocco. “Ci troviamo in una situazione molto difficile. La città è attualmente isolata e ovunque stanno costruendo barricate per fermare i combattenti. Tutti i giorni fanno incursione nelle nostre case alla ricerca di stranieri, ma non riescono a trovarne.”
Abdul Qadr, che è cresciuto a Siniyah, ha detto all’IPS che lui e i suoi vicini hanno l’impressione di trovarsi in un “campo di concentramento.” Così anche gli abitanti di Fallujah e Samarra hanno descritto le loro città quando le forze statunitensi vi hanno costruito attorno dei muri simili a questo.
A Samarra l’esercito americano ha costruito un muro di 18 chilometri, mentre a Fallujah sono tuttora installati posti di blocco all’israeliana. Le forze d’occupazione hanno imposto misure simili anche in altre città come Al-Qa'im, Haditha, Ramadi, Balad, and Abu Hishma.
Da quando tali misure sono state messe in atto nelle diverse città, gli attacchi contro le forze di sicurezza non hanno fatto che aumentare, fino a giungere a una media di più di cento al giorno negli ultimi mesi.
“Gli americani pensano che i combattenti vengano dall’estero,” ha commentato Qadr. “Ma non è così. Non riescono a capire che la sola vera soluzione è permettere a un popolo di governarsi da solo?”
(Inter Press Service)
Fonte in inglese: http://www.antiwar.com/jamail/?articleid=8424
Traduzione in francese: http://quibla.net/iraq2006/iraq1.htm
Tradotto dall'inglese in italiano da Mirumir, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (transtlaxcala@yahoo.com ). Questa traduzione è in Copyleft.
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giovedì, dicembre 15, 2005
Non ci posso credere
Per mettere fine agli abusi (leggete pure torture), gli Stati Uniti ispezioneranno le carceri gestite dagli iracheni.
New York Times, mica The Onion.
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martedì, dicembre 13, 2005
Lui ha un piano (ce l'ha?)
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Benvenuti
"I think we are welcomed. But it was not a peaceful welcome."
G. W. Bush sull'Iraq.
G. W. Bush sull'Iraq.
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giovedì, dicembre 01, 2005
Un incontro costruttivo
Auditorium di Ramadi. Gli arabi sunniti dicono di esser lì per un unico motivo, e cioè sentir parlare di ritiro statunitense. I militari americani invece sono lì per incoraggiare i capi tribali a entrare nell'esercito iracheno.
"Incredibile", commenta il capitano Nash, comandante dei marines a Ramadi, riferendosi ai capi sunniti che affollano la sala. "Sono venuti, e non avevo mai assistito a una cosa del genere." Un giornalista iracheno gli ha risposto: "Ai tempi di Saddam avrebbero sacrificato una pecora per visite come questa. Oggi penso che potrebbero macellare voi."
Frasi notevoli pronunciate dai leader sunniti:
"Vogliamo il ritiro."
"Crediamo che questa sia un'occupazione illegittima, e che la resistenza sia legittima."
"Rendiamo onore al popolo americano perché dopo aver visto la televisione via satellite sappiamo che è pronto ad andarsene."
"La gente di Fallujah ama Cindy Sheehan."
Frasi notevoli pronunciate dagli ufficiali statunitensi e iracheni:
"Siamo coinvolti nel problema del ritiro."
"La cosa migliore che possiate fare è convincere i vostri figli a entrare nell'esercito e nella polizia." Eccetera.
Tradurre è un po' tradire, e il fatto che gli interpreti degli Stati Uniti siano stati accuratamente scelti tra arabi non iracheni accentua il problema e favorisce le incomprensioni: mentre in sala si alzano le grida di insoddisfazione e qualcuno comincia a puntare loro il dito contro, gli americani sono ancora convinti che si tratti "di un incontro molto utile".
Dice il brigadier generale Williams della seconda divisione dei marines:
"Siamo qui per risolvere i problemi. Sono problemi complessi. Non esistono soluzioni facili, ma esistono delle soluzioni."
Traduzione dell'interprete, un libanese ormai stanco dopo cinque ore di estenuanti colloqui: "Non ho tempo da perdere. Anche se voi avete tempo da perdere, non è giornata."
"Può funzionare," ha commentato un generale iracheno, comandante dell'esercito già ai tempi di Saddam, a incontro terminato.
In effetti, i marines non hanno fatto la fine della pecora.
Fonte: "U.S. Debate on Pullout Resonates As Troops Engage Sunnis in Talks", Washington Post.
"Incredibile", commenta il capitano Nash, comandante dei marines a Ramadi, riferendosi ai capi sunniti che affollano la sala. "Sono venuti, e non avevo mai assistito a una cosa del genere." Un giornalista iracheno gli ha risposto: "Ai tempi di Saddam avrebbero sacrificato una pecora per visite come questa. Oggi penso che potrebbero macellare voi."
Frasi notevoli pronunciate dai leader sunniti:
"Vogliamo il ritiro."
"Crediamo che questa sia un'occupazione illegittima, e che la resistenza sia legittima."
"Rendiamo onore al popolo americano perché dopo aver visto la televisione via satellite sappiamo che è pronto ad andarsene."
"La gente di Fallujah ama Cindy Sheehan."
Frasi notevoli pronunciate dagli ufficiali statunitensi e iracheni:
"Siamo coinvolti nel problema del ritiro."
"La cosa migliore che possiate fare è convincere i vostri figli a entrare nell'esercito e nella polizia." Eccetera.
Tradurre è un po' tradire, e il fatto che gli interpreti degli Stati Uniti siano stati accuratamente scelti tra arabi non iracheni accentua il problema e favorisce le incomprensioni: mentre in sala si alzano le grida di insoddisfazione e qualcuno comincia a puntare loro il dito contro, gli americani sono ancora convinti che si tratti "di un incontro molto utile".
Dice il brigadier generale Williams della seconda divisione dei marines:
"Siamo qui per risolvere i problemi. Sono problemi complessi. Non esistono soluzioni facili, ma esistono delle soluzioni."
Traduzione dell'interprete, un libanese ormai stanco dopo cinque ore di estenuanti colloqui: "Non ho tempo da perdere. Anche se voi avete tempo da perdere, non è giornata."
"Può funzionare," ha commentato un generale iracheno, comandante dell'esercito già ai tempi di Saddam, a incontro terminato.
In effetti, i marines non hanno fatto la fine della pecora.
Fonte: "U.S. Debate on Pullout Resonates As Troops Engage Sunnis in Talks", Washington Post.
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martedì, novembre 29, 2005
I SEALS lo facevano meglio
Questi sono lunghi estratti da una recente intervista di Amy Goodman di Democracy Now a Tony Lagouranis, ex-specialista addetto agli interrogatori dell'esercito americano. Una decina di giorni fa l'ho tradotta velocemente per farla leggere a un amico. Pensavo che presto ne avrebbero parlato giornali e blog, ma non ha ricevuto l'attenzione che avrebbe meritato (o almeno, non in Italia). Per questo oggi ho deciso di riportarne sul blog alcune parti, soprattutto quelle in cui Lagouranis descrive alcune tecniche di interrogatorio, quello che vide a Fallujah e i metodi usati dai marines Force Recon alla base di North Babel.
GOODMAN: Tony, può parlarci dell'uso dei cani?
LAGOURANIS: Usavamo i cani nel centro di detenzione di Mosul, che si trovava all'aeroporto di Mosul. Mettevamo il prigioniero in un container. Lo tenevamo sveglio tutta la notte con musica e luci stroboscopiche, in posizioni di sforzo, e poi portavamo dentro i cani. Il prigioniero era bendato e non poteva sapere cosa stava succedendo, ma noi tenevamo a bada il cane. Veniva tenuto al guinzaglio da un addestratore, e aveva una museruola, così non poteva fare del male al prigioniero. È stata la sola volta che ho visto usare cani in Iraq.
GOODMAN: Il prigioniero sapeva che il cane portava la museruola?
LAGOURANIS: No, perché era bendato. Il cane abbaiava e saltava addosso al prigioniero, e il prigioniero non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
GOODMAN: Cosa pensava di questa pratica?
LAGOURANIS: Be', sapevo che rischiavamo di passare il limite, e controllavo le regole da rispettare durante gli interrogatori che mi erano state date dall'unità con cui lavoravo, cercando di capire cosa fosse legale e cosa non lo fosse. Secondo queste regole di ingaggio, era legale. Per cui, quando mi ordinavano di farlo dovevo farlo. Sa, per quanto riguarda quel che io ne pensavo, e se pensavo che fossero buone pratiche di interrogatorio, no, non lo credevo proprio. Non abbiamo mai ricavato alcuna informazione utile.
GOODMAN: A questo punto, quando lei si trovava là, vennero fuori le foto. O per lo meno cominciarono a circolare tra i soldati. Vide quelle foto?
LAGOURANIS: Vidi solo le foto che uscirono sulla stampa. Ero là a usare i cani proprio quando è scoppiato lo scandalo. Ma non credo che quelle foto circolassero tra i soldati. Voglio dire, io di certo non le ho viste prima che le mostrassero a 60 minutes.
GOODMAN: E quando le ha viste, e lei stesso era impegnato in quella pratica, quali furono i suoi pensieri?
LAGOURANIS: Credo che la mia prima reazione sia stata che si trattasse di mele marce, e questa era la linea ufficiale della Casa Bianca, e sa, è strano che non le avessi collegate con quello che facevamo noi. Usavamo metodi piuttosto violenti con i prigionieri. Avevo visto altre unità usare metodi severi, ma non li collegai allo scandalo. Era come se... non lo so, perché. Non lo so.
GOODMAN: Cosa intende per metodi piuttosto violenti?
LAGOURANIS: Be', eravamo un centro di detenzione militare, e ricevevamo i prigionieri da altre unità che arrestavano delle persone laggiù. Per esempio i Navy SEALS.
Quando interrogavano, i Navy SEALS usavano acqua ghiacciata per abbassare la temperatura del corpo del prigioniero e gli misuravano la temperatura per via rettale, per essere sicuri che non morisse. Io questo non l'ho visto, ma mi è stato detto da molti, moltissimi prigionieri che erano stati nel campo dei SEAL, e l'ho anche sentito raccontare da una guardia che lavorava da noi, e che era stata presente a un interrogatorio dei SEAL.
GOODMAN: Dov'era il campo dei SEAL?
LAGOURANIS: Nello stesso posto. All'aeroporto di Mosul, ma io personalmente non ci sono mai entrato.
GOODMAN: Voi usavate l'ipotermia negli interrogatori?
LAGOURANIS: Sì. Sì, usavamo tantissimo l'ipotermia. Era molto feddo a Mosul, e così... e inoltre pioveva tanto, e così potevamo tener fuori i prigionieri, che indossavano tute di poliestere e si bagnavano e congelavano. Ma noi non inducevamo l'ipotermia con l'acqua gelata come facevano i SEALS. Però, sa, forse i SEALS lo facevano meglio di noi, perché controllavano perfino la temperatura con il termometro, mentre noi non lo facevamo.
[...]
GOODMAN: Ha detto che è stato coinvolto in abusi. Quali sono stati gli abusi più eclatanti?
LAGOURANIS: Be', come ho detto, a Mosul ho usato i cani e l'ipotermia, ho usato la privazione del sonno, l'isolamento, la manipolazione della dieta, sa, tutto questo è abuso secondo il manuale e la dottrina dell'esercito e certamente secondo le convenzioni di Ginevra.
[...]
GOODMAN: Lei è stato a Fallujah?
LAGOURANIS: Sì.
GOODMAN: Cosa faceva laggiù?
LAGOURANIS: Il mio compito a Fallujah consisteva nel perquisire i vestiti e le tasche dei cadaveri che raccoglievamo dalle strade, e che poi portavamo in un magazzino; io li perquisivo e cercavo di identificarli e di raccogliere qualsiasi informazione avessero addosso.
GOODMAN: Perché lei parlava l'arabo?
LAGOURANIS: Sì. Sì. Ecco perché mi ci mandarono.
GOODMAN: Quanti cadaveri ha perquisito?
LAGOURANIS: 500.
GOODMAN: Può parlare di quest'esperienza?
LAGOURANIS: Certo. Voglio dire, sa, ovviamente fu tremendo, con questi corpi che erano stati sulla strada sotto il sole per giorni, qualche volta per dieci giorni prima che li raccogliessimo. Erano stati mangiati dai cani, dagli uccelli e dai vermi, e l'esercito pensava... veramente non era l'esercito, ma era il Dipartimento della Difesa che aveva mandato questi strumenti elettronici per fare la scansione della retina e prendere le impronte digitali, ma era impossibile perché questa gente... non aveva più gli occhi. Non aveva più delle impronte digitali.
E non potevamo neanche seppellire i prigionieri, perché non si era ancora deciso come farlo, e così venivano ammucchiati nel magazzino a Fallujah, dove mangiavamo e dormivamo, in compagnia di tutti quei cadaveri.
GOODMAN: Cosa significa che non avevano occhi, che non avevano impronte digitali? Erano corpi carbonizzati?
LAGOURANIS: Be', certo, alcuni di essi erano carbonizzati. Voglio dire, alcuni non avevano più le braccia, ed erano così decomposti che gli occhi non c'erano più. Erano rimaste le orbite vuote, con dentro i vermi.
GOODMAN: Ultimamente abbiamo fatto un servizio sull'uso del fosforo bianco, “Whiskey Pete,” come credo sia chiamato dai soldati. È appena uscito un documentario che parla di quest'uso, non per illuminare il cielo, ma per bruciare, carbonizzare le vittime di Fallujah quando lei si trovava là. Lei ha visto qualcosa?
LAGOURANIS: No, non che io sappia. Non lo so. Ne ho sentito parlare solo recentemente, probabilmente da voi, ma non ne so niente.
GOODMAN: Lei dice di aver dormito in questo magazzino con i cadaveri?
LAGOURANIS: Sì.
GOODMAN: Può parlarne? E chi pensa fossero quei morti?
LAGOURANIS: Be', molti di loro erano sicuramente insorti. Sa, molti erano armati. Avevano bombe a mano, giubbotti antiproiettili. Ma tanti di loro non lo erano. C'erano donne e bambini, vecchi, ragazzi. E quindi è difficile dirlo. Penso che inizialmente bisognasse trovare combattenti stranieri. Si doveva provare che c'erano molti combattenti stranieri, a Fallujah. Ecco quindi perché eravamo lì. Solo che molti di loro non avevano documenti identificativi. Forse la metà aveva documenti identificativi, e i documenti stranieri erano pochissimi. C'erano alcuni che lavoravano con me che cercavano di inventarsi le informazioni, per esempio se addosso a una persona si trovava un Corano e quel Corano era stato stampato in Algeria, quella persona veniva identificata come algerina. Oppure c'erano uomini vestiti con camicia bianca e pantaloni kaki e allora si diceva che era la divisa di Hezbollah e li si classificava come libanesi, e questo era ridicolo, ma sa...
GOODMAN: E lei cosa diceva?
LAGOURANIS: Be', ero solo uno specialista, e così ho cercato di dire qualcosa al sergente responsabile, ma, sa, mi sono preso una strigliata e mi ha rimesso al mio posto. Disse, questo non spetta a te. Io dico che è libanese, ed è libanese. Punto.
GOODMAN: E le donne e i bambini?
LAGOURANIS: Non lo so. Non lo so proprio. Ho trovato bambini completamente bruciati. Non lo so. Non so cosa dire. C'erano donne e bambini.
GOODMAN: Ne avete discusso?
LAGOURANIS: No. Semplicemente ne prendevamo atto. Oh, Dio, un bambino morto. Una donna. Non ne parlavamo.
GOODMAN: Quante persone lei stima siano morte a Fallujah?
LAGOURANIS: Non ne ho idea. Non lo so. Ho sentito dai marines la cifra di 10.000, ma non so se è esatta.
GOODMAN: E sarebbe in grado di dire quanti di questi erano ciò che l'esercito americano chiama "insorti"?
LAGOURANIS: Penso che probabilmente... dei 500 corpi che abbiamo trovato, direi che circa il 20% aveva con sé delle armi. Ma non lo so. Immagino che la maggior parte delle persone che non intendevano restare a combattere abbiano lasciato Fallujah. Ma non sono in grado di giudicare.
[...]
A un certo punto dell'intervista Lagouranis afferma di aver visto le peggiori prove di abusi e torture a North Babel, tra l'agosto e l'ottobre del 2004 e quindi molto dopo lo scandalo di Abu Ghraib. Le tattiche violente non venivano impiegate in prigione, ma i marines entravano nelle case e torturavano sul posto i sospetti. Lì succedeva molto di peggio: spaccavano ossa, schiacciavano piedi, ustionavano.
GOODMAN: Può ripetere quello che vide a Babel? Quali erano le unità coinvolte, e cosa facevano?
LAGOURANIS: Be', io interrogavo nel carcere della Base operativa avanzata, CALSU. Da me arrivavano i prigionieri che erano stati arrestati dai marines Force Recon, e loro - ogni volta che i Force Recon andavano a fare un'incursione, tornavano con prigionieri pieni di lividi e con le ossa rotte, a volte con delle bruciature. Erano molto violenti con questa gente, e io chiedevo ai prigionieri cos'era successo, sa, da dove venivano quelle ferite, e loro mi dicevano che era successo dopo la cattura, quando erano legati e ammanettati e interrogati dai marines.
GOODMAN: E cosa raccontavano?
LAGOURANIS: Erano presi a pugni, a calci, sa, colpiti con il retro di un'accetta. Uno fu costretto a sedersi sul tubo di scarico di un humvee. Io controllavo queste storie con quelle dei loro compagni, ed erano coerenti. Così, tendevo a credere a quello che mi raccontavano.
GOODMAN: Cosa significa che uno fu costretto a sedersi sul tubo di scarico di un humvee? Che cosa gli accadde?
LAGOURANIS: Be', aveva una vescica gigantesca, un'ustione di terzo grado sulla parte posteriore della gamba.
GOODMAN: Perché era bollente?
LAGOURANIS: Esatto.
GOODMAN: E a quel punto, lei doveva interrogarli?
LAGOURANIS: Esatto. Io dovevo interrogarli. Proprio così.
GOODMAN: E come faceva, con queste persone di fronte a lei con le ossa rotte, prese a calci e a pugni, ustionate?
LAGOURANIS: Be', sa, a quel punto dell'anno avevo già rinunciato a usare tattiche violente, e così cercavo di conquistarmi la loro fiducia, dicendo loro che li avrei aiutati ad uscire di lì, cosa che all'epoca invece non ero in grado di fare perché tutti quelli che venivano arrestati, colpevoli e innocenti, finivano ad Abu Ghraib comunque. Ma...
GOODMAN: Che intende dire?
LAGOURANIS: Be', sa, gli addetti agli interrogatori - io sono il solo che parla con questo tizio. Non ci sarà un ufficiale, a parlare con lui. La persona che decide se lasciarli andare o tenerli non è quella che li interroga. E così la mia raccomandazione dovrebbe valere qualcosa, ma non era così alla Base operativa avanzata CALSU. Praticamente per loro chiunque arrivasse lì era un terrorista, era colpevole e doveva finire ad Abu Ghraib.
GOODMAN: E lei a quali conclusioni giunse?
LAGOURANIS: Che un 98% di queste persone non aveva fatto niente. Voglio dire, prendevano la gente per i motivi più stupidi come - c'è questo tizio che hanno preso, lo hanno fermato a un posto di blocco, un controllo di routine, e aveva una vanga nel bagagliaio e un cellulare in tasca. Allora dissero, ecco, puoi usare la vanga per seppellire una bomba e usare il cellulare per farla esplodere. Non aveva esplosivi, in macchina, non aveva armi, niente di niente. Non avevano alcun motivo per credere che fosse un terrorista tranne la vanga e il cellulare. Questo era il genere di persone che arrestavano.
[...]
GOODMAN: C'è un termine del linguaggio militare ma anche di quello civile, Tony: "coraggio morale". Può dirci quale significato ha per lei?
LAGOURANIS: Non so proprio se sono la persona giusta per parlarne. Non lo so.
GOODMAN: Be'..
LAGOURANIS: Sì, mi sento come se non ne avessi avuto abbastanza, laggiù, capisce? Non lo so.
GOODMAN: Quando si guarda indietro, adesso, cosa vorrebbe aver fatto?
LAGOURANIS: Sa, siamo stati addestrati per condurre interrogatori in accordo con le Convenzioni di Ginevra con prigionieri di guerra nemici. E ci siamo addestrati con dei giochi di ruolo in cui usavamo un prigioniero di guerra convenzionale e anche un terrorista, e li trattavamo entrambi come se fossero prigionieri di guerra nemici. Non ci era consentito passare il limite. Quindi, non so perché ho permesso all'esercito di ordinarmi di andare contro il mio addestramento, contro il mio buon senso e contro i miei principi morali. Ma l'ho fatto. Avrei potuto semplicemente dire di no.
Fonte: Democracy Now!
--------------------------------------------
Perché voi valete:
Palette Model'Eyes con quattro ombretti e una base per attenuare le occhiaie e illuminare lo sguardo, mascara Extreme ("extension immediata"), fondotinta Sensual Clone, fard Joues Contrast rosa, sulle labbra Wet Cream Lipgloss n° 13.
GOODMAN: Tony, può parlarci dell'uso dei cani?
LAGOURANIS: Usavamo i cani nel centro di detenzione di Mosul, che si trovava all'aeroporto di Mosul. Mettevamo il prigioniero in un container. Lo tenevamo sveglio tutta la notte con musica e luci stroboscopiche, in posizioni di sforzo, e poi portavamo dentro i cani. Il prigioniero era bendato e non poteva sapere cosa stava succedendo, ma noi tenevamo a bada il cane. Veniva tenuto al guinzaglio da un addestratore, e aveva una museruola, così non poteva fare del male al prigioniero. È stata la sola volta che ho visto usare cani in Iraq.
GOODMAN: Il prigioniero sapeva che il cane portava la museruola?
LAGOURANIS: No, perché era bendato. Il cane abbaiava e saltava addosso al prigioniero, e il prigioniero non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
GOODMAN: Cosa pensava di questa pratica?
LAGOURANIS: Be', sapevo che rischiavamo di passare il limite, e controllavo le regole da rispettare durante gli interrogatori che mi erano state date dall'unità con cui lavoravo, cercando di capire cosa fosse legale e cosa non lo fosse. Secondo queste regole di ingaggio, era legale. Per cui, quando mi ordinavano di farlo dovevo farlo. Sa, per quanto riguarda quel che io ne pensavo, e se pensavo che fossero buone pratiche di interrogatorio, no, non lo credevo proprio. Non abbiamo mai ricavato alcuna informazione utile.
GOODMAN: A questo punto, quando lei si trovava là, vennero fuori le foto. O per lo meno cominciarono a circolare tra i soldati. Vide quelle foto?
LAGOURANIS: Vidi solo le foto che uscirono sulla stampa. Ero là a usare i cani proprio quando è scoppiato lo scandalo. Ma non credo che quelle foto circolassero tra i soldati. Voglio dire, io di certo non le ho viste prima che le mostrassero a 60 minutes.
GOODMAN: E quando le ha viste, e lei stesso era impegnato in quella pratica, quali furono i suoi pensieri?
LAGOURANIS: Credo che la mia prima reazione sia stata che si trattasse di mele marce, e questa era la linea ufficiale della Casa Bianca, e sa, è strano che non le avessi collegate con quello che facevamo noi. Usavamo metodi piuttosto violenti con i prigionieri. Avevo visto altre unità usare metodi severi, ma non li collegai allo scandalo. Era come se... non lo so, perché. Non lo so.
GOODMAN: Cosa intende per metodi piuttosto violenti?
LAGOURANIS: Be', eravamo un centro di detenzione militare, e ricevevamo i prigionieri da altre unità che arrestavano delle persone laggiù. Per esempio i Navy SEALS.
Quando interrogavano, i Navy SEALS usavano acqua ghiacciata per abbassare la temperatura del corpo del prigioniero e gli misuravano la temperatura per via rettale, per essere sicuri che non morisse. Io questo non l'ho visto, ma mi è stato detto da molti, moltissimi prigionieri che erano stati nel campo dei SEAL, e l'ho anche sentito raccontare da una guardia che lavorava da noi, e che era stata presente a un interrogatorio dei SEAL.
GOODMAN: Dov'era il campo dei SEAL?
LAGOURANIS: Nello stesso posto. All'aeroporto di Mosul, ma io personalmente non ci sono mai entrato.
GOODMAN: Voi usavate l'ipotermia negli interrogatori?
LAGOURANIS: Sì. Sì, usavamo tantissimo l'ipotermia. Era molto feddo a Mosul, e così... e inoltre pioveva tanto, e così potevamo tener fuori i prigionieri, che indossavano tute di poliestere e si bagnavano e congelavano. Ma noi non inducevamo l'ipotermia con l'acqua gelata come facevano i SEALS. Però, sa, forse i SEALS lo facevano meglio di noi, perché controllavano perfino la temperatura con il termometro, mentre noi non lo facevamo.
[...]
GOODMAN: Ha detto che è stato coinvolto in abusi. Quali sono stati gli abusi più eclatanti?
LAGOURANIS: Be', come ho detto, a Mosul ho usato i cani e l'ipotermia, ho usato la privazione del sonno, l'isolamento, la manipolazione della dieta, sa, tutto questo è abuso secondo il manuale e la dottrina dell'esercito e certamente secondo le convenzioni di Ginevra.
[...]
GOODMAN: Lei è stato a Fallujah?
LAGOURANIS: Sì.
GOODMAN: Cosa faceva laggiù?
LAGOURANIS: Il mio compito a Fallujah consisteva nel perquisire i vestiti e le tasche dei cadaveri che raccoglievamo dalle strade, e che poi portavamo in un magazzino; io li perquisivo e cercavo di identificarli e di raccogliere qualsiasi informazione avessero addosso.
GOODMAN: Perché lei parlava l'arabo?
LAGOURANIS: Sì. Sì. Ecco perché mi ci mandarono.
GOODMAN: Quanti cadaveri ha perquisito?
LAGOURANIS: 500.
GOODMAN: Può parlare di quest'esperienza?
LAGOURANIS: Certo. Voglio dire, sa, ovviamente fu tremendo, con questi corpi che erano stati sulla strada sotto il sole per giorni, qualche volta per dieci giorni prima che li raccogliessimo. Erano stati mangiati dai cani, dagli uccelli e dai vermi, e l'esercito pensava... veramente non era l'esercito, ma era il Dipartimento della Difesa che aveva mandato questi strumenti elettronici per fare la scansione della retina e prendere le impronte digitali, ma era impossibile perché questa gente... non aveva più gli occhi. Non aveva più delle impronte digitali.
E non potevamo neanche seppellire i prigionieri, perché non si era ancora deciso come farlo, e così venivano ammucchiati nel magazzino a Fallujah, dove mangiavamo e dormivamo, in compagnia di tutti quei cadaveri.
GOODMAN: Cosa significa che non avevano occhi, che non avevano impronte digitali? Erano corpi carbonizzati?
LAGOURANIS: Be', certo, alcuni di essi erano carbonizzati. Voglio dire, alcuni non avevano più le braccia, ed erano così decomposti che gli occhi non c'erano più. Erano rimaste le orbite vuote, con dentro i vermi.
GOODMAN: Ultimamente abbiamo fatto un servizio sull'uso del fosforo bianco, “Whiskey Pete,” come credo sia chiamato dai soldati. È appena uscito un documentario che parla di quest'uso, non per illuminare il cielo, ma per bruciare, carbonizzare le vittime di Fallujah quando lei si trovava là. Lei ha visto qualcosa?
LAGOURANIS: No, non che io sappia. Non lo so. Ne ho sentito parlare solo recentemente, probabilmente da voi, ma non ne so niente.
GOODMAN: Lei dice di aver dormito in questo magazzino con i cadaveri?
LAGOURANIS: Sì.
GOODMAN: Può parlarne? E chi pensa fossero quei morti?
LAGOURANIS: Be', molti di loro erano sicuramente insorti. Sa, molti erano armati. Avevano bombe a mano, giubbotti antiproiettili. Ma tanti di loro non lo erano. C'erano donne e bambini, vecchi, ragazzi. E quindi è difficile dirlo. Penso che inizialmente bisognasse trovare combattenti stranieri. Si doveva provare che c'erano molti combattenti stranieri, a Fallujah. Ecco quindi perché eravamo lì. Solo che molti di loro non avevano documenti identificativi. Forse la metà aveva documenti identificativi, e i documenti stranieri erano pochissimi. C'erano alcuni che lavoravano con me che cercavano di inventarsi le informazioni, per esempio se addosso a una persona si trovava un Corano e quel Corano era stato stampato in Algeria, quella persona veniva identificata come algerina. Oppure c'erano uomini vestiti con camicia bianca e pantaloni kaki e allora si diceva che era la divisa di Hezbollah e li si classificava come libanesi, e questo era ridicolo, ma sa...
GOODMAN: E lei cosa diceva?
LAGOURANIS: Be', ero solo uno specialista, e così ho cercato di dire qualcosa al sergente responsabile, ma, sa, mi sono preso una strigliata e mi ha rimesso al mio posto. Disse, questo non spetta a te. Io dico che è libanese, ed è libanese. Punto.
GOODMAN: E le donne e i bambini?
LAGOURANIS: Non lo so. Non lo so proprio. Ho trovato bambini completamente bruciati. Non lo so. Non so cosa dire. C'erano donne e bambini.
GOODMAN: Ne avete discusso?
LAGOURANIS: No. Semplicemente ne prendevamo atto. Oh, Dio, un bambino morto. Una donna. Non ne parlavamo.
GOODMAN: Quante persone lei stima siano morte a Fallujah?
LAGOURANIS: Non ne ho idea. Non lo so. Ho sentito dai marines la cifra di 10.000, ma non so se è esatta.
GOODMAN: E sarebbe in grado di dire quanti di questi erano ciò che l'esercito americano chiama "insorti"?
LAGOURANIS: Penso che probabilmente... dei 500 corpi che abbiamo trovato, direi che circa il 20% aveva con sé delle armi. Ma non lo so. Immagino che la maggior parte delle persone che non intendevano restare a combattere abbiano lasciato Fallujah. Ma non sono in grado di giudicare.
[...]
A un certo punto dell'intervista Lagouranis afferma di aver visto le peggiori prove di abusi e torture a North Babel, tra l'agosto e l'ottobre del 2004 e quindi molto dopo lo scandalo di Abu Ghraib. Le tattiche violente non venivano impiegate in prigione, ma i marines entravano nelle case e torturavano sul posto i sospetti. Lì succedeva molto di peggio: spaccavano ossa, schiacciavano piedi, ustionavano.
GOODMAN: Può ripetere quello che vide a Babel? Quali erano le unità coinvolte, e cosa facevano?
LAGOURANIS: Be', io interrogavo nel carcere della Base operativa avanzata, CALSU. Da me arrivavano i prigionieri che erano stati arrestati dai marines Force Recon, e loro - ogni volta che i Force Recon andavano a fare un'incursione, tornavano con prigionieri pieni di lividi e con le ossa rotte, a volte con delle bruciature. Erano molto violenti con questa gente, e io chiedevo ai prigionieri cos'era successo, sa, da dove venivano quelle ferite, e loro mi dicevano che era successo dopo la cattura, quando erano legati e ammanettati e interrogati dai marines.
GOODMAN: E cosa raccontavano?
LAGOURANIS: Erano presi a pugni, a calci, sa, colpiti con il retro di un'accetta. Uno fu costretto a sedersi sul tubo di scarico di un humvee. Io controllavo queste storie con quelle dei loro compagni, ed erano coerenti. Così, tendevo a credere a quello che mi raccontavano.
GOODMAN: Cosa significa che uno fu costretto a sedersi sul tubo di scarico di un humvee? Che cosa gli accadde?
LAGOURANIS: Be', aveva una vescica gigantesca, un'ustione di terzo grado sulla parte posteriore della gamba.
GOODMAN: Perché era bollente?
LAGOURANIS: Esatto.
GOODMAN: E a quel punto, lei doveva interrogarli?
LAGOURANIS: Esatto. Io dovevo interrogarli. Proprio così.
GOODMAN: E come faceva, con queste persone di fronte a lei con le ossa rotte, prese a calci e a pugni, ustionate?
LAGOURANIS: Be', sa, a quel punto dell'anno avevo già rinunciato a usare tattiche violente, e così cercavo di conquistarmi la loro fiducia, dicendo loro che li avrei aiutati ad uscire di lì, cosa che all'epoca invece non ero in grado di fare perché tutti quelli che venivano arrestati, colpevoli e innocenti, finivano ad Abu Ghraib comunque. Ma...
GOODMAN: Che intende dire?
LAGOURANIS: Be', sa, gli addetti agli interrogatori - io sono il solo che parla con questo tizio. Non ci sarà un ufficiale, a parlare con lui. La persona che decide se lasciarli andare o tenerli non è quella che li interroga. E così la mia raccomandazione dovrebbe valere qualcosa, ma non era così alla Base operativa avanzata CALSU. Praticamente per loro chiunque arrivasse lì era un terrorista, era colpevole e doveva finire ad Abu Ghraib.
GOODMAN: E lei a quali conclusioni giunse?
LAGOURANIS: Che un 98% di queste persone non aveva fatto niente. Voglio dire, prendevano la gente per i motivi più stupidi come - c'è questo tizio che hanno preso, lo hanno fermato a un posto di blocco, un controllo di routine, e aveva una vanga nel bagagliaio e un cellulare in tasca. Allora dissero, ecco, puoi usare la vanga per seppellire una bomba e usare il cellulare per farla esplodere. Non aveva esplosivi, in macchina, non aveva armi, niente di niente. Non avevano alcun motivo per credere che fosse un terrorista tranne la vanga e il cellulare. Questo era il genere di persone che arrestavano.
[...]
GOODMAN: C'è un termine del linguaggio militare ma anche di quello civile, Tony: "coraggio morale". Può dirci quale significato ha per lei?
LAGOURANIS: Non so proprio se sono la persona giusta per parlarne. Non lo so.
GOODMAN: Be'..
LAGOURANIS: Sì, mi sento come se non ne avessi avuto abbastanza, laggiù, capisce? Non lo so.
GOODMAN: Quando si guarda indietro, adesso, cosa vorrebbe aver fatto?
LAGOURANIS: Sa, siamo stati addestrati per condurre interrogatori in accordo con le Convenzioni di Ginevra con prigionieri di guerra nemici. E ci siamo addestrati con dei giochi di ruolo in cui usavamo un prigioniero di guerra convenzionale e anche un terrorista, e li trattavamo entrambi come se fossero prigionieri di guerra nemici. Non ci era consentito passare il limite. Quindi, non so perché ho permesso all'esercito di ordinarmi di andare contro il mio addestramento, contro il mio buon senso e contro i miei principi morali. Ma l'ho fatto. Avrei potuto semplicemente dire di no.
Fonte: Democracy Now!
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Perché voi valete:
Palette Model'Eyes con quattro ombretti e una base per attenuare le occhiaie e illuminare lo sguardo, mascara Extreme ("extension immediata"), fondotinta Sensual Clone, fard Joues Contrast rosa, sulle labbra Wet Cream Lipgloss n° 13.
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sabato, novembre 19, 2005
Pelle e capelli scuri
I soldati americani in Iraq hanno ucciso finora ben 13 giornalisti dall'inizio dell'invasione e ne stanno tenendo cinque in arresto senza che siano stati incriminati.
I militari dicono che è loro intenzione prevenire l'uccisione di civili, ma che la natura della guerra costringe i soldati a reagire rapidamente per proteggersi. Quindi l'atteggiamento trigger happy delle truppe sarebbe giustificato (boh, questa mi ricorda qualcosa).
Nell'agosto del 2003 gli americani uccisero Mazen Dana, un noto cameraman palestinese che lavorava per la Reuters e che aveva ottenuto il permesso di fare delle riprese all'esterno della prigione di Abu Ghraib. L'inchiesta militare che ne seguì giunse alla conclusione che il soldato che aveva sparato aveva agito ragionevolmente: aveva infatti visto un uomo "con pelle e capelli scuri" e aveva scambiato la telecamera per un lanciagranate.
Ragionevole.
Un altro problema è costituito dai giornalisti imprigionati, attualmente cinque. Il tenente colonnello Rudisill, addetto alle pubbliche relazioni della forza multinazionale in Iraq, ha spiegato che la coalizione ha l'autorità di tenere in arresto chiunque sia sospettato di costituire una minaccia per la sicurezza, e che i detenuti non hanno diritto a un avvocato finché non vengono incriminati: cosa che può richiedere dei mesi e anche non verificarsi mai. Quindi, se vieni arrestato e non incriminato non hai diritto a un avvocato. Questi si prendono da 90 a 120 giorni per decidere se incriminarti o meno. Tre-quattro mesi ad Abu Ghraib sono assicurati, in ogni caso. Poi al limite ti rilasciano perché non sei colpevole. Che metodo.
Ali Mashhadani è stato arrestato in agosto: durante una perquisizione le truppe americane hanno trovato nella sua videocamera del materiale sugli insorti. È finito ad Abu Ghraib senza neanche sapere perché, niente avvocati e niente visite. Samir Mohammed Noor, arrestato in circostanze simili dai soldati iracheni, è stato portato ad Abu Ghraib dentro una coperta, per come lo avevano conciato. Se c'è qualcosa che l'esercito iracheno impara in fretta, sono le cattive lezioni.
Fonte: "Journalists' perils in Iraq highlighted", The Boston Globe.
I militari dicono che è loro intenzione prevenire l'uccisione di civili, ma che la natura della guerra costringe i soldati a reagire rapidamente per proteggersi. Quindi l'atteggiamento trigger happy delle truppe sarebbe giustificato (boh, questa mi ricorda qualcosa).
Nell'agosto del 2003 gli americani uccisero Mazen Dana, un noto cameraman palestinese che lavorava per la Reuters e che aveva ottenuto il permesso di fare delle riprese all'esterno della prigione di Abu Ghraib. L'inchiesta militare che ne seguì giunse alla conclusione che il soldato che aveva sparato aveva agito ragionevolmente: aveva infatti visto un uomo "con pelle e capelli scuri" e aveva scambiato la telecamera per un lanciagranate.
Ragionevole.
Un altro problema è costituito dai giornalisti imprigionati, attualmente cinque. Il tenente colonnello Rudisill, addetto alle pubbliche relazioni della forza multinazionale in Iraq, ha spiegato che la coalizione ha l'autorità di tenere in arresto chiunque sia sospettato di costituire una minaccia per la sicurezza, e che i detenuti non hanno diritto a un avvocato finché non vengono incriminati: cosa che può richiedere dei mesi e anche non verificarsi mai. Quindi, se vieni arrestato e non incriminato non hai diritto a un avvocato. Questi si prendono da 90 a 120 giorni per decidere se incriminarti o meno. Tre-quattro mesi ad Abu Ghraib sono assicurati, in ogni caso. Poi al limite ti rilasciano perché non sei colpevole. Che metodo.
Ali Mashhadani è stato arrestato in agosto: durante una perquisizione le truppe americane hanno trovato nella sua videocamera del materiale sugli insorti. È finito ad Abu Ghraib senza neanche sapere perché, niente avvocati e niente visite. Samir Mohammed Noor, arrestato in circostanze simili dai soldati iracheni, è stato portato ad Abu Ghraib dentro una coperta, per come lo avevano conciato. Se c'è qualcosa che l'esercito iracheno impara in fretta, sono le cattive lezioni.
Fonte: "Journalists' perils in Iraq highlighted", The Boston Globe.
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mercoledì, novembre 16, 2005
Come Mogadiscio
Sciiti torturano sunniti: in una prigione segreta, al Ministero degli Interni iracheno, sono stati scoperti 173 prigionieri accusati di "terrorismo" e rapimenti. Al solito: botte, fame, elettricità, buio e paura.
Baghdad "sta diventando sempre più simile a Mogadiscio, ogni giorno che passa", ha commentato un ufficiale americano.
Anche questa ci mancava.
Non è bella, la democrazia?
-------------------
Make-up: per un trucco notturno, un tratto di Pure Color Eyeliner nella tonalità pervinca, sulle ciglia un tocco di mascara Magnascopic blu scuro, fondotinta Individualist matte beige n° 6.
Baghdad "sta diventando sempre più simile a Mogadiscio, ogni giorno che passa", ha commentato un ufficiale americano.
Anche questa ci mancava.
Non è bella, la democrazia?
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martedì, novembre 15, 2005
I leoni di Uday
Due iracheni arrestati nel loro paese dalle forze di occupazione americane ma mai accusati di alcun crimine hanno denunciato il trattamento subito.
In particolare, i soldati americani:
– hanno finto di volerli giustiziare, mettendoli al muro e puntando loro addosso i fucili. (ce l'ho)
– li hanno umiliati durante gli interrogatori in varie strutture di detenzione. (ce l'ho)
– li hanno messi in una gabbia di leoni. (leoni? mi manca)
Sherzad Khalid, 35 anni, e Thahe Sabar, 37, dicono di essere stati picchiati brutalmente durante i vari mesi di prigionia trascorsi in posti come Camp Bucca, Abu Ghraib e un'altra struttura di detenzione che si trova all'aeroporto di Baghdad. Le torture hanno avuto luogo perché i due non erano in grado di dire dove si nascondesse Saddam Hussein e di parlare delle armi di distruzione di massa in Iraq. Quando a Sabar fu chiesto delle armi di distruzione di massa e del nascondiglio di Saddam, lui ovviamente si mise a ridere; ovviamente lo picchiarono più forte.
Entrambi uomini d'affari, erano stati arrestati il 17 luglio 2003. Entrambi erano favorevoli all'invasione degli Stati Uniti.
"Per me quello è stato un periodo tremendo," ha detto Khalid, raccontando che fu spinto per ben tre volte dentro una gabbia di leoni in uno dei palazzi presidenziali di Baghdad, prima di finire contro il muro per una finta esecuzione. "Mi chiedevo se l'esercito americano potesse davvero comportarsi in questo modo."
Adesso fanno causa a Rumsfeld e agli alti comandi militari in Iraq.
Fonte: "Abuse Included Use of Lions, Iraqis Allege", Washington Post.
Altre informazioni sul sito dell'American Civil Liberties Union:
Thahe Mohammed Sabar, sposato con quattro figli, è stato in carcere per circa sei mesi e sottoposto a torture e a trattamento crudele e degradante. Adesso ha un problemi nervosi e ci sono momenti in cui perde il controllo, trema e piange.
È stato frequentemente e brutalmente percosso con fucili e armi elettriche. È stato legato a una recinzione e lasciato molte ore a una temperatura di oltre 48° C.
Durante una delle finte fucilazioni, lui ed altri prigionieri hanno perso il controllo della vescica, e sono stati derisi e umiliati. I soldati li hanno minacciati di spedirli a Guantánamo, dove sarebbero morti. Poi: gabbia di leoni, privazione del cibo e dell'acqua, somministrazione di razioni di cibo marcio, divieto di andare in bagno.
Quando l'hanno rilasciato, Sabar è tornato ad Abu Ghraib perché gli restituissero i suoi effetti personali e per chiedere notizie di un amico e di un socio che erano ancora prigionieri. L'hanno rinchiuso di nuovo. Poi l'hanno lasciato andare, senza restituirgli nulla.
Sherzad Kamal Khalid è sposato con quattro figli. Ha fatto due mesi di prigionia. È stato sottoposto a violente percosse e altri crudeli abusi. Il personale militare statunitense gli infliggeva regolarmente e intenzionalmente abusi fisici. Lo hanno preso a calci e pugni per ore dopo averlo legato e incappucciato, terrorizzandolo e ferendolo con colpi a caso e inaspettati.
Poi, minacce di morte e finte esecuzioni. Privazione di sonno, cibo e acqua. Somministrazione di cibo guasto. Divieto di andare in bagno. A un certo punto è stato costretto a restare per alcuni giorni in una "tenda del silenzio", dove veniva picchiato quando dava segno di addormentarsi.
A più di un anno dal rilascio, soffre ancora di ulcere gastriche per una malattia non curata durante la prigionia. Soffre anche di una depressione grave e di incubi.
Khalid e Saber continuano a non saper nulla di armi di distruzioni di massa o di dove cavolo si nascondesse il Saddam.
In compenso adesso sanno dove Uday teneva i grandi felini.
In particolare, i soldati americani:
– hanno finto di volerli giustiziare, mettendoli al muro e puntando loro addosso i fucili. (ce l'ho)
– li hanno umiliati durante gli interrogatori in varie strutture di detenzione. (ce l'ho)
– li hanno messi in una gabbia di leoni. (leoni? mi manca)
Sherzad Khalid, 35 anni, e Thahe Sabar, 37, dicono di essere stati picchiati brutalmente durante i vari mesi di prigionia trascorsi in posti come Camp Bucca, Abu Ghraib e un'altra struttura di detenzione che si trova all'aeroporto di Baghdad. Le torture hanno avuto luogo perché i due non erano in grado di dire dove si nascondesse Saddam Hussein e di parlare delle armi di distruzione di massa in Iraq. Quando a Sabar fu chiesto delle armi di distruzione di massa e del nascondiglio di Saddam, lui ovviamente si mise a ridere; ovviamente lo picchiarono più forte.
Entrambi uomini d'affari, erano stati arrestati il 17 luglio 2003. Entrambi erano favorevoli all'invasione degli Stati Uniti.
"Per me quello è stato un periodo tremendo," ha detto Khalid, raccontando che fu spinto per ben tre volte dentro una gabbia di leoni in uno dei palazzi presidenziali di Baghdad, prima di finire contro il muro per una finta esecuzione. "Mi chiedevo se l'esercito americano potesse davvero comportarsi in questo modo."
Adesso fanno causa a Rumsfeld e agli alti comandi militari in Iraq.
Fonte: "Abuse Included Use of Lions, Iraqis Allege", Washington Post.
Altre informazioni sul sito dell'American Civil Liberties Union:
Thahe Mohammed Sabar, sposato con quattro figli, è stato in carcere per circa sei mesi e sottoposto a torture e a trattamento crudele e degradante. Adesso ha un problemi nervosi e ci sono momenti in cui perde il controllo, trema e piange.
È stato frequentemente e brutalmente percosso con fucili e armi elettriche. È stato legato a una recinzione e lasciato molte ore a una temperatura di oltre 48° C.
Durante una delle finte fucilazioni, lui ed altri prigionieri hanno perso il controllo della vescica, e sono stati derisi e umiliati. I soldati li hanno minacciati di spedirli a Guantánamo, dove sarebbero morti. Poi: gabbia di leoni, privazione del cibo e dell'acqua, somministrazione di razioni di cibo marcio, divieto di andare in bagno.
Quando l'hanno rilasciato, Sabar è tornato ad Abu Ghraib perché gli restituissero i suoi effetti personali e per chiedere notizie di un amico e di un socio che erano ancora prigionieri. L'hanno rinchiuso di nuovo. Poi l'hanno lasciato andare, senza restituirgli nulla.
Sherzad Kamal Khalid è sposato con quattro figli. Ha fatto due mesi di prigionia. È stato sottoposto a violente percosse e altri crudeli abusi. Il personale militare statunitense gli infliggeva regolarmente e intenzionalmente abusi fisici. Lo hanno preso a calci e pugni per ore dopo averlo legato e incappucciato, terrorizzandolo e ferendolo con colpi a caso e inaspettati.
Poi, minacce di morte e finte esecuzioni. Privazione di sonno, cibo e acqua. Somministrazione di cibo guasto. Divieto di andare in bagno. A un certo punto è stato costretto a restare per alcuni giorni in una "tenda del silenzio", dove veniva picchiato quando dava segno di addormentarsi.
A più di un anno dal rilascio, soffre ancora di ulcere gastriche per una malattia non curata durante la prigionia. Soffre anche di una depressione grave e di incubi.
Khalid e Saber continuano a non saper nulla di armi di distruzioni di massa o di dove cavolo si nascondesse il Saddam.
In compenso adesso sanno dove Uday teneva i grandi felini.
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domenica, novembre 13, 2005
La cura dell'acqua e altre utili torture
Non credo che tra i gentili lettori e commentatori di questo blog ci sia un fanatico abbonato del Wall Street Journal, e così ho pensato di segnalarvi l'editoriale di sabato (io ci sono arrivata via War and Piece). Sappiamo che esistono entusiastici sostenitori della tortura per il bene della sicurezza nazionale, ma questo articolo è una vera apologia dei metodi disinvolti. Anzi, per usare le parole di Laura Rozen di War and Piece, quello che colpisce è che "il contenuto è tremendo, ma è scritto nel tipico stile 'siamo ragionevoli, contrariamente a quello che vi hanno insegnato in chiesa il tipo di tortura che facciamo noi è l'unico sistema per vincere una guerra.' Onestamente, questo articolo dovrebbe finire sui libri di storia, come le foto dei linciaggi, perché segna un momento bassissimo della storia americana."
Insomma, vediamo se siete d'accordo:
“Se Osama bin Laden è vivo e sta cercando segni di cedimento nella volontà degli Stati Uniti di combattere la guerra contro il terrorismo, non deve far altro che assistere al dibattito nazionale sui metodi impiegati per interrogare i suoi compatrioti e gli altri che intendono farci del male.
Dopo l'11 settembre non è irrealistico ipotizzare uno scenario in cui la nostra capacità di ottenere informazioni da un terrorista sia l'unico sistema per prevenire un attacco bioterroristico o perfino la distruzione nucleare di una città americana. E sappiamo che le informazioni ottenute dalla mente dell'11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, e da altre persone hanno contribuito a prevenire ulteriori attacchi sul suolo americano.
E tuttavia, secondo coloro che criticano l'amministrazione Bush, le tecniche d'interrogatorio aggressive e stressanti usate con successo su gente come KSM [sic] hanno posto gli Stati Uniti sulla china pericolosa della 'tortura' diffusa e indiscriminata e degli abusi di Abu Ghraib. John McCain (R., Arizona) ha proposto al Senato un emendamento che proibirebbe tutte le tecniche di interrogatorio stressanti. Il pericolo per la sicurezza nazionale è che questo farebbe capire a tutti i terroristi del mondo che non hanno assolutamente niente da temere se mantengono il silenzio una volta caduti nelle mani degli Stati Uniti.
L'Emendamento McCain si basa sull'ipotesi che le tecniche usate dalla CIA per interrogare i pezzi grossi di al Qaeda siano in qualche modo 'migrate' in Iraq, causando gli abusi di Abu Ghraib. Ma l'ironia è che il Congresso sta proponendo questa eccessiva reazione riparatrice proprio mentre emergono prove schiaccianti che dimostrano la falsità di questa interpretazione.
L'ex segretario alla difesa Jim Schlesinger ha condotto più di dieci inchieste sugli abusi sui detenuti, e lo scorso anno ha spiegato che gli abusi di Abu Ghraib erano dovuti semplicemente al comportamento sadico di riservisti malamente addestrati assegnati ai 'turni di notte'. Le vittime non erano nemmeno obiettivi dell'intelligence. Se questi argomenti non sono sufficienti, abbiamo ora i verdetti delle nove corti marziali che hanno punito i soldati colpevoli di Abu Ghraib, nessuno dei quali è stato in grado di dimostrare l'affermazione che gli abusi avessero qualcosa a che fare con gli interrogatori.
Non stiamo dicendo che non ci sono stati abusi sui detenuti nella guerra al terrorismo - ce ne sono stati probabilmente centinaia. Ma ci sono stati anche più di 70.000 prigionieri. In altre parole, la percentuale degli abusi è positiva se confrontata con il sistema carcerario civile statunitense. Ed è migliore della percentuale relativa a conflitti del passato come il Vietnam e la seconda guerra mondiale.
Due fondamentali fonti di confusione sono costituite da un travisamento delle Convenzioni di Ginevra e da un uso abborracciato (o intenzionalmente distorto) della parola 'tortura'. Le Convenzioni di Ginevra sono molto rigide su quali siano i detenuti ai quali va applicato lo status e la protezione di 'prigionieri di guerra'. Per esempio, devono aver combattuto in uniforme e aver mostrato un certo rispetto per le leggi della guerra, come quella di evitare attacchi ai civili.
Inoltre, ogni forma di manipolazione, comprese le modifiche in senso positivo come il miglioramento delle razioni, è proibita negli interrogatori di legittimi prigionieri di guerra. Concedere ai guerriglieri e ai terroristi lo status di prigionieri di guerra sarebbe una forma di disarmo unilaterale, e, cosa peggiore, legittimerebbe la loro condotta.
Per quanto riguarda la 'tortura', è semplicemente perverso mettere insieme la amputazioni e le elettroesecuzioni che Saddam infliggeva ad Abu Ghraib con gli abusi minori commessi da alcune canaglie tra i soldati americani e tanto meno con le tecniche di interrogatorio autorizzate dagli Stati Uniti. Nessuno ha ancora dimostrato concretamente che qualcosa di simile alla 'tortura' sia stato sanzionato dall'esercito o dal governo americano. Le 'posizioni di stress' che sono state consentite (come portare un cappuccio, l'esposizione al caldo e al freddo, e il raramente autorizzato waterboarding, che induce una sensazione di soffocamento) sono tutte tecniche psicologiche intese a spezzare la resistenza del detenuto."
E continua, ma direi che può bastare per farsi un'idea senza esser costretti a dare di stomaco.
Ora, in cosa consiste il "raramente autorizzato waterboarding"? Andrew Sullivan rimanda alla pagina di Wikipedia, che qui sintetizzo.
Sembrano esistere diverse varietà di tortura note con il nome di waterboarding. La prima di queste va anche sotto il nome di cura dell'acqua. La cura dell'acqua consiste nel legare il soggetto a una sedia, coprirgli la faccia con uno straccio e versarci sopra dell'acqua. Il soggetto ha la sensazione di annegare. Una variante consiste nel versargli dell'acqua in gola stando ben attenti a non farlo annegare ma facendo in modo che ne abbia l'impressione.
La seconda forma di waterboarding prevede che il soggetto sia legato a una tavola e calato in una tinozza piena d'acqua, dove deve credere che l'annegamento è imminente. Poi lo si solleva e lo si rianima. Se necessario si ripete il processo. La tortura dovrebbe essere più psicologica che fisica, poiché la vittima è portata a credere di essere sul punto di morire. Questo rafforza il controllo del torturatore e fa sì che la vittima sperimenti un terrore mortale.
Poi c'è la tortura dell'acqua che veniva riservata alle donne accusate di stregoneria: le presunte streghe venivano immerse nell'acqua e tirate fuori dopo un po', quando erano in grado di confessare. Se confessavano, venivano uccise. Se non confessavano, venivano rimesse in acqua. Quindi la vittima era libera o di annegare o di farsi condannare a morte.
Il waterboarding attualmente praticato richiede che si leghi la vittima a una tavola in modo che la testa sia più bassa rispetto ai piedi per impedire qualsiasi movimento. Si tiene uno straccio sulla faccia del torturato, e ci si versa sopra dell'acqua. La respirazione diventa difficile e la vittima avrà paura di morire per asfissia; ma è relativamente difficile aspirare una grande quantità d'acqua, perché i polmoni si trovano più in alto rispetto alla bocca, e se i torturatori sono esperti è difficile che la vittima muoia.
Insomma, vediamo se siete d'accordo:
“Se Osama bin Laden è vivo e sta cercando segni di cedimento nella volontà degli Stati Uniti di combattere la guerra contro il terrorismo, non deve far altro che assistere al dibattito nazionale sui metodi impiegati per interrogare i suoi compatrioti e gli altri che intendono farci del male.
Dopo l'11 settembre non è irrealistico ipotizzare uno scenario in cui la nostra capacità di ottenere informazioni da un terrorista sia l'unico sistema per prevenire un attacco bioterroristico o perfino la distruzione nucleare di una città americana. E sappiamo che le informazioni ottenute dalla mente dell'11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, e da altre persone hanno contribuito a prevenire ulteriori attacchi sul suolo americano.
E tuttavia, secondo coloro che criticano l'amministrazione Bush, le tecniche d'interrogatorio aggressive e stressanti usate con successo su gente come KSM [sic] hanno posto gli Stati Uniti sulla china pericolosa della 'tortura' diffusa e indiscriminata e degli abusi di Abu Ghraib. John McCain (R., Arizona) ha proposto al Senato un emendamento che proibirebbe tutte le tecniche di interrogatorio stressanti. Il pericolo per la sicurezza nazionale è che questo farebbe capire a tutti i terroristi del mondo che non hanno assolutamente niente da temere se mantengono il silenzio una volta caduti nelle mani degli Stati Uniti.
L'Emendamento McCain si basa sull'ipotesi che le tecniche usate dalla CIA per interrogare i pezzi grossi di al Qaeda siano in qualche modo 'migrate' in Iraq, causando gli abusi di Abu Ghraib. Ma l'ironia è che il Congresso sta proponendo questa eccessiva reazione riparatrice proprio mentre emergono prove schiaccianti che dimostrano la falsità di questa interpretazione.
L'ex segretario alla difesa Jim Schlesinger ha condotto più di dieci inchieste sugli abusi sui detenuti, e lo scorso anno ha spiegato che gli abusi di Abu Ghraib erano dovuti semplicemente al comportamento sadico di riservisti malamente addestrati assegnati ai 'turni di notte'. Le vittime non erano nemmeno obiettivi dell'intelligence. Se questi argomenti non sono sufficienti, abbiamo ora i verdetti delle nove corti marziali che hanno punito i soldati colpevoli di Abu Ghraib, nessuno dei quali è stato in grado di dimostrare l'affermazione che gli abusi avessero qualcosa a che fare con gli interrogatori.
Non stiamo dicendo che non ci sono stati abusi sui detenuti nella guerra al terrorismo - ce ne sono stati probabilmente centinaia. Ma ci sono stati anche più di 70.000 prigionieri. In altre parole, la percentuale degli abusi è positiva se confrontata con il sistema carcerario civile statunitense. Ed è migliore della percentuale relativa a conflitti del passato come il Vietnam e la seconda guerra mondiale.
Due fondamentali fonti di confusione sono costituite da un travisamento delle Convenzioni di Ginevra e da un uso abborracciato (o intenzionalmente distorto) della parola 'tortura'. Le Convenzioni di Ginevra sono molto rigide su quali siano i detenuti ai quali va applicato lo status e la protezione di 'prigionieri di guerra'. Per esempio, devono aver combattuto in uniforme e aver mostrato un certo rispetto per le leggi della guerra, come quella di evitare attacchi ai civili.
Inoltre, ogni forma di manipolazione, comprese le modifiche in senso positivo come il miglioramento delle razioni, è proibita negli interrogatori di legittimi prigionieri di guerra. Concedere ai guerriglieri e ai terroristi lo status di prigionieri di guerra sarebbe una forma di disarmo unilaterale, e, cosa peggiore, legittimerebbe la loro condotta.
Per quanto riguarda la 'tortura', è semplicemente perverso mettere insieme la amputazioni e le elettroesecuzioni che Saddam infliggeva ad Abu Ghraib con gli abusi minori commessi da alcune canaglie tra i soldati americani e tanto meno con le tecniche di interrogatorio autorizzate dagli Stati Uniti. Nessuno ha ancora dimostrato concretamente che qualcosa di simile alla 'tortura' sia stato sanzionato dall'esercito o dal governo americano. Le 'posizioni di stress' che sono state consentite (come portare un cappuccio, l'esposizione al caldo e al freddo, e il raramente autorizzato waterboarding, che induce una sensazione di soffocamento) sono tutte tecniche psicologiche intese a spezzare la resistenza del detenuto."
E continua, ma direi che può bastare per farsi un'idea senza esser costretti a dare di stomaco.
Ora, in cosa consiste il "raramente autorizzato waterboarding"? Andrew Sullivan rimanda alla pagina di Wikipedia, che qui sintetizzo.
Sembrano esistere diverse varietà di tortura note con il nome di waterboarding. La prima di queste va anche sotto il nome di cura dell'acqua. La cura dell'acqua consiste nel legare il soggetto a una sedia, coprirgli la faccia con uno straccio e versarci sopra dell'acqua. Il soggetto ha la sensazione di annegare. Una variante consiste nel versargli dell'acqua in gola stando ben attenti a non farlo annegare ma facendo in modo che ne abbia l'impressione.
La seconda forma di waterboarding prevede che il soggetto sia legato a una tavola e calato in una tinozza piena d'acqua, dove deve credere che l'annegamento è imminente. Poi lo si solleva e lo si rianima. Se necessario si ripete il processo. La tortura dovrebbe essere più psicologica che fisica, poiché la vittima è portata a credere di essere sul punto di morire. Questo rafforza il controllo del torturatore e fa sì che la vittima sperimenti un terrore mortale.
Poi c'è la tortura dell'acqua che veniva riservata alle donne accusate di stregoneria: le presunte streghe venivano immerse nell'acqua e tirate fuori dopo un po', quando erano in grado di confessare. Se confessavano, venivano uccise. Se non confessavano, venivano rimesse in acqua. Quindi la vittima era libera o di annegare o di farsi condannare a morte.
Il waterboarding attualmente praticato richiede che si leghi la vittima a una tavola in modo che la testa sia più bassa rispetto ai piedi per impedire qualsiasi movimento. Si tiene uno straccio sulla faccia del torturato, e ci si versa sopra dell'acqua. La respirazione diventa difficile e la vittima avrà paura di morire per asfissia; ma è relativamente difficile aspirare una grande quantità d'acqua, perché i polmoni si trovano più in alto rispetto alla bocca, e se i torturatori sono esperti è difficile che la vittima muoia.
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sabato, novembre 12, 2005
Lo possiamo torturare?
Quanto tempo ci vorrà al procuratore speciale Patrick Fitzgerald per presentare le prove contro Lewis "Scooter" Libby, per scoprire se ha mentito per coprire le proprie azioni o quelle di altri alla Casa Bianca, per convincere i testimoni a parlare? Tanto.
Linwood Barclay del Toronto Star avanza la sua modesta proposta:
"Fitzgerald non potrebbe attaccare un po' di elettrodi al torace di Libby e tirar su i volt? Alcuni di voi troveranno questa mia posizione un po' estrema, ma se non ho preso una cantonata questo è esattamente il genere di cose che incontrano il favore del superiore di Libby, il vicepresidente Dick Cheney."[...]
"Non fraintendetemi. Non sto dicendo che il vecchio Scooter è un terrorista. Non me lo vedo a legarsi in vita della dinamite e a salire su un autobus. Insomma, guardate i completi eleganti che indossa. Chi vorrebbe rovinare dei vestiti così? Però lasciar filtrare il nome di un agente della CIA è una questione di sicurezza nazionale. E se anche un solo funzionario degli Stati Uniti pensa che vada bene spifferare i nomi di agenti sotto copertura, o coprire quelli che pensano che vada bene, non è che poi tutti penseranno che è normale? Se Dick Cheney dice che bisogna torturare i sospetti terroristi per scoprire cosa sanno e che minaccia rappresentano per la sicurezza nazionale, perché dovrebbe opporsi all'uso degli stessi metodi sul suo ex collaboratore? E anche se Libby poi si rivela completamente innocente è comunque una bella scorciatoia per arrivare alla verità. Certo, alcuni repubblicani possono temere che Libby sotto tortura si lasci sfuggire qualcosa, o che che faccia dei nomi, giusto per salvarsi dal dolore. Potrebbe perfino inventarsi delle cose, confessare crimini che non ha commesso, e solo per compiacere i tizi che gli infilano il bambù sotto le unghie o fanno su e giù con l'interruttore della corrente. Ma di sicuro Dick Cheney non sarebbe preoccupato. Se Cheney pensasse che la tortura è un metodo inaffidabile per ottenere la verità, non cercherebbe di ottenere un'esenzione da leggi che vietano il trattamento 'crudele, inumano o degradante' dei sospetti criminali.
L'unico problema è: chi dovrebbe farlo? Se Fitzgerald si sente a disagio a torturare in prima persona, ci sono vari paesi stranieri in cui spedire Libby. Alla Casa Bianca potrebbe controllare lui stesso la lista completa. Ma come dicevo, è solo un'idea. Forse Cheney rilascerebbe una dichiarazione: 'Sono così dedito alla tortura per estorcere informazioni che sono disposto, come gesto di buona volontà, a farla praticare sul mio ex capo di gabinetto.' Allora sarei disposto a credergli."
Linwood Barclay del Toronto Star avanza la sua modesta proposta:
"Fitzgerald non potrebbe attaccare un po' di elettrodi al torace di Libby e tirar su i volt? Alcuni di voi troveranno questa mia posizione un po' estrema, ma se non ho preso una cantonata questo è esattamente il genere di cose che incontrano il favore del superiore di Libby, il vicepresidente Dick Cheney."[...]
"Non fraintendetemi. Non sto dicendo che il vecchio Scooter è un terrorista. Non me lo vedo a legarsi in vita della dinamite e a salire su un autobus. Insomma, guardate i completi eleganti che indossa. Chi vorrebbe rovinare dei vestiti così? Però lasciar filtrare il nome di un agente della CIA è una questione di sicurezza nazionale. E se anche un solo funzionario degli Stati Uniti pensa che vada bene spifferare i nomi di agenti sotto copertura, o coprire quelli che pensano che vada bene, non è che poi tutti penseranno che è normale? Se Dick Cheney dice che bisogna torturare i sospetti terroristi per scoprire cosa sanno e che minaccia rappresentano per la sicurezza nazionale, perché dovrebbe opporsi all'uso degli stessi metodi sul suo ex collaboratore? E anche se Libby poi si rivela completamente innocente è comunque una bella scorciatoia per arrivare alla verità. Certo, alcuni repubblicani possono temere che Libby sotto tortura si lasci sfuggire qualcosa, o che che faccia dei nomi, giusto per salvarsi dal dolore. Potrebbe perfino inventarsi delle cose, confessare crimini che non ha commesso, e solo per compiacere i tizi che gli infilano il bambù sotto le unghie o fanno su e giù con l'interruttore della corrente. Ma di sicuro Dick Cheney non sarebbe preoccupato. Se Cheney pensasse che la tortura è un metodo inaffidabile per ottenere la verità, non cercherebbe di ottenere un'esenzione da leggi che vietano il trattamento 'crudele, inumano o degradante' dei sospetti criminali.
L'unico problema è: chi dovrebbe farlo? Se Fitzgerald si sente a disagio a torturare in prima persona, ci sono vari paesi stranieri in cui spedire Libby. Alla Casa Bianca potrebbe controllare lui stesso la lista completa. Ma come dicevo, è solo un'idea. Forse Cheney rilascerebbe una dichiarazione: 'Sono così dedito alla tortura per estorcere informazioni che sono disposto, come gesto di buona volontà, a farla praticare sul mio ex capo di gabinetto.' Allora sarei disposto a credergli."
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giovedì, novembre 10, 2005
Segnatevi questo link/Timeline on Iraq
Enigma America pubblica una cronologia del coinvolgimento americano in Iraq dall'inizio della guerra Iran-Iraq al mese di giugno 2005.
Via Crooks and Liars.
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martedì, novembre 01, 2005
Souvenir d'Abu Ghraib
Ciascuno dei cinquecentosessantacinque prigionieri liberati oggi da Abu Ghraib ha ricevuto:
1. una copia del Corano;
2. 25 dollari;
3. una maglietta per papà, con la scritta "Mio figlio è stato ad Abu Ghraib e mi ha portato solo questa maglietta del cavolo."
Va bene, l'ultima me la sono parzialmente inventata. La maglietta c'è, ma è bianca.
1. una copia del Corano;
2. 25 dollari;
3. una maglietta per papà, con la scritta "Mio figlio è stato ad Abu Ghraib e mi ha portato solo questa maglietta del cavolo."
Va bene, l'ultima me la sono parzialmente inventata. La maglietta c'è, ma è bianca.
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sabato, ottobre 08, 2005
Iraq, Baviera
Nella base USA di Hohenfels, in Germania, c'è Rusafa, una finta città irachena che è poi la versione bavarese del distretto orientale di Baghdad: qui, con tecniche simili a quelle dei giochi di ruolo, i soldati americani dovrebbero imparare a usare le armi della diplomazia e della negoziazione. Insomma, il passaggio è da quick-shooters a smooth-talkers: da "prima spara e poi chiedi" a "chiedi, chiedi, chiedi" fino allo sfinimento del finto sceicco.
"È come attaccar discorso con una ragazza al bar," è l'analogia usata dal Capitano Chris Kuzio del 1° Battaglione, 36mo Reggimento di Fanteria, per far capire ai suoi ragazzi come devono andare le cose con gli iracheni. La raccomandazione "è stata seguita entusiasticamente, visto che molti dei finti abitanti del villaggio erano attraenti ragazze bavaresi".
Fonte: Stars&Stripes
Dei giochi di ruolo a Hohenfels aveva parlato, tempo fa, un articolo ripreso da Peacelink che si richiama a sua volta a un pezzo apparso su La Stampa.
"È come attaccar discorso con una ragazza al bar," è l'analogia usata dal Capitano Chris Kuzio del 1° Battaglione, 36mo Reggimento di Fanteria, per far capire ai suoi ragazzi come devono andare le cose con gli iracheni. La raccomandazione "è stata seguita entusiasticamente, visto che molti dei finti abitanti del villaggio erano attraenti ragazze bavaresi".
Fonte: Stars&Stripes
Dei giochi di ruolo a Hohenfels aveva parlato, tempo fa, un articolo ripreso da Peacelink che si richiama a sua volta a un pezzo apparso su La Stampa.
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martedì, ottobre 04, 2005
Tattiche di umiliazione
I prigionieri al guinzaglio, le piramidi di corpi nudi, l'utilizzo di cani per terrorizzare i detenuti non sono mica forme di tortura. Sono tecniche di umiliazione, approvate e incoraggiate dai superiori. Il soldato Lynndie England dice che ad Abu Ghraib succedeva ben di peggio. Una notte per esempio le capitò di sentire urla da far gelare il sangue. "Non gridavano mai così quando li stavamo umiliando". Dice che quelle urla la perseguitano ancora, che riesce ancora a sentirle come se fosse successo ieri.
Invece le tecniche usate da lei e da altri (denudare, umiliare, ammanettare ai letti e al soffitto) erano tattiche per ammorbidire i detenuti prima degli interrogatori, normale amministrazione. E gli ufficiali della polizia militare la mattina dopo vedevano le foto e approvavano: "Oh, buon lavoro, continuate così!".
Ma quelle urla erano un'altra cosa, roba da far accapponare la pelle a una Lynndie England. Dice lei. Mi permetto di dubitare che sia ancora perseguitata dal ricordo.
Altre 87 fotografie di abusi e torture a Abu Ghraib saranno presto rese pubbliche per decisione di un giudice federale dopo il ricorso dell'American Civil Liberties Union. Ma il Dipartimento della Difesa probabilmente farà di tutto per impedirlo, perché queste cose finiscono sempre per alimentare la propaganda antiamericana. Chissà come mai.
Link: "Lynndie England speaks of worse abuse at Abu Ghraib", Mail&Guardian Online.
Invece le tecniche usate da lei e da altri (denudare, umiliare, ammanettare ai letti e al soffitto) erano tattiche per ammorbidire i detenuti prima degli interrogatori, normale amministrazione. E gli ufficiali della polizia militare la mattina dopo vedevano le foto e approvavano: "Oh, buon lavoro, continuate così!".
Ma quelle urla erano un'altra cosa, roba da far accapponare la pelle a una Lynndie England. Dice lei. Mi permetto di dubitare che sia ancora perseguitata dal ricordo.
Altre 87 fotografie di abusi e torture a Abu Ghraib saranno presto rese pubbliche per decisione di un giudice federale dopo il ricorso dell'American Civil Liberties Union. Ma il Dipartimento della Difesa probabilmente farà di tutto per impedirlo, perché queste cose finiscono sempre per alimentare la propaganda antiamericana. Chissà come mai.
Link: "Lynndie England speaks of worse abuse at Abu Ghraib", Mail&Guardian Online.
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mercoledì, settembre 21, 2005
Un fallimento senza paragoni
"Non fatevi ingannare una seconda volta. Vi hanno detto che la Gran Bretagna doveva invadere l'Iraq a causa delle armi di distruzione di massa. Avevano torto. Ora dicono che le truppe britanniche devono restare in Iraq, altrimenti sarà il caos.
Questa seconda bugia sta infettando tutti. Ne vanno parlando i laburisti e i conservatori contrari alla guerra e perfino il portavoce liberaldemocratico, Sir Menzies Campbell. Il suo assioma è che i soldati occidentali sono così competenti che, ovunque vadano, ne può solo venir del bene. È loro dovere non lasciare l'Iraq finché l'ordine non sarà stato ristabilito, le infrastrutture ricostruite e la democrazia inculcata.
Notate la congiunzione "finché". Nasconde un sanguinoso mezzo secolo fatto di illusioni e di arroganza. Il fardello dell'uomo bianco è ancora vivo e vegeto nei cieli sopra Baghdad (le strade sono ormai troppo pericolose). Possono morire centinaia di soldati e di civili. Si possono sperperare milioni. Ma Tony Blair ci dice che solo i valori occidentali imposti con la canna di un fucile sono in grado di salvare il povero musulmano dal suo peggior nemico, se stesso.
[...]
Blair ha fatto quello che nessun primo ministro dovrebbe fare. Ha messo i suoi soldati alla mercé di una potenza straniera. Prima quella potenza era l'America. Ora, secondo il ministro della difesa, John Reid, è una banda di coraggiosi ma disperati iracheni sepolti nella Zona Verde di Baghdad. Dice che resterà finché non gli chiederanno di andarsene, finché le truppe irachene non saranno ben addestrate e le infrastrutture ricostruite. Significa fino al giorno del giudizio. Tutti lo sanno.
[...]
Le infrastrutture non sono state ricostruite. A Baghdad l'acqua, la corrente elettrica e le fognature stanno peggio di dieci anni fa. Ingenti somme di denaro - come il miliardo di dollari per forniture militare - vengono rubate e riposte in banche giordane. La nuova costituzione è lettera morta, eccetto la parte della sharia, che è già di fatto in vigore nelle aree sciite.
I soldati britannici combattono una guerra sul cui corso, condotta ed esito i loro governanti non hanno alcun controllo. La strategia di uscita non è più realistica, anzi, è disonesta. Non si parla più di ridurre il numero delle truppe da 8000 a 3000 il prossimo anno.
[...]
Le presunta ragione dell'occupazione dell'Iraq era di portarvi sicurezza e democrazia. Abbiamo smantellato la prima e mancato di costruire la seconda. L'Iraq è un fallimento senza paragoni nella recente politica britannica. Adesso ci dicono che dobbiamo "mantenere la rotta" o accadrà il peggio. Questo è il codice che usano i ministri che si rifiutano di ammettere un errore e che sperano che lo faccia qualcun altro dopo di loro. Per quella volta i curdi si saranno ancora più separati, i sunniti saranno ancora più infuriati e gli sciiti più fondamentalisti. Saranno morti un centinaio di soldati britannici.
L'America ha lasciato il Vietnam e il Libano al loro destino. Sono sopravvissuti. Noi abbiamo lasciato Aden e altre colonie. Alcune, come la Malaya e Cipro, hanno conosciuto scontri sanguinosi e la divisione. Abbiamo giustamente detto che erano affari loro. Lo è anche l'Iraq per gli iracheni. Abbiamo già fatto abbastanza guai laggiù.
Può davvero essere che i soldati britannici siano i migliori del mondo. Ma perché allora Blair li sta portando all'umiliazione?"
Simon Jenkins, "To say we must stay in Iraq to save it from chaos is a lie", The Guardian.
Questa seconda bugia sta infettando tutti. Ne vanno parlando i laburisti e i conservatori contrari alla guerra e perfino il portavoce liberaldemocratico, Sir Menzies Campbell. Il suo assioma è che i soldati occidentali sono così competenti che, ovunque vadano, ne può solo venir del bene. È loro dovere non lasciare l'Iraq finché l'ordine non sarà stato ristabilito, le infrastrutture ricostruite e la democrazia inculcata.
Notate la congiunzione "finché". Nasconde un sanguinoso mezzo secolo fatto di illusioni e di arroganza. Il fardello dell'uomo bianco è ancora vivo e vegeto nei cieli sopra Baghdad (le strade sono ormai troppo pericolose). Possono morire centinaia di soldati e di civili. Si possono sperperare milioni. Ma Tony Blair ci dice che solo i valori occidentali imposti con la canna di un fucile sono in grado di salvare il povero musulmano dal suo peggior nemico, se stesso.
[...]
Blair ha fatto quello che nessun primo ministro dovrebbe fare. Ha messo i suoi soldati alla mercé di una potenza straniera. Prima quella potenza era l'America. Ora, secondo il ministro della difesa, John Reid, è una banda di coraggiosi ma disperati iracheni sepolti nella Zona Verde di Baghdad. Dice che resterà finché non gli chiederanno di andarsene, finché le truppe irachene non saranno ben addestrate e le infrastrutture ricostruite. Significa fino al giorno del giudizio. Tutti lo sanno.
[...]
Le infrastrutture non sono state ricostruite. A Baghdad l'acqua, la corrente elettrica e le fognature stanno peggio di dieci anni fa. Ingenti somme di denaro - come il miliardo di dollari per forniture militare - vengono rubate e riposte in banche giordane. La nuova costituzione è lettera morta, eccetto la parte della sharia, che è già di fatto in vigore nelle aree sciite.
I soldati britannici combattono una guerra sul cui corso, condotta ed esito i loro governanti non hanno alcun controllo. La strategia di uscita non è più realistica, anzi, è disonesta. Non si parla più di ridurre il numero delle truppe da 8000 a 3000 il prossimo anno.
[...]
Le presunta ragione dell'occupazione dell'Iraq era di portarvi sicurezza e democrazia. Abbiamo smantellato la prima e mancato di costruire la seconda. L'Iraq è un fallimento senza paragoni nella recente politica britannica. Adesso ci dicono che dobbiamo "mantenere la rotta" o accadrà il peggio. Questo è il codice che usano i ministri che si rifiutano di ammettere un errore e che sperano che lo faccia qualcun altro dopo di loro. Per quella volta i curdi si saranno ancora più separati, i sunniti saranno ancora più infuriati e gli sciiti più fondamentalisti. Saranno morti un centinaio di soldati britannici.
L'America ha lasciato il Vietnam e il Libano al loro destino. Sono sopravvissuti. Noi abbiamo lasciato Aden e altre colonie. Alcune, come la Malaya e Cipro, hanno conosciuto scontri sanguinosi e la divisione. Abbiamo giustamente detto che erano affari loro. Lo è anche l'Iraq per gli iracheni. Abbiamo già fatto abbastanza guai laggiù.
Può davvero essere che i soldati britannici siano i migliori del mondo. Ma perché allora Blair li sta portando all'umiliazione?"
Simon Jenkins, "To say we must stay in Iraq to save it from chaos is a lie", The Guardian.
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