Ogni guerra ha una ferita caratteristica, non solo metaforica, una vera e propria firma clinica: i danni ai polmoni causati dai gas durante la prima guerra mondiale, i tumori da radiazioni nucleari durante la seconda, le lesioni alla pelle causate dall'utilizzo dell'Agente Arancio in Vietnam, la Sindrome della Guerra del Golfo. Per i soldati americani anche la guerra in Iraq ha la sua signature wound: si chiama TBI, brain damage injury, che potremmo tradurre come neurotrauma e che è provocata principalmente da violente esplosioni. I soldati sono sufficientemente corazzati e protetti per sopravvivere a impatti di violenza mortale, ma sviluppano traumi cerebrali a volte molto gravi. Al Walter Reed Army Medical Center di Washington hanno sottoposto a controlli tutti i militari che erano sopravvissuti a esplosioni e forti impatti, e hanno scoperto che circa il 60% soffriva di TBI. Per la maggioranza si trattava di giovani intorno ai vent'anni.
Dal gennaio 2003 al gennaio 2004 sono stati diagnosticati 437 casi di TBI tra i soldati ricoverati. Poco più della metà riportavano danni cerebrali permanenti; tali cifre sono state definite preoccupanti dal dottor Warren Lux, neurologo dell'ospedale di Washington.
Questo trauma parla del tipo di guerra combattuta in Iraq: non deriva da sostanze chimiche o radioattive; il corpo superprotetto sopravvive all'impatto, ma il cervello è scosso violentemente all'interno del cranio e il tessuto cerebrale subisce delle lesioni.
È la ferita distintiva dei soldati americani in Iraq: la malattia dei sopravvissuti, dei nati due volte, di quelli che in guerre passate sarebbero morti subito, la malattia che non toccherà al loro nemico.
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