giovedì, gennaio 24, 2019

Il Mazariol

È nel languore di un pomeriggio di pioggia, durante una di quelle chiacchierate tra femmine in cui ci confrontiamo sconsolate “il petto” e la Sgorza descrive le elaborate cotonature montate nella sua fantasia parrucchiera come albumi a neve, che mi invento il fratello morto.

Non per cattiveria. Per noia.
Perché sono la sola figlia unica di tutta la classe insieme al Montrani Andrea, che in aula calza le pantofole di lana, vomita in un angolo pallette d’ansia e poi se ne torna a casa con l’autista.
Perché una piccola misteriosa tragedia familiare non si nega a nessuno.
Mai sottovalutare il fascino che i fratelli morti esercitano sulle compagne di classe. Eccole lì, la Raffaella, la Claudia e la Sgorza (in arte Ondina Acconciature), tutte subito a sparare domande. No, mio fratello non era come quello della Franzica Cristina, quello caduto dritto nel limbo senza passare per il via. Il mio era un fratello completo, carne e ossa, viziatino e non simpatico. E poi è morto.
Ma come, come è morto?
Come?

“El xe cascà dae scale.” Entra in cucina Antonia reggendo un vassoio di cacao e frollini. “Dae scale”, ripete.
Tutte zitte, e zitta anch’io che sento arrivare una grossa storia.
“Povero Giancarlo. Scampava da qualche cosa, sicuro. Perché non correva mica come un stupido, Giancarlo. Scampava. Per dopo rompersi l’osso del collo. Lì.” E con il dito indica un punto ai piedi delle scale, nel vestibolo, là dove il marmo delle mattonelle è ingiallito.
“Povero Giancarlo”, butta lì un’ultima volta Antonia. Poi esce dalla cucina e fa per salire le scale maledette.
“Il cacau” dico debolmente io. “Si fredda il cacau.” Ma la Claudia, la Raffaella e la Sgorza tutte dietro Antonia, e poi ferme sullo scalino più basso a guardarla di sotto in su mentre sosta nel punto in cui le scale curvano, e aggrappata al corrimano si gira a metà, con il grugno di quando giochiamo a Rebecca e lei fa la governante: una governante passata per le campagne venete, i fossi e i sassi del Piave, tra rospi e denti di leone.

“Cosa è successo non si sa. Ma mi lo so.”
Silenzio, sguardo periscopico. La Claudia, la Raffaella e la Sgorza a bocca aperta.
“Scampava dal Mazariol.” 
E riprende a salire le scale. La seguiamo tutte nella sua camera, la vediamo chiudere gli scuri, la sentiamo cercare a tentoni l’interruttore, dando manate spazientite sul muro. Quando la luce si accende ce la ritroviamo vicinissima, immobile, le labbra serrate fino a scomparire in una sottile linea retta tra le guance infossate. Che ancora un poco e mi spavento anch’io.

“Io da piccola l’ho visto il Mazariol, correva pei campi come una bestia, guai metter il piede sulla sua orma, ti porta via e sei il suo schiavo morto. Non esiste più mamma, papà o casa. Non esiste. Sei un morto prigioniero del Mazariol e mangi radici e vermi.”
“Che schifus” si lascia sfuggire la Sgorza.
“In eterno” la fulmina Antonia. “Il Mazariol l’ho rivisto qua intorno, anni fa, che veniva su dal buco di viale Virgilio, strisciava su come una bestia. E gli ho detto a Giancarlo di non andare nel buco di viale Virgilio a giocare. Gli ho detto ‘Guai sei vai nel buco che ti prende il Mazariol’.”
“Ma lui era curioso”, butto lì io.
“Era curioso. E quel giorno che è tornato con le scarpe tutte piene di fango ho capito che era andato nel buco e aveva messo il piede nell’orma del Mazariol. E che quando il Mazariol lo prendeva lo trasformava, sicuro.”
“E dopo?” fa la Claudia.
“E dopo bisogna bere il cacau che diventa freddo. Circolare, circolare!” dice Antonia con un gesto da vigile urbano. E noi giù dalle scale. Ma piano piano, non come il povero Giancarlo.

In cucina ce ne restiamo zitte, ognuna presa nei suoi pensieri. Sono assorta anch’io, che mi chiedo quando la storia arriverà alle orecchie della mamma. Perché ormai non è un problema di “se” ma di “quando”, è una storia troppo grossa: la madre annientata dal dolore, la nonna ormai folle che inventa storie di spettri, il padre sempre con la canna da pesca in mano. Menti ottenebrate. Una casa di matti.

“Di questa cosa non si parla, è un segreto tra noi” dico rompendo il silenzio.
“Veramente io in camera di tua nonna ho visto una cosa sotto il letto…” balbetta la Sgorza. “Una roba scura, un’ombra, forse anche si muoveva.”
“Sarà stato il Mazariol” sentenzia Antonia, appoggiata a uno stipite della porta.
La Claudia, la Raffaella e la Sgorza la fissano con gli occhi a palla, mentre gli sbaffi di cacao agli angoli delle labbra disegnano loro finti sorrisi da pagliacci tristi. Quando ci crescerà mai il petto, a noi, mi chiedo osservandole. Quando diventeremo mai “signorine”.

Il pomeriggio scorre via in maniera convenzionale, la Sgorza si offre di farci le acconciature ma non c’è più la spensieratezza di prima, le vedo che tutte e tre allungano il collo per spiare ora il pavimento del vestibolo, ora le scale. Poi se ne vanno, senza altre domande, ma esitando un’ultima volta sulla soglia. “Circolare, circolare” si sente gridare dalla cucina.

Quella sera Antonia mi porta in camera sua. 
“Vien con mi che te presento il Mazariol, amore” fa tutta allegra. Si china accanto al letto, tastando il pavimento.
“Ecco il Mazariol!” dice spingendomi qualcosa contro il petto.
“Che schifus, nonna!”

È un vaso da notte.

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