lunedì, giugno 17, 2024

D'un tratto a quindici anni

D’un tratto a quindici anni scopro che mi piacciono i ragazzi. Soprattutto quelli visti di sfuggita e da lontano, i bersagli mobili e fluttuanti, tutti belli ai miei occhi di adolescente riflessiva. Prima mi piaceva essere guardata, fantasticarmi irresistibile con i miei jeans rosa, le magliette Fruit of the Loom, il lucidalabbra al gusto di Big Babol e l’Eau Jeune. Improvvisamente, grazie alla mia personale rivoluzione copernicana dello sguardo, esisto poco, provo il sollievo di non fantasticarmi più. Senza saperlo sono diventata un’aspirante collezionista.

Il figlio cadetto dell’agenzia immobiliare, occhi celesti e riccioli neri, con il suo lento svagato pedalare? Bellissimo, la quintessenza del maschio in bicicletta che rende interessante ogni giovane su due ruote. Il leader studentesco che riesce a far durare cinque ore le assemblee per poi mandarle a schiantarsi contro il suono dell’ultima campanella tra applausi scroscianti? Bello come sostengono le mie compagne di classe, con il suo fascino distante da maschietto alfa. Meno interessante da vicino, sarà che ha il mento abbastanza ruvido, quel giorno hanno sparato a John Lennon e lui John Lennon non sa chi è, vuole solo baciare ed essere baciato. Non conosci John Lennon, non sai che è la fine di un’epoca per noi quindicenni di quarant’anni con un occhio al post-punk e l’altro a Sgt. Pepper? Non trovi che faccia un po’ freddo? Ti vedo un po’ pallido.

Bellissimo lo studente dell’istituto d’arte travestito da Barry Lindon a una festa in maschera, visto solo una volta o sempre, quindi mai: privato del suo celeste gainsborough è tutti ed è nessuno, un fisico minuto riproducibile nella sua eleganza a noleggio.

L’amico in Vespa del mio migliore amico, il ripetente trasfertista, il recidivo diciottenne: tutti bellissimi, tutti destinatari del mio sguardo democratico. A volte mi capita perfino di vederli sfilare insieme in una versione tuttifrutti dei miei desideri. Da Erodoto dell’infatuazione raccolgo informazioni, le amiche dicono, raccontano, inventano, laggiù pare, qua si dice, fin là non ci va nessuno. Ma non m’importa più di tanto, quel che conta è che lo sguardo non si fermi mai.

È Carnevale. Vestita da antico romano passeggio per il Corso con il mio piccolo drappello di catiline e ciceronesse e mi dico che forse rivedrò Barry Lyndon, magari siamo destinati a vederci una volta all’anno come in una fiaba e tra cinquant’anni, decrepiti come sessantaseienni (del resto la matematica non è un’opinione), coroneremo il nostro (cioè il mio) sogno d’amore. In lontananza vedo il ragazzo dell’agenzia immobiliare, ma senza ruote e in tenuta da sceicco. Mi distraggo osservando l’ennesimo togato, uno dei ripetenti o forse uno che gli somiglia. Poi mi arriva in faccia una manciata di farina doppio zero, e a quel punto sì che i miei belli sono tutti uguali.

L’effetto farina dura qualche giorno e a quel punto i miei sospettano un danno (che mi confermerebbe una martire delle feste: due mesi prima un gangster ha buttato un tricche tracche rasoterra sulla pista da ballo: peccato, perché avevano messo su gli Earth Wind & Fire e comunque avrebbe già fatto colpo senza effetti speciali, in quanto vandalo nella gloriosa tradizione cinematografica dei selvaggi).

 Così finisco dall’oculista. Macché farina, macché Carnevale, dice quello, questa è miope, 1,5 a sinistra e 1 a destra.

Mi scelgo così una montatura alla John Lennon e mi ributto nella mischia sentimentale.
Cambia tutto. L’universale maschile si differenzia in ragazzi bruttini, meno bruttini, indifferenti, qualsiasi, non è più universale ma un inferno iperrealista di incarnati poco omogenei, di capelli problematici e apparecchi ortodontici.
Metto a fuoco. Ci vedo. Barry Lyndon non è più Barry Lyndon, e io non amo più.



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