Lasciamo troppe cose messe in movimento e la loro inerzia così debole ci sopravvive: le parole che ci sostituiscono e che talvolta qualcuno ricorda o trasmette, non sempre confessandone la provenienza; le lettere levigate e le fotografie incurvate e le note lasciate su una carta gialla a colei che va a dormire sola dopo gli abbracci desti, perché ce ne andiamo di notte come miserabili di passaggio; gli oggetti e i mobili che sono stati al nostro servizio e con i quali siamo stati in contatto – una sedia rotta, una penna, una scena indiana, un soldatino di piombo, un pettine –, i libri che abbiamo scritto ma anche quelli che abbiamo soltanto comprato e che una volta abbiamo letto o che sono rimasti rinchiusi fino alla fine nel loro scaffale e proseguiranno rassegnati in un altro posto la loro vita di attesa in attesa di altri occhi più avidi o tranquilli; i vestiti che rimarranno appesi tra la naftalina perché forse qualcuno addolorato si impegnerà a conservarli – anche se non so se c'è la naftalina, le stoffe scolorando e illanguidendo e senz'aria, dimenticando ogni giorno di più le forme che davano loro un senso, e l'odore di quei volumi –; le canzoni che si continueranno a cantare quando noi non le canteremo né le canticchieremo né le ascolteremo, le strade che ci accolgono come se fossero interminabili corridoi e dimore che non badano ai loro inquilini effimeri e commutabili; i passi che non si possono riprodurre e non lasciano traccia sull'asfalto e sulla terra si cancellano, o no, quei passi non rimangono ma vengono via con noi o anche prima, con la loro innocuità o con il loro veleno; e le medicine, la nostra grafia frettolosa, le foto amate che teniamo in vista e che non ci guardano più, il cuscino e la nostra giacca appoggiata su una spalliera; un casco coloniale venuto da Tunisi negli anni Trenta a bordo della nave Ciudad de Cádiz ed è di mio padre e ancora conserva il soggolo, e quel servitore indù di legno dipinto che ho appena portato a casa con una certa esitazione, a sua volta durerà più di me quella figura, probabilmente. E le narrazioni che abbiamo inventate, di cui si approprieranno gli altri, o parleranno della nostra passata esperienza perduta e mai conosciuta facendoci così diventare fittizi. Persino i nostri gesti li continuerà a fare qualcuno che li ha ereditati o li ha visti e senza volere è stato mimetico o li ripete di proposito per invocarci e creare una curiosa illusione di momentanea vita vicaria nostra; e forse si conserverà isolato in un'altra persona qualcuno dei nostri tratti che avremo trasmesso involontariamente, con civetteria o come maledizione incosciente, perché i tratti portano a volte la buona ventura o disgrazie, gli occhi orientaleggianti e le labbra come se fossero dipinte – «bocca a pizzo, bocca a pizzo» –; o il mento quasi separato, le mani larghe e nella sinistra una sigaretta, non lascerò nessun tratto a nessuno. Perdiamo tutto perché tutto rimane, tranne noi. Per questo ogni forma di posterità forse è un oltraggio, e magari lo è anche allora ogni ricordo.
Javier Marías, Nera schiena del tempo, Torino, Einaudi, 2000. Traduzione di Glauco Felici.
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