Mi piacciono gli aeroporti, le stazioni, le soste in autostrada, tutti i luoghi in cui posso osservare da lontano e da diverse prospettive il non ancora, il non subito, masticando gomme e sfogliando giornali. Amo l’ozio indifferente delle attese, il sostare dello spazio nel tempo, elencare in silenzio le cose dimenticate a casa e le cose da dimenticare.
Di un arrivo mi piace il lento, deviato avvicinarsi al centro delle città.
Poi la stanza nuova, lo spazio nell’armadio, la finestra sulla strada (su un cortile, sul mare), indovinare dove sorge e tramonta il sole (quel sole che il primo mattino ci sorprenderà con un taglio di luce inaspettato, a un’ora imprevista).
Camminare, misurare i luoghi con il ritmo del proprio respiro, lasciarsi attraversare dalle cose, con la riposante certezza di essere non visti, l’euforia della trasparenza. Poi sedersi in un bar, decifrare gesti e parole, far prove di vita in un’altra città. Finire di leggere un libro portato da casa, come un viaggio segreto nel viaggio.
Il ritorno è solo una sosta prima di un’altra partenza – si va di nuovo, per pochi giorni o per settimane, in una città amata o in un posto immaginato – e ha la leggerezza del provvisorio.
Poi arrivano le giornate di fine agosto.
Si esce in barca un pomeriggio, al largo di Duino. La luce del giorno si è fatta in nostra assenza più dolce (l’estate non è ancora finita ma c’è una nuova crudeltà nei tramonti, una specie di cupo improvviso sprofondare).
Come Leopold Bloom provoco la mia eclissi di sole sollevando il mignolo.
Un aereo curva all’orizzonte verso Grado. Lo vedo farsi più piccolo e sparire.
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