domenica, giugno 13, 2010
Lasciamo perdere le sfere intermedie
Passare giorni di luglio tutti uguali in una cittadina di provincia della Siberia orientale, dove il cemento dei condomini si è addormentato, prima di aver finito di fottere una pastorella quarantacinquenne sazia di maccheroni; vivere e amare tra gli strumenti di tortura dell'estate in monotono movimento; in questo paesino vicino al centro immaginario del mondo, nel vento che sposta la polvere ma non l'aria, nella penombra e nel marciume – perché da nessuna parte è altrettanto buio quanto nel cerchio al centro della candela; in questa disposizione di fogne, gusti ordinari, mosche, inutile affaccendarsi e piccoli teppismi; nella città del non-splendore e dei suoni incompiuti, del genere più basso di materialismo, nella patria spirituale degli ammiratori in giacca e cravatta di Nekrasov, delle caramelle da poco senza involucro, nella Babilonia della non-poesia che si spinge ai limiti dell'inesistenza; nel punto non segnato sulle guide che non conduce né all'Inferno né al Paradiso (lasciamo perdere le sfere intermedie), nella città dimenticata dalla guerra e dall'illuminismo, dove vive un messia che parla alla TV locale e soffre di adenoidi; dove tutto è squallido, sudato, insufficiente e spietato; dove putridi torrenti passeracei di tanto in tanto escono dagli argini, portando distruzione nelle serre, negli orti e nelle tane di ratti, oltre che accenni di dissenteria e di colera; qui dove un tempo, tanto tempo fa che è come se non fosse mai accaduto, i cammelli delle carovane della Via della Seta si spezzarono le zampe, e i discendenti di dei pagani, famose tribù di fabbri e di stregoni, si estinsero per l'alcolismo e la diarrea, e adesso sulle equivoche collinette urbane composte di escrementi umani crescono pomodori di dimensioni mostruose nutriti dalle radiazioni che vengono dalle vallate vicine; dove i trasporti pubblici sono più illusori di Fata Morgana e le piazze aride, i pioppi indifferenti e un'architettura bastarda debordano ovunque sotto lo sguardo, perché le cuciture di questa realtà si sono ormai logorate da molto tempo; al centro della regione in cui i fatti dell'Europa e dell'Asia arrivano un mese dopo come grandi notizie, e le notizie non arrivano mai, dove le mode dei balli delle due Americhe muoiono come topi avvelenati stramazzati a metà strada mente correvano verso l'acqua; in questo luogo, o tempo, o coscienza, o altra dimensione dell'Essere, inaccessibile al genio, che continua a vivere qui malgrado tutto – mi alzo tutte le sere quand'è ancora chiaro, scosto le tende per far passare la luce dell'ubiquo sole locale che tramonta, preparo il tè; e aspetto; e spero, spero. Il mio compagno delle vacanze estive, Tommaso da Kempis, è seduto a tavola da un bel po': è calmo e serio, sta lavorando. Scrive il suo libro, scrive e scrive, diligente e muto, strizzando gli occhi di tanto in tanto, l'indice contro la tempia. “Stai ancora scrivendo!” – mi guarda con disapprovazione e continua a scrivere il suo libro imitativo, teso nella sua imitazione se non come una scimmia diciamo come una gatta incinta di una scimmia. Sorseggia il tè georgiano che gli ho servito e che si sta raffreddando – classe superiore, quello che odora di salsiccia! neanche lui toccherebbe i tè di prima e seconda categoria che abbondano nel negozio coloniale locale e puzzano come il calzino di uno scapolo – niente, niente, non li assaggerebbe per niente al mondo – e con la voce tintinnante di un mentore e di un vecchio amico fedele indaga “E così? questa tua vita non è forse un crimine e una negazione di Dio?” “No!” esclamo. “Questa è la mia vita, e questo, tutto questo, non è un crimine, anzi! è una malattia, e questo, e no! è una sfortuna, un'allucinazione oscura, una pestilenza, un'anemia che assomiglia al mal di denti, alla carie, alla pediculosi, alla composizione di versi per un anniversario, alla lebbra, al cimurro; nella geografia del cielo e della terra questa vita e questo luogo sono un luglio che marcisce per sempre tra le chiappe di Dio Signore, ed Egli è troppo pigro per guardarsele allo specchio! e tu, amico, vai avanti, continua a scrivere.” Stringe le labbra, si gira e riprende a far scricchiolare la penna, strizzando gli occhi, mentre io esco sulla veranda, cerco di ricordare il sogno del giorno prima, mi accendo la prima sigaretta della sera e ancora mi aggrappo alla speranza: cosa c'è là, nell'ocra del cielo crepuscolare? non è una nuvola? forse è una nuvola; forse la luce di un lampo illuminerà il nostro giardino pieno di lappole e di lattine, forse una voce tonante dai cieli dirà che siamo tutti perdonati, che possiamo tornare a casa; forse! e un acquazzone, uno spaventoso, gioioso, lacrimoso acquazzone di nostro Signore si rovescerà su di noi, sul giardino, sulla cittadina, su questo crescente, tremolante, verdastro, stillante luglio, una pioggia purificatrice e disinfettante di insetticida e di candeggina, di fuoco e di zolfo bollente.
Sergej Kruglov, Poesie in prosa, in "GF - Novaja Literaturnaja Gazeta", Mosca 1994.
Traduzione: Manuela Vittorelli.
Sergej Gennad'evič Kruglov, nato nel 1966 a Minusinsk, nella regione di Krasnojarsk, ha studiato giornalismo a Krasnojarsk e ha poi lavorato come reporter nel giornale locale Vlast' Trudu. Scrive poesie dal 1993. Nel 1999 è stato ordinato sacerdote della Chiesa ortodossa russa. Vive in Siberia. È sposato e ha tre figli. Nel 2008 ha ricevuto il premio Andrej Belyj. Ha un blog: http://kruglov-s-g.livejournal.com/ (rus)
[Grazie a Sten per le palme.]
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