Io non ne parlo quasi mai. Parlo, è vero, della città di G. in termini tra lo scherzoso e il denigratorio (nulla che non si meriti, comunque). O delle "città gemelle". O della Jugoslavia. Ma del confine quasi mai.
Per motivi di lavoro stasera mi trovavo a preparare (abbastanza stancamente, ma con una certa rassegnata diligenza) la scheda di presentazione di un libro sul confine - o meglio su alcune proposte di progettazione del territorio di confine tra Gorizia e Nova Gorica - quando mi sono imbattuta nelle parole di Franco Dugo, artista goriziano:
"la definizione 'uomo di confine' la posso accettare, intendendo con ciò che la mia vita è stata segnata dalle vicende della storia di questa terra. E forse mi sento 'uomo di confine' nel senso un po' particolare di sentirsi ai margini, per motivi piuttosto banali. Per esempio per la difficoltà comune, anche a persone colte, di collocare geograficamente questa città. Il goriziano si trova per forza, mentalmente al confine. A Gorizia bisogna andarci, non la si attraversa per raggiungere altre città".
Mentre leggevo mi sono resa conto che questa percezione mi è familiare e costituisce - anche mio malgrado - parte della mia identità. Gorizia non è una città di confine; è il confine.
Io non ne parlo quasi mai: ma dovrò farlo, prima o poi, e forse andrà per le lunghe.
Fate finta allora che questo blog sia come la città di G.: dovete proprio venirci, mica attraversarlo per andare da un'altra parte. Almeno finché non ci avrò messo i link.
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