All'inizio sono a casa con mia madre,
nella luce abbagliante di un dopopranzo estivo. Siedo sotto una
finestra, un grande rettangolo dai grossi bordi bianchi e
arrotondati.
Dico a mia madre che se va tutto bene
ci mettiamo sette ore, dunque al suo ritorno dal lavoro sarò
nuovamente qui ad aspettarla. E che il pullover lo lascio sotto la
finestra.
Mio padre apre la porta del garage, io
porto fuori la macchina.
D'un tratto è notte fonda, lui dice "non
capirò mai come fai a guidare a fari spenti". "Non tanto
per te", aggiunge, anche se la strada è deserta. Sul sedile
posteriore c'è Antonia, mi rendo conto che ci aspettava in macchina,
stranamente composta, la borsetta sulle ginocchia e una caramella
balsamica in bocca.
L'aeroporto è grande, formato da un
corpo centrale e da grandi padiglioni circolari. Gli interni sono di
legno, naturale o verniciato a colori vivaci: di legno sono i
pavimenti, le pareti, le finiture, i pannelli scorrevoli da cui
entrano ed escono i passeggeri. D'un tratto sembra di stare in un
vecchio albergo di montagna. D'un tratto il presente assomiglia a un
futuro immaginato negli anni Cinquanta. Noi tre passiamo da un
padiglione all'altro, alla ricerca dei banchi del check-in. Sono in
ritardo, so che mi stai aspettando. Il mio telefono segnala cinque
tue chiamate perse. Finalmente vediamo una grande insegna verde a
forma di freccia irregolare con la scritta ARRIVI e la sagoma
stilizzata di uno steward (simile ai cuochi di cartone che salutavano
gli automobilisti di passaggio, fuori dei ristoranti). La scritta ci
tranquillizza: siamo arrivati. Tu infatti ci aspetti al banco del
check-in con il biglietto in mano. Ma come, mi preoccupo, la
destinazione sul tuo biglietto è la Georgia, non può essere. Tu
spieghi che è una destinazione di comodo. E con un gesto veloce
abbracci il viavai di gente nella sala: "qui nessuno va dove sta
scritto sul biglietto, dai". Poi mi racconti un sogno che hai
fatto, un sogno complicato e pieno di numeri. I numeri me li dici
adesso che non possiamo farci niente, dico io. Improvvisamente non ho
più borsa né valigia, solo una manciata di oggetti: gli occhiali da
vista, piccoli fermagli per capelli.
Entriamo in uno dei padiglioni. Mi dici
"spero che la piccola faccia la brava". Io ti rispondo che
dobbiamo preoccuparci non della piccola ma di Antonia, anche se oggi
è insolitamente disciplinata. Poi ti dico che Antonia ha un regalo
per la piccola, un piccolo scheletro di dinosauro. "Sarà
contentissima. Sai com'è fatta lei" dici.
Siamo pronti. Mentre davanti a noi sta
per aprirsi il pannello scorrevole mi torna in mente un programma che
ho visto alla tv, dove due astronauti rispondevano a una domanda
sulla paura della gravità e uno di loro diceva: "Quando scendi
dall'ultimo piano di un grattacielo altissimo sai che avrai paura, ma
che il viaggio in ascensore durerà solo sette minuti. Lo spavento
dura poco, passa quando tocchi il suolo. Per noi non è mai il
viaggio a far paura, ma la gravità che non ci tiene più".
Capisco che non ci metteremo sette ore. Sette erano solo i minuti di un viaggio in ascensore, in un programma alla tv.
L'ultima immagine è quella della
bambina con il suo bianchissimo scheletro di dinosauro.
L'ultimo ricordo è quello del pullover abbandonato sotto la finestra, in una luce senza scampo.
L'ultimo ricordo è quello del pullover abbandonato sotto la finestra, in una luce senza scampo.
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