giovedì, giugno 05, 2008

La pista gialla



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Gorizia, 1972, ultimi giorni di maggio.

Budicin Giorgio, ventisette anni. Sarebbe stato un bravo calciatore, ma l'hanno rovinato l'amore per la vita comoda, per le belle macchine e per le moto. Fa il rappresentante per Gorizia e Trieste per conto di un'azienda del settore anti-infortunistico.
Il 27 maggio Budicin, che ormai vive a Verona, arriva a Gorizia per lavoro e per giocare una partita di calcio in un torneo tra bar. Va all'albergo Transalpina, si cambia, esce in tuta e scarpe da ginnastica. Ma è in ritardo, può giocare soltanto un tempo. La partita finisce due a due. Il campo non è attrezzato con docce e spogliatoi e Budicin torna in albergo con le scarpe ancora sporche di terra e le lava nel lavandino.
Le tre sere successive Budicin le trascorre con amici in un night di Nova Gorica. La sera del 31 cena e poi si mette a guardare la finale di Coppa Campioni, Ajax-Inter. Finita la partita fa un giro e infine va a letto.
Il mattino dopo si sente chiamare. Sotto c'è il suo amico Maurizio che gli grida: “Ciò, mona, te ga visto i tuoi amici? I li ga fati saltàr”.

Larocca Furio, ventotto anni, sposato da poco, un figlio. Lavora malvolentieri in un bar del cognato, a Tarcento, vicino a Udine. Ha fatto anche l'imbianchino e il carrozziere.
Quel mese di maggio va a lezioni di guida per prendere la patente da camionista e la sera torna a casa presto perché è già stato denunciato per lite e non vuole guai. Così fa anche la sera del 31 maggio. Sul primo c'è Ajax-Inter, ma sua madre insiste per guardare il film sul secondo.
Il mattino dopo gli dice: “Visto cossa che xe successo? Meno mal che te ieri a casa soto i miei oci!” E lui risponde: “Ma cossa te va a pensar?”

Gianni Mezzorana, ventinove anni, imbianchino. Timidissimo, molto miope. Non è sposato. Appartenente alla malavita locale, dicono i carabinieri, in realtà un ambiente di ladruncoli, balordi e piccoli delinquenti.
La sera del 31 maggio è a casa di sua sorella Maria, perché il suo televisore non funziona e vuole vedersi la partita in pace, non in un bar. C'è un'amica di Maria, che vorrebbe guardare il film sul secondo. I due discutono. Finita la partita Gianni torna a casa a dormire.
Il mattino dopo va a comprare il Piccolo, ma il giornalaio gli dice che è già finito. “Perché?” domanda lui. “Xe successo qualcossa de grave”. Allora lui compra il Messaggero.

Qualche mese prima: Gorizia, febbraio 1972.

Tra il 1971 e il 1972 Larocca, Budicin e Mezzorana fanno gruppo fisso, sono amici di bar e di bevute. Larocca lavora nell'autofficina dei fratelli Brigadin; da quelle parti c'è un'altra officina, quella dei fratelli Fabris.
Alla fine di febbraio del 1972 nell'osteria Piemontese, anch'essa di proprietà dei Fabris, scoppia una lite tra Mezzorana, Budicin e Larocca da una parte e i fratelli Fabris dall'altra. Quella stessa notte ignoti danneggiano alcune auto fuori uso davanti all'officina dei Fabris. L'episodio, non si sa come, giunge all'orecchio dei carabinieri: Larocca, Budicin e Mezzorana sospettano di due ex amici, i fratelli Rustja, uno dei quali diventerà poliziotto. Sera dopo, stesso bar, altra lite: questa volta tra i tre amici e i fratelli Rustja. Nel mezzo della lite Budicin urla al Rustja che entrerà in polizia le parole fatali “Sporca spia dei carabinieri!”
Anche questo giunge a conoscenza dei carabinieri, ma nella versione (almeno così dicono le forze dell'ordine) “Spia degli sporchi carabinieri!”
Per quella sera finisce lì: i fratelli Rustja si nascondono nel retro del bar, Larocca li attende per un po' e poi se ne va.
Notte successiva. Con una lanterna a petrolio viene dato fuoco alla porta dell'officina Fabris. Il cane di Lineo Fabris, Dick, si brucia un po' il pelo nel piccolo incendio. I carabinieri denunciano Mezzorana, Budicin e Larocca. Processualmente è cosa da poco, ma il fatto assumerà proporzioni emblematiche. Al processo i tre dovranno rispondere, oltre che dei danneggiamenti, anche di vilipendio ai carabinieri, per quella frase che si è trasformata da “Sporca spia dei carabinieri” a “Spia degli sporchi carabinieri”. E poco importa che Budicin venga assolto dal reato di vilipendio (“Perché avrei dovuto dare degli sporchi ai carabinieri, se ce l'avevo coi Rustja?”): a un certo punto importerà solo che quell'accusa ci sia stata.

Gorizia.

Gorizia in quei primi anni Settanta è una cittadina povera, con più caserme che fabbriche, con tante osterie, priva di altri svaghi. A Gorizia, soprattutto in quegli anni, i matrimoni con i rappresentanti delle forze dell'ordine sono molto ambiti perché sinonimo di stabilità economica. Va da sé che si tratta spesso di ragazzi e uomini del Sud. I meridionali, a Gorizia come a Trieste, ancora oggi li chiamano “taliàni”, “italiani”, in senso vagamente dispregiativo.
In quei primi anni Settanta questo piccolo embolo del Nord Est non è particolarmente politicizzato, tenendo conto del clima dell'epoca e della posizione geografica della città: la vita scorre tranquilla, in assenza di benessere, sul confine. I due settori industriali portanti, quello metalmeccanico e quello tessile, sono in crisi e i disoccupati stentano a trovare impiego altrove. Sono anni di insicurezza e di cassa integrazione. La sostanziale separazione delle fabbriche e dei quartieri dei lavoratori dal centro cittadino e la mancanza di una coscienza e di una cultura operaie hanno portato a un'emarginazione del ceto operaio. Quello medio, storicamente nazionalista, è omogeneamente democristiano.
A Gorizia la criminalità è di piccolo calibro, e a fare notizia sono furti maldestri, risse in privata, piccole vendette tra nemici o rivali. Le zone associate al disagio e alla delinquenza sono via Lunga, via Rabatta, il quartiere di Montesanto, in particolare la zona delle Casermette addossata al confine, verso Salcano.
Gorizia è una città povera.
Quando si spargerà la notizia che per l'attentato è stata usata una Cinquecento imbottita di esplosivo rubata fuori dell'osteria di via del Brolo saranno in tanti a commentare, senza cinismo e sgranando gli occhi, “I gà usà una machina nova! Una Cinquecento!”
Una Cinquecento per fare a pezzi tre carabinieri.

31 maggio 1972.

Questa parte l'avrete letta, la conoscerete più meno bene, ve l'avranno raccontata.
Comunque.
La strada è quella che porta da Sagrado a Savogna costeggiando l'Isonzo: tranquilla e ombreggiata, è zona di coppiette e pescatori, e quella sera qualche pescatore in effetti c'è, perché è maggio e la notte si pescano le anguille. Tanti invece hanno deciso di guardarsi la partita alla tv, perché quella sera sul primo canale c'è la finale di Coppa Campioni che si concluderà con la vittoria dell'Ajax sull'Inter per due a zero, due reti di Crujff.
Alle 22.35 al Pronto Intervento dei carabinieri di Gorizia arriva la telefonata, un po' in italiano e un po' in dialetto, fatta da un telefono a gettone: “Senta, vorrei dirle che la xe una machina che la ga due busi sul parabrezza. La xe una cinquecento bianca, vizin la ferovia, sula strada per Savogna”.
La chiamata viene registrata.
Vengono inviati sul posto i carabinieri di Gradisca, competenti per quella zona: parte una gazzella con l'appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni. Dieci minuti dopo i due sono sul posto e trovano la Cinquecento. È visibile in un viottolo di terra battuta, subito dopo una curva, al chilometro 5. È targata GO 45902. I buchi sul parabrezza ci sono, sembrano sparati dall'interno. Mango decide di chiamare il suo ufficiale, il tenente Tagliari, che parte anche lui accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro e dal carabiniere Donato Poveromo. La seconda gazzella arriva alle 23.05.
Tagliari perquisisce l'interno della Cinquecento e non trova niente. Ma a questo punto da Gorizia parte, abbastanza inspiegabilmente, una terza gazzella.
23.25. Tagliari a quel punto decide di dare un'occhiata al portabagagli. Si china, allunga il braccio sotto il volante della Cinquecento per cercare la leva che apre il cofano. Tre uomini sono davanti alla macchina. Lui trova la leva e tira.
Il Braghetto, che sta pescando lì sotto - con l'ombrello, perché piove - racconterà a mio padre: “Gò sentì un sciòpo cussì forte che me la gò fata in braghe. Con rispeto parlando”.
La leva, scattando, ha fatto scoppiare una bomba nascosta nel portabagagli. Ferraro, Dongiovanni e Poveromo sono investiti in pieno dall'esplosione e fatti a pezzi. L'ufficiale, protetto dalla portiera aperta, resta gravemente ferito.
Le salme vengono portate nella caserma dei carabinieri di via Nazario Sauro, le bare allineate sul biliardo.
Questa è la strage, o più correttamente l'eccidio di Peteano.
Antonio Ferrero, trentun anni, siciliano, sposato da poco e in attesa del primo figlio.
Donato Poveromo, trentatre anni, lucano, anche sua moglie è incinta.
Franco Dongiovanni, di Lecce, ventitre anni.
E una Cinquecento nova.

L'Italia.

Il Settantadue per l'Italia è un anno pesante. Nel febbraio il capo del Sid Vito Miceli riceve dall'ambasciatore americano 800.000 dollari per finanziare la propaganda delle elezioni anticipate del 7 maggio con l'aiuto di un estremista di destra (“legato a un gruppo giovanile e membro del comitato centrale del movimento politico di estrema destra”, lo definisce Otis Pike nel suo rapporto sull'attività della CIA in Italia).
Il 14 marzo salta in aria Giangiacomo Feltrinelli.
Il 21 marzo viene rinviata alla magistratura milanese l'istruttoria Freda-Ventura su Piazza Fontana, segnando un punto di svolta nelle indagini sul terrorismo, finora condotte a senso unico e cioè a sinistra.
Il 5 maggio la polizia uccide a Pisa l'anarchico Franco Serantini durante una manifestazione.
7 maggio, elezioni anticipate e balzo dell'MSI con l'8,67%.
17 maggio: omicidio Calabresi.
31 maggio, Peteano.
25 agosto: omicidio di Mariano Lupo, Lotta Continua.
E poi la strategia della tensione, che tra il 1971 e il 1972 comincia ad agire soprattutto nelle zone in cui le forze militari sono più numerose: Trento, Gorizia, Trieste.
26 marzo 1971: bombe sulla linea ferroviaria Trieste-Venezia.
27 marzo 1971: bombe sulla Udine-Venezia.
15 settembre 1971: bomba al monumento ai caduti di Latisana.
Nel dicembre 1971 e nel gennaio 1972, attentati dimostrativi a Udine, in omaggio alla politica degli opposti estremismi, contro due fascisti e un onorevole missino.
Fine febbraio-inizi marzo 1972: in una grotta di Aurisina, vicino a Trieste, viene trovato un grosso quantitativo di esplosivo T4.
1° aprile 1972: attentato alla linea ferroviaria Trento-Malè, con l'intento di far deragliare un treno di pendolari.
Corrono voci insistenti di un imminente colpo di stato fascista.
A tutto questo si aggiungono altri due episodi. L'attentato al deposito costiero dell'oleodotto Trieste-Baviera, il 4 agosto 1972, e soprattutto il tentato dirottamento di un aereo a Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia, il 6 ottobre 1972. I responsabili dell'azione sono l'ex-parà Ivano Boccaccio, che viene ucciso dalla polizia, e Carlo Cicuttini, che riesce a fuggire inaugurando così una lunghissima latitanza.
In casa di Boccaccio la polizia trova un giornale del 1° giugno con i particolari della strage di Peteano. Il processo lampo, durante il quale Cicuttini è giudicato in contumacia e condannato, dura in tutto due ore. Nessuna perizia sulle voci dei dirottatori registrate durante le trattative, nessuna perizia sulla Calibro 22 trovata accanto al corpo di Boccaccio. E perché mai?
Nel mese di novembre le indagini per l'eccidio di Peteano si spostano decisamente sulla “malavita” goriziana: la cosiddetta pista gialla.

All'inizio fu la pista rossa.

Il responsabile dell'indagine sull'eccidio è Dino Mingarelli, comandante della Legione Udine: in quel momento è in attesa della promozione a generale ed è giunto nel nord-est da Milano: qui era capo dello stato maggiore della divisione Pastrengo ed era stato coinvolto nello scandalo Sifar, che rivelò il suo ruolo di braccio destro del generale De Lorenzo nell'attuazione del “Piano Solo”, il progetto di colpo di stato che stava per essere attuato nel 1964.
Nelle indagini sull'eccidio di Peteano Mingarelli punta subito a sinistra. Ora non è più così facile addossare tutte le colpe agli anarchici, e così si cerca tra i gruppuscoli della sinistra extraparlamentare più esposti alle infiltrazioni, in particolare tra alcuni universitari appartenenti a Lotta Continua che studiano a Trento. Un classico.
I giudici di Milano lo indirizzano invece a destra, visto che a Udine ci sono elementi della cellula rivoluzionaria che secondo Giovanni Ventura sono in contatto con Freda (va notato che Mingarelli userà l'espressione “un certo Freda” per riferirsi all'imputato principale della strage di Piazza Fontana). Le informazioni dei giudici di Milano costringono dunque i carabinieri a chiudere a malincuore la “pista rossa”. Intanto se ne sono andati circa tre mesi.
Per liquidare la “pista nera” ci mettono ancora meno: identificano la cellula rivoluzionaria di Udine – della quale fanno parte Vincenzo Vinciguerra e il suo gemello Gaetano, Ivano Boccaccio (morto nel dirottamento di Ronchi), Carlo Cicuttini (latitante) – ma si limitano alla raccolta di informazioni anagrafiche.
L'8 novembre Mingarelli riceve un “invito” da parte del Sid di interrompere le indagini sulla cellula nazista del Veneto orientale. Mingarelli, fedelissimo del Sid, ubbidisce, chiude la pista nera e ne apre subito un'altra. C'è un gruppetto di balordi che i carabinieri tenevano già d'occhio: eccoli, i mostri.

I mostri.

Il 21 marzo 1973 il colonnello Mingarelli annuncia che dopo indagini durate dieci mesi i carabinieri hanno arrestato sei appartenenti alla malavita goriziana.
Accusa: la strage di Peteano.
Movente: vendetta.
Ci sono Mezzorana, Budicin e Larocca, che anche grazie al fondamentale contributo della stampa locale e nazionale sono dipinti come delinquenti pronti a tutto: sono dei vandali (hanno dato fuoco alla carrozzeria di Fabris, in passato si sono resi colpevoli di atti teppistici nel cimitero di Piuma), odiano i carabinieri (“sporca spia dei carabinieri!” o “spia degli sporchi carabinieri!”), hanno tendenze sadiche (il cane di Fabris si è solo bruciacchiato il pelo, ma si dirà che è morto), è gente capace di diabolica premeditazione (una volta, per compiere un furto in un magazzino di alimentari indossarono scarpette da calciatore: per non lasciare impronte, dicono i carabinieri).
I tre esecutori materiali dunque ci sono.
Mancano la mente, la dark lady e l'esperto di esplosivi. E ci sono anche quelli: si chiamano Romano Resen, Maria Mezzorana ed Enzo Badin.

La mente.

Romano Resen, trentasei anni, è un tipo avventuroso, spirito libero ma buon lavoratore. Riceve un'educazione di stampo nazionalistico, anche per questioni di storia familiare: il papà è morto nella campagna di Russia, uno zio ha partecipato all'impresa di Fiume con D'Annunzio, un altro zio ha fatto la campagna d'Africa. “Quando mi sono venuti i calli alle mani ho cambiato idee politiche”, racconterà poi.
Ha un matrimonio fallito alle spalle e tre figli: uno di questi avuto dalla nuova compagna, Annamaria Scopazzi. Resen è un bravissimo cuoco, ma per vivere a un certo punto è costretto a fare il camionista. Nei suoi viaggi lo accompagna Walter Di Biaggio, uno spiantato e un poco di buono amante di Maria Mezzorana: Resen lo aiuta e lo ospita in casa insieme a Maria.
All'inizio del 1972 Resen ha un alterco con un carabiniere per una multa. Viene denunciato e il suo avvocato gli consiglia di andarsene per un po'. Non solo, ma è nei guai anche perché Di Biaggio, che nel frattempo ha cacciato, gli ha lasciato in casa una radiolina rubata.
Così Resen decide di imbarcarsi su una nave come cuoco.
Pomeriggio del 26 maggio. Resen, che fa nuovamente il cuoco all'Hotel Aci di via Trieste, è al bar Goriziano. Annamaria gli porta di corsa un telegramma dall'agenzia marittima di Genova che lo informa che c'è un posto su una nave che parte da Amburgo tra qualche giorno. La mattina dopo deve trovarsi a Genova. Allora va alla Telve (i telefoni pubblici) a confermare che accetta il lavoro.
Poi corre all'Hotel Aci per preparare l'ultima cena prima della partenza.
In tarda serata incontra la compagna e un paio di amici, con i quali passa il resto della serata. Vanno a ballare da Bepi, a Oslavia. La mattina dopo prende il treno per Genova, poi parte per Amburgo. Il 1° giugno vola a Londra e di lì a Dubai, dove si imbarca sulla petroliera Glor Nicku.
Gli inquirenti diranno che Resen quella sera non ci è andato, al ristorante, se non molto più tardi, dopo aver organizzato l'eccidio con Larocca e i fratelli Gianni e Maria Mezzorana: ha detto loro di rubare una macchina, di nasconderla in una legnaia a casa di Mezzorana, di riempirla di esplosivo, di telefonare ai carabinieri. Ha poi consegnato ai tre il T4, da affidare all'esplosivista del gruppo. Poi, dopo la prima e ultima riunione con gli esecutori materiali, li ha salutati ed è andato ballare. Sempre secondo i carabinieri, Resen non è neanche stato ad Amburgo.
La descrizione che Mingarelli dà di lui è: “autenticamente antisociale”, “mente perversa”, “irrequieto”, “ora esercente, ora camionista, talaltra cuoco e talaltra marittimo”, “un violento”. E poi coverebbe nei confronti dei carabinieri “un odio profondo e assurdo”.
Così dopo il suo ritorno a Gorizia (si è ammalato e viene sbarcato per curarsi) cominciano a interrogare anche lui.
Ma Resen l'ultima sera al ristorante Aci se la ricorda bene: quel 26 maggio cucina una scarpena, un piatto raffinato che fa una gran bella figura. Tanto che il gestore del ristorante, il signor Veronese, infila mezzo limone nell'occhio del pesce e dice soddisfatto: “Così è più bello”. Ed era proprio un bel piatto, ricorderà Resen.

La dark lady.

Maria Mezzorana, quarant'anni, sorella di Gianni. Separata, ha una figlia ormai grande. Fa la cameriera. Tra i suoi fidanzati c'è stato Walter Di Biaggio, ladro, che a un certo punto finisce in galera. Allora Maria si mette con Bruno Furlan, un altro balordo. A causa di Di Biaggio e di Furlan i carabinieri (o forse la polizia) le perquisiscono la casa: è in quel momento, si dirà, che Maria matura il fermissimo proposito di vendicarsi.
In quel mese di maggio del 1972 lavora alla trattoria da Sonia, vicino a Peteano. Qualcuno racconterà di averla vista fare autostop su quella strada, la sera del 31 maggio. Del resto è così che il colpevole si allontana dal luogo della strage: in autostop. Al limite in taxi, come Valpreda (in questo caso è raccomandabile che il tassista-testimone di lì a poco muoia all'improvviso di polmonite secca senza febbre).
Maria viene interrogata molti mesi dopo l'eccidio: entra in caserma alle 10 del mattino e la lasciano andare alle 6 di sera. Alle 2 del pomeriggio le portano un caffè. Un amico carabiniere una volta le ha detto di non accettare mai niente dalle forze dell'ordine: e infatti, racconterà, “quella volta lì i me ga dà un caffè con le gocce dentro. Quando son stada fora gò vomità tutto e go sentì odor de medicina”. Tempo dopo il capitano Chirico (“un bel omo”) che conduce gli interrogatori le dice “Signora, ci aiuti, non sappiamo che pesci pigliare”. Lei risponde “Devo dirghe mi dove andarli a cjapar?”

L'esperto di esplosivi.

Enzo Badin, venticinque anni, famiglia piccolo-borghese. Non dice a nessuno della bocciatura agli esami di abilitazione tecnica e finge anzi di essersi diplomato e di studiare medicina all'università. Sogna di fare il giornalista e per questo bazzica la sede del Gazzettino, dove fa il fattorino-factotum: questo lo porta a frequentare poliziotti e carabinieri, che si insospettiscono proprio perché Badin chiede troppo spesso se ci sono notizie sulla strage. Conosce Mezzorana, Budicin e Larocca e spera ingenuamente di fare uno scoop.
La sera del 31 maggio, dice, era a Trieste ma non ricorda in quale locale. Ha cognizioni di esplosivi? Sì, dicono i carabinieri: ha fatto le scuole tecniche. In più Badin ha frequentato in passato una comune di anarchici. E anarchia nell'immaginario borghese significa bombe.
Così senza saperlo e senza venire mai interrogato formalmente Badin diventa l'esplosivista, nonché il telefonista di riserva, nel caso la voce non dovesse corrispondere a quella di Mezzorana.
E quale sarebbe il movente di Badin, un tipo tranquillo che non odia le forze dell'ordine né appartiene alla malavita locale?
Lì Mingarelli e Chirico superano se stessi: senso dell'amicizia.
È quasi fatta, gli elementi ci sono tutti. Ne manca uno, fondamentale: il testimone.

Il supertestimone.

Walter Di Biaggio, pregiudicato per reati contro il patrimonio, è l'ex amante di Maria Mezzorana. È finito in carcere nel novembre del 1971: era andato a rubare a casa di un avvocato, pare il suo ex-legale, collezionista di armi antiche, e aveva abbandonato il piede di porco sul luogo del reato lasciando la propria firma. Mentre è in carcere Maria lo lascia per mettersi con Bruno Furlan, e lui cova la vendetta.

Nel luglio del 1972 Di Biaggio ha il primo colloquio con i carabinieri: offrirà loro la storia, il filo conduttore che spiega le ragioni e le modalità della strage. Racconta come Resen, camionista, si sia procurato il T4 “probabilmente in Svizzera”, come la Mezzorana gli avesse comunicato l'intenzione di fare la strage e come Gianni Mezzorana abbia rubato la macchina. L'idea dell'attentato i sei colpevoli l'avrebbero presa da lui, che in passato aveva pensato di organizzare una serie di attacchi contro le forze dell'ordine per distrarle e rapinare con calma una banca.

Così il PM Bruno Pascoli ricostruisce il progetto criminoso: “L'insana idea sorse nel luglio 1971, quando il Resen, parlando con Bruno Furlan, in presenza di Walter Di Biaggio, gli propose di far saltare una caserma dei carabinieri o della pubblica sicurezza. [...] Un giorno, a causa dei continui fastidi cagionati dalla pubblica sicurezza e più ancora dai carabinieri, la Maria Mezzorana, nella cui abitazione frequentemente ebbero a riunirsi il Resen, il Furlan e il Di Biaggio e anche il di lei fratello Gianni, dando sfogo ai propri sentimenti di incontenibile rancore verso i carabinieri, che poco prima avevano effettuato una perquisizione nel suo domicilio, esclamò, in preda alla più viva agitazione, che era ora di finirla e che gliel'avrebbe fatta pagare, addirittura accennando all'idea di farli saltare in aria. Ciò accadeva in presenza del di lei fratello Gianni, del Larocca e del Budicin. Costoro, che con le forze dell'ordine avevano avuto non soltanto noie, ma anche rapporti per fatti di una certa gravità e che pertanto a loro volta nutrivano odio, specialmente per i carabinieri, si sentirono quasi istintivamente determinati ad agire autonomamente e immediatamente”.

Ecco come nasce una strage: un giorno a uno viene l'idea di far saltare in aria una caserma; tempo dopo una che vuole vendicarsi dei carabinieri si ricorda di questa idea e la comunica ai propri complici animati dallo stesso diabolico proposito.

E la strage si fa.

La gita a Pieris.

C'è un altro elemento che entrerà nell'inchiesta e che in assenza totale di prove e di nessi assumerà un luce sinistra, avvalorando la tesi della crudele vendetta: la gita a Pieris.
Pieris è una frazione di San Canzian d'Isonzo, vicino a Monfalcone. Per un po' di tempo Maria Mezzorana aveva lavorato in una trattoria davanti al ponte di Pieris molto frequentata dai soldati dopo le manovre: dai soldati aveva sentito dire che sotto il ponte c'era dell'esplosivo e l'aveva raccontato agli amici. Un giorno Mezzorana, Larocca e Budicin fanno un giro da quelle parti, si ricordano delle parole di Maria e cercano l'esplosivo sotto il ponte, senza trovarlo.
La storia finirebbe qui, se al bar una sera, dopo i primi interrogatori, a Budicin non venisse in mente di dire ingenuamente al Larocca: “Pensa ti se i saveva del ponte de Pieris, de quela volta che gavemo cercà l'esplosivo”.
Pensa ti.
Quella sera stessa qualcuno riferisce la frase ai carabinieri. La gita a Pieris entra così ufficialmente nell'inchiesta, non perché i tre avessero trovato l'esplosivo, ma perché avevano la ferma intenzione di trovarlo.
Perché cercare dell'esplosivo, se non per usarlo? E come usarlo, se non per imbottire una Cinquecento e fare una strage?

21 marzo 1973.

Dal punto di vista istruttorio, dal 1° agosto all'8 novembre 1972 è il vuoto assoluto: né interrogatori, né ispezioni, né perquisizioni. L'8 novembre su ordine dall'alto l'autorità inquirente si sposta sulla pista programmaticamente “non politica”, quella della malavita locale. I sei penseranno però sempre di essere sentiti in qualità di testimoni, non di imputati.

Resen subisce un unico interrogatorio (durante il quale gli viene ricordato il suo passato nella destra e proposto di fare l'infiltrato, lui rifiuta), poi niente fino all'arresto, anche se in quei mesi si accorge di essere seguito.
Lo vanno a prendere all'alba del 21 marzo 1973. Davanti alla caserma di via Nazario Sauro un carabiniere lo guarda e dice: “L'ho visto al Brennero”. Questo perché il capo di imputazione sulla provenienza dell'esplosivo è incerto e gli inquirenti hanno detto che è stato trovato in Germania: dunque per pararsi le spalle serve qualcuno che dica di aver visto Resen passare la frontiera.
Fuori della caserma c'è una folla inferocita, giornalisti, fotografi, la televisione, tutti contro i “mostri”. Gridano “assassini”, “pena di morte”, cose così.
Quando lo portano nel carcere di via Barzellini, che sta proprio lì vicino, Resen incrocia una cugina: lei lo riconosce, capisce e scoppia a piangere. Lui le grida “Ma va' a casa, va'!”
“Chissà perché l'ho trattata così”, rimpiangerà poi. “Ero fuori di me”.

Anche a Budicin, che nel frattempo ha perso il lavoro, viene proposto di collaborare. Gli offrono in cambio un passaporto e 30 milioni, ma lui dice che non sa nulla. Gli fanno credere che i complici abbiano fatto il suo nome, che gli conviene parlare.
Gli chiedono come mai cercassero l'esplosivo a Pieris. “Mah, forse volevano far saltare l'auto dei Rustja”, ipotizza. Budicin è terrorizzato. Però non fa nomi, non confessa. Il capitano Chirico lo informa bonariamente che l'unica cosa che può fare è avvisarlo del mandato di cattura, per permettergli di scappare.
Poi passano i mesi. Budicin non scappa. Per ingenuità, per ignoranza o semplicemente perché è innocente: fatto sta che il trucchetto della fuga (che equivarrebbe a una confessione) non funziona.
I carabinieri di Verona vanno a prenderlo alle 5 di mattina del 21 marzo per portarlo a Gorizia. Mentre gli prendono le impronte, un maresciallo gli domanda “Non tremi?”, dato che in quei momenti lì tremano sempre tutti. E lui risponde “No, perché non ho fatto niente”.

Furio Larocca si è sempre dichiarato innocente. Lui non ce l'aveva con i carabinieri, dice, lui ce l'aveva con i Fabris e i Rustja. Alle 5 del 21 marzo 1973 si sveglia, apre gli occhi e si vede circondato dai mitra. Sua madre è in lacrime, suo padre ha un grave malore.
Il primo pensiero di Furio è: “Qualcuno ha spaccato la macchina a Rustja o a Fabris”.

Gianni Mezzorana da novembre non è stato più sentito dagli inquirenti: sa che le indagini vanno avanti, ma è tranquillo. La sera del 20 marzo 1973 resta una mezz'ora a guardare un camion che brucia in una piazzola vicino a casa sua. Poi va a dormire. Alle prime luci dell'alba si ritrova i carabinieri attorno al letto con i mitra puntati. Lui pensa che abbiano bisogno di una testimonianza per il camion della sera prima. Se lo portano via.

La mattina del 21 marzo 1973, alle 6, i carabinieri vanno a prendere anche Enzo Badin. Lui non sospetta nulla, crede che sia per qualcosa che ha a che fare con il giornale. Del resto non è neanche stato formalmente interrogato, era convinto di seguire l'inchiesta. Quando legge il proprio nome e cognome sul mandato di cattura, e la parola strage, pensa a un errore. Finisce in cella d'isolamento.

Ma per primi i carabinieri vanno a prendere la Maria Mezzorana. Sono le 4.40 del mattino, è ancora buio. Lei dice “Andemo, andemo subito a chiarir” e si infila il cappotto. Mentre la portano in caserma e poi in carcere continua a ripetere “I xe mati!”.

Trieste, 1° aprile 1974.

Il processo dovrebbe svolgersi a Gorizia: invece no, viene fissato a poco più di un anno di distanza dall'arresto dei sei imputati alla corte d'assise di Trieste, come a Trieste nel marzo del 1973 si è svolto il processo per vilipendio e danneggiamenti contro Larocca e Budicin.
Non mi soffermerò qui sull'identità politica e sull'atmosfera reazionaria di Trieste in quegli anni, né sulla magistratura nera. Mi basta osservare che era la sede migliore per un processo che non doveva puntare a destra né avere implicazioni politiche. Ma quale strategia della tensione, quali trame eversive, quale pericolosità del fascismo.
Il processo per la strage di Peteano si apre il 1° aprile 1974.
Nel frattempo la stampa locale e quella nazionale non hanno fatto molto per mettere in discussione la direzione presa dalle indagini. Quando Mingarelli ha annunciato gli arresti, un anno prima, un giornalista ha svelato dettagli sconosciuti ai suoi colleghi avvalorando la tesi dell'odio e della vendetta in un articolo che non lasciava spazio ai dubbi. Quel giornalista è Giorgio Zicari del Corriere della Sera, lo stesso che aveva sbattuto in prima pagina Valpreda come autore della strage di Piazza Fontana (Zicari nel 1974 ammette in un'intervista all'Espresso di aver collaborato con il Sid).
Per quanto riguarda la stampa locale, il giorno prima dell'apertura del processo il colonnello Mingarelli va in visita ufficiale alle varie sedi dei giornali, Gazzettino, Messaggero veneto e Piccolo: strette di mano, complimenti, cordialità, plauso e incoraggiamenti.
Il processo, benché clamoroso, verrà seguito solo parzialmente dalla stampa nazionale: sono presenti per tutta la durata solo La Stampa e Il Giorno (al cui inviato, Gian Pietro Testa, dobbiamo tutto: è grazie a lui se non c'è stato un totale isolamento del processo).
Perché i sei di Gorizia non fanno notizia, sono dei poveracci.
Poveracci, sì, ma innocenti.

Il processo.

In un processo che non deve essere politico la battaglia politica comincia subito. In particolare l'avvocato della difesa Nereo Battello, comunista, imposta il processo su basi del tutto impreviste per i giudici e per la parte civile, attaccando i modi con cui gli inquirenti hanno condotto l'inchiesta. Accusa Mingarelli di aver sospeso le indagini a destra per ordini giunti dall'alto, di non aver ascoltato come testimone Giovanni Ventura che aveva dichiarato di immaginare chi fosse il responsabile della strage e lo aveva definito “uno pronto a tutto”.
Battello mette poi in luce gli errori clamorosi commessi durante le indagini.
Per esempio, quando il PM Pascoli contesta a Resen perfino il viaggio ad Amburgo per imbarcarsi, negando che risulti una prenotazione a suo nome, Resen cava di tasca il conto dell'albergo e lo presenta alla corte.
Per esempio, il proprietario della Cinquecento rubata, Marcello Brescia, viene chiamato a riconoscere in Furio Larocca uno dei giovani che quella sera stavano all'osteria di via del Brolo. Lui inforca gli occhiali, guarda gli accusati, indica Larocca e dice: “Dovrebbe essere quello là con la barba, ma non è lui”. Ne sono sicuro, aggiunge. Ma come, gli chiedono, perché in fase di istruttoria quando è stato messo a confronto con lui l'ha riconosciuto? Ma quale confronto, risponde lui, mi hanno solo fatto vedere una fotografia e basta, quello lì io non lo riconosco.
Le testimonianze di volta in volta confermano gli alibi ma soprattutto evidenziano il modo in cui Mingarelli e Chirico hanno condotto le indagini.
Perfino il legale di Larocca, l'avvocato Pedroni, che è missino e non è certo interessato alla pista nera, osserva: “Riporto i giudizi da voi espressi nel rapporto al magistrato: Gianni Mezzorana: esperto di vetture (non sa guidare la macchina, non ha la patente, è molto miope...) la sorella Maria: classica figura di istigatrice; Larocca: un violento; Badin: un noto esperto balistico; Budicin: capace di tutto per danaro. Dove avete preso queste informazioni?”
A un certo punto Mingarelli dirà la frase che riassume perfettamente il suo metodo di indagine: “Io sono stato come una scopa che ramazza tutto al buio, poi sceglie”.
Poi Di Biaggio scardina anche la tesi dell'esplosivo e nega di aver mai parlato di Peteano. Emerge anche come teste poco affidabile: “Io volevo i soldi e la libertà. I carabinieri si erano mostrati condiscendenti”.

Ma la sorpresa maggiore viene con la perquisizione della baracca di via Giustiniani, in zona Montesanto, dove Mezzorana avrebbe tenuto nascosta per cinque giorni la Cinquecento rubata.
Si osserva che la baracca è abbastanza spaziosa per contenere una macchina anche più grande. La porta della baracca è chiusa con un lucchetto. Le chiavi del lucchetto, secondo Mezzorana, ce l'hanno suo fratello e il signor Nardin. Allora si manda a chiamare il signor Nardin, che ha in uso la baracca insieme al fratello di Mezzorana. E il signor Nardin spiega candidamente che nel maggio del 1972 lì c'era tanta di quella legna accatastata che non ci si passava nemmeno a piedi, figuriamoci parcheggiarci una macchina. E che le chiavi le aveva solo lui, tanto che il fratello di Mezzorana doveva chiedergliele se voleva accedere alla legnaia.
Questo significa solo una cosa: che là dentro la Cinquecento non c'è mai stata.
Un giornalista domanda al signor Nardin: “Ma lei non è mai stato interrogato?”
“No”, risponde lui.

Per fare più breve storia già lunga e complicata

Il 7 giugno 1974 la corte si ritira in camera di consiglio e vi rimane sette ore. La sentenza: assoluzione per insufficienza di prove. Mentre gli imputati si abbracciano, l'avvocato Battello (inquisito, denunciato, attaccato personalmente) scoppia a piangere.
Seguirà un'assoluzione in appello nel 1976, quindi un rinvio a giudizio in cassazione per un nuovo esame nel 1978 e poi la definitiva assoluzione con formula piena nel 1979.
Dopo la conclusione del processo di primo grado per il colonnello Mingarelli giunge la promozione a generale.
Potremmo ancora parlare della successiva denuncia alla corte di cassazione del procuratore Portelli per i reati di abuso e omissione di atti d'ufficio, falso ideologico e violazione del segreto istruttorio, e dell'interpellanza di Loris Fortuna in Parlamento. Ma questa è già un'altra storia, meglio documentata.
Noi adesso vogliamo ricordare i nomi dei colpevoli.

La verità, circa.

“Ecco, allora c’è una precisazione da fare. L’attentato di Peteano non ha le connotazione della strage. È strage sul piano giuridico. Cioè sulla base degli articoli del codice penale può essere, viene definita strage. Perché il numero dei morti poteva essere indeterminato. Cioè invece di tre carabinieri ne potevo uccidere cinque, sei sette. Però non è strage, nel senso che l’attentato di Peteano colpisce per la prima e unica volta un apparato militare dello Stato. In un posto solitario, dove viene esclusa la possibilità di colpire i civili e ha una finalizzazione esclusivamente di opposizione al regime, cioè non si colpisce l’apparato militare del regime per dare la possibilità al regime di sfruttare quest’attentato. Ha avuto, come era nelle mie intenzioni, implicazioni politiche pesantissime. Perché anche se sono state sottaciute, negli ultimi anni, di fronte alla Commissione stragi, Francesco Cossiga ha dovuto ammettere che dopo l’attentato di Peteano iniziò il percorso di divaricazione tra l’Arma dei carabinieri e il Sid da un lato, e la destra dall’altro. Cioè l’arma dei carabinieri pur tacendo, occultando le prove, depistando le indagini, insieme ad altri apparati dello Stato (Ministero dell’interno, Guardia di Finanza) prese atto che dall’estrema destra gli era venuto un attacco di quella gravità. E cominciò a prendere le distanze, a staccare dall’estrema destra. Quindi definire l’attentato di Peteano una strage, si confondono un po’ le idee alle persone nel senso addirittura di far credere che l’attentato di Peteano avesse le stesse finalità della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna, della strage dell’Italicus. Esattamente l’opposto”.
Vincenzo Vinciguerra, Carcere di Opera, 8 luglio 2000

La verità si sa solo dodici anni dopo l'eccidio, e solo grazie a una spontanea assunzione di responsabilità: nel 1984 Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine Nuovo latitante dal 1974 (prima in Spagna, dove aderisce ad Avanguardia Nazionale, e poi in Argentina), parla.
Vinciguerra si è costituito nel 1979, motivando il suo gesto con la volontà di non compromettere con la latitanza la sua dignità di militante rivoluzionario. Al momento della confessione Vinciguerra si trova in carcere per il tentato dirottamento all'aeroporto di Ronchi dei Legionari dell'ottobre 1972, che si era concluso con la morte dell'ex-paracadutista Boccaccio e la fuga di Cicuttini.

Dice Vinciguerra: “Mi assumo la responsabilità piena, completa e totale dell'ideazione, dell'organizzazione e dell'esecuzione materiale dell'attentato di Peteano, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguivano una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello stato [...] Il fine politico che attraverso le stragi si è tentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioni innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. In ultima analisi il fine massimo era quello di giungere alla promulgazione di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo si sarebbe realizzata quell'operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva vacillare il proprio dominio. Il tutto, ovviamente inserito in un contesto internazionale nel quadro dell'inserimento italiano nel sistema delle alleanze occidentali”.

Dunque si assume la responsabilità per “fare chiarezza”, avendo capito che tutte le precedenti azioni dell'estremismo di destra, incluse le stragi, in realtà erano state manovrate da quello stesso regime che si proponeva di attaccare. L'attentato, nelle sue intenzioni, doveva essere un atto rivoluzionario: un'azione di guerra esplicitamente rivolta contro lo Stato, impersonato dai Carabinieri, e non contro una folla indiscriminata.
La confessione gli costa la condanna all'ergastolo. Solo quando la condanna passa in giudicato e non c'è più la possibilità di ricevere benefici in cambio di rivelazioni, collabora. Così la magistratura ricostruisce l'attività di Ordine Nuovo di Udine, guidata da Vinciguerra insieme al fratello gemello Gaetano (pare che perfino Freda parlasse compiaciuto di questo gruppo di “giovani decisi, disposti a tutto”).
Ma a Peteano Vinciguerra non ha agito da solo.

Nel frattempo il fascicolo su Peteano è finito nelle mani del giudice Felice Casson, che ha cominciato a far luce su una trama complessa di depistaggi e omertà. C'è da dire che molti sapevano, e molti avevano paura di esporsi. Per esempio già nel giugno del 1972 un funzionario della prefettura di Trieste aveva inviato agli inquirenti alcune lettere anonime, nelle quali descriveva gli attentatori.
All'inizio degli anni Ottanta Casson collega il dirottamento di Ronchi alla strage di Peteano e individua i tre responsabili: Boccaccio, Vinciguerra e Cicuttini. Quando partono i mandati di cattura, nel 1982, Vinciguerra è già in carcere (ma non ha ancora parlato). Cicuttini invece è latitante a Madrid, dove ha sposato la figlia di un generale franchista.
Casson riesce a dimostrare con una perizia fonica che il telefonista di Peteano è Cicuttini. Inoltre rinvia a giudizio per favoreggiamento aggravato Giorgio Almirante (che uscirà dal processo per amnistia): una serie di documenti bancari dimostra che Almirante ha finanziato Cicuttini in Spagna, fornendogli circa 34.000 dollari perché si operasse alle corde vocali.
Finalmente, dopo 26 anni di latitanza, Cicuttini cade in una trappola (non c'è stato verso di ottenerne l'estradizione, neanche con la condanna all'ergastolo): i magistrati italiani gli fanno offrire un lavoro a Tolosa e lui ci casca. I francesi lo arrestano, viene estradato, finisce in carcere.
A quel punto Cicuttini chiede di poter scontare la condanna in Spagna, essendo ormai cittadino spagnolo. Nel febbraio del 2001 il ministro della Giustizia Fassino risponde di no. Per forza, lo stragista sarebbe subito scarcerato.
Nell'ottobre del 2002 il nuovo ministro, Castelli, trasmette alla procura generale di Venezia la richiesta di promuovere il procedimento per accontentare Cicuttini “esprimendo parere positivo al trasferimento in Spagna”. I giudici veneziani rispondono di no. La difesa di Cicuttini fa ricorso in cassazione, il Guardasigilli conferma il parere positivo.
E la Cassazione. Sesta sezione penale. Con la sentenza 1729. Risponde nuovamente di no. Equivarrebbe alla concessione della grazia, dice.
In quel momento Cicuttini ha scontato circa 600 giorni di carcere per ogni carabiniere ucciso.
In questo momento, invece, quel ministro della giustizia è sottosegretario alle infrastrutture.

Dunque, la verità, circa, sull'esecuzione materiale: i tre rubano la Cinquecento il 26 maggio, tolgono la ruota di scorta e piazzano all'interno del bagagliaio da 5 a 8 chili di candelotti di esplosivo presi in un paio di cave del nordest. Collegano un meccanismo a strappo al sistema di apertura del cofano e la macchina venne portata la sera stessa sul luogo dell'imboscata. Per renderla 'sospetta' sparano con una pistola automatica calibro 22 un due colpi sul parabrezza. La pistola è di Cicuttini (verrà trovata accanto al corpo di Boccaccio dopo il fallito dirottamento, ma non se ne farà nulla).
Poi: “Senta, vorrei dirle che la xe una machina che la ga due busi sul parabrezza. La xe una cinquecento bianca, vizin la ferovia, sula strada per Savogna”. Altro che Mezzorana o Badin, quella è la voce di Cicuttini.

Un'altra storia.

I dubbi non sono tutti chiariti. Per esempio, come mai l'attentato nelle dichiarazioni di Vinciguerra è un attacco allo stato eppure lo stato fa di tutto per coprire e depistare?
Come ha scritto il senatore Pellegrino nella sua relazione della Commissione Stragi: “può ritenersi un fatto storico accertato […] l'illecita copertura attribuita agli estremisti di destra da parte di alti ufficiali dell'Arma dei Carabinieri, tra questi il col. Mingarelli, condannato dalla Corte di Assise di Venezia per falso materiale ed ideologico e per soppressione di prove, con decisione confermata dalla Cassazione nel maggio 1992” , così come “certo, o almeno estremamente probabile, deve ritenersi altresì che altro settore degli apparati, e cioè il SID (Servizio Informazioni Difesa), conoscesse l'identità dei colpevoli fin dal 1972”.
Una spiegazione sembra offrirla la scoperta della struttura di Gladio, emersa proprio durante le indagini del giudice Casson sulla strage di Peteano. La vicenda giudiziaria si chiude nel 1987 con la condanna all'ergastolo di Vinciguerra e Cicuttini quali esecutori materiali della strage. Ma da dove provenivano le armi? L'esplosivo veniva da quella cava di Aurisina scoperta pochi mesi prima dell'attentato e che poi è stata identificata come uno dei nascondigli di Gladio, provenienza secondo Casson anche degli accenditori a strappo usati per innescare l'autobomba? I depistaggi servivano a impedire che venisse alla luce la struttura segreta, che non a caso aveva complesse ramificazioni proprio qui a nord-est, la zona più esposta alla minaccia comunista?
Sono molto interessanti anche altre dichiarazioni di Vinciguerra, che si è autodenunciato per esporre chi tirava i fili, e che critica Casson per essersi fermato al livello basso dei carabinieri. I carabinieri, per Vinciguerra, nella strage di Peteano hanno svolto due ruoli: uno di copertura e uno di depistaggio. Di copertura, perché in quegli anni la politica del governo era usare i neri per colpire i rossi. Di depistaggio, perché quando hanno saputo, qualche giorno dopo, che l'attentatore era lui hanno usato il deposito di Aurisina tentando di accreditare un collegamento che non c'era: perché col Nasco di Aurisina hanno fatto saltare Gladio (e Gladio era un elemento che sfuggiva al controllo dell'Arma).
Questa la versione di Vinciguerra: il Ministero degli interni e la polizia di stato hanno dato l'ordine di disinteressarsi di Peteano. Sono state fatte sparire le prove, le lettere anonime che descrivevano assai bene l'attentatore. I Servizi segreti, Miceli e il Sid a loro volta hanno lavorato per il depistaggio e per la sparizione delle prove. E infine, la Guardia di Finanza: l'ufficio "I" aveva come informatore un fascista che a sua volta, dopo l'attentato, è andato a raccontare che i responsabili erano Vinciguerra e Cicuttini, nomi e cognomi.
Vinciguerra fa un'altra rivelazione interessante: tra il 1971 e il 1972 per ben tre volte Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi gli chiedono di assassinare Mariano Rumor, presidente del consiglio al tempo della strage di piazza Fontana. Guarda caso le tre richieste coincidono rispettivamente con la scarcerazione e l'arresto di Freda e l'imminente arresto di Rauti. Dunque c'è un collegamento tra questo piano e piazza Fontana: si voleva eliminare un personaggio politico compromesso con la strage, dice Vinciguerra, che intuisce un legame ad altissimo livello tra Polizia, Ministero degli interni, apparati di sicurezza e Ordine Nuovo.

Ma anche questa è già un'altra storia.
Qui volevo parlare dei sei di Gorizia, di una strage anomala, dell'embolo del nord-est, di una strada che io cerco di fare il più possibile (perché è molto bella) e Paolo fa ogni mattina (perché va al lavoro). Raccontare di frasche, campi di calcio, viottoli, legnaie, piste da ballo, trattorie con gioco di bocce e tiro al piccione, ristoranti. Di carrozzieri, meccanici, spiantati, muloni, pescatori, operai, imbianchini, donne con tanti fidanzati. Di partite di calcio sul primo e di film sul secondo.
Di una scritta sul muro di viale Virgilio, “Mariano Rumor boia”, di me che chiedo ad Antonia “Ma nonna, chi è Mariano Rumor?”, di lei che risponde tranquilla, soprappensiero, “forse un delinquente”.
E come facesse a saperlo non l'ho mai capito.

I sei di Gorizia si sono fatti 15 mesi di carcere, di cui due di isolamento. Poi c'è chi ha tirato avanti, chi ha ripreso a lavorare e ha fatto una vita tranquilla, chi ne è stato segnato, chi non ne può più di essere indicato come un piccolo delinquente comune ogni volta che si commemora la strage.
Alla Maria le questioni di cuore hanno dato sempre del filo da torcere. Un giorno ha dato appuntamento a due morosi sul ponte sull'Isonzo e uno dei due è finito di sotto. Adesso a Gorizia ci si ricorda del donnino biondo soprattutto per questo.
Romano è diventato uno chef famoso e bravissimo.

---

Questo post deve tutto al libro di Gian Pietro Testa, La strage di Peteano, Torino, Einaudi, 1976, e qualcosa ai ricordi della mia famiglia.

Altro materiale prezioso:
Aa.Vv., La strategia delle stragi dalla sentenza della Corte d'Assise di Venezia per la strage di Peteano, Roma, Editori Riuniti, 1989
Mammarella Giuseppe, L'Italia contemporanea (1943-1998), Bologna, Il Mulino, 1998 (Nuova edizione de G.Mammarella, L'Italia dalla caduta del fascismo a oggi, Bologna, Il Mulino, 1974) Mestre, 5 maggio 1987, La strage di Peteano, processo (file audio della durata di circa 6 ore)
Pellegrino Giovanni-Sestieri Claudio-Fasanella Giovanni, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000
Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi (documento .pdf di 584 pagine)
Testa Gian Pietro, Le stragi nere, Roma, Avvenimenti, 1992

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giovedì, maggio 29, 2008

Alcune parole sulla Pista Gialla

In questi giorni voglio raccontarvi una storia goriziana che è anche un piccolo manuale di depistaggio anni Settanta, sullo sfondo dell'Italia delle stragi, degli omicidi politici e della strategia della tensione: mi sono resa conto che dopo tanto tempo di quel segmento locale di un fatto gravissimo, carico di conseguenze e appartenente a un contesto ben più ampio si è parlato molto poco, anche qui.
Per me è l'occasione per continuare a raccontare - uscendo dalla sfera familiare - la Gorizia dei primi anni Settanta e alcuni suoi luoghi e personaggi, aiutata da un testo fondamentale e lucidissimo che uscì allora, dalla stampa dell'epoca e dai ricordi e dalle percezioni della mia famiglia e di amici.
Mi rendo conto che in era televisiva post-lucarelliana si corre sempre il rischio di essere visualizzati con soppracciglio alzato, gesti misurati, nerovestiti e circondati da sinistre sagome di cartone.
Invece qui facciamo che ci mettiamo comodi e io vi porto in giro per Gorizia e i suoi dintorni: stradine ombreggiate che costeggiano l'Isonzo, viottoli sterrati, trattorie, private, vecchi alberghi, bar, night di Nova Gorica, carrozzerie, campi da calcio, posti dove è cambiato tutto e posti che sono rimasti gli stessi. Mi sbraccerò, gratterò le marce. Non ci vedrete sagome di cartone. Fantasmi, forse.
Qui, dato il mezzo, ho l'esigenza di sintetizzare e accorciare, ma scrivendone mi sto rendendo conto che questa storia (rimasta nella mia testa per un bel po' di tempo) è molto bella e può diventare qualcosa di più. In ogni caso mi piace l'idea di usare il post in progress come strumento per smontare e rimontare i fatti, mettere ordine, raccontare. Ed essendo la materia vasta e duttile, vi avverto che potrei continuare a intervenire con ritocchi, appunti, annotazioni e cambiare in corsa.
Sarà, insomma, un post ad alta instabilità tettonica.
Si chiamerà "La pista gialla".

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mercoledì, maggio 28, 2008

"Addio salute"



dalle tre alle cinque sai
che se fumi tu potrai
consumar la cotoletta
senza posar la sigaretta!"

dalle tre alle cinque del pomeriggio, tutti i giorni
al Caffè Serebrjanka

promozione

"ADDIO SALUTE"

nuova sala da pranzo per FUMATORI!!!

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martedì, maggio 27, 2008

L come Libri

[Come si suol dire: la storia è vera, i nomi sono inventati.
In ogni caso, quando entrano qui dentro diventano tutte storie]


All'inizio fu Congiu.
Arrivò su una vecchia Alfasud color crema. Lo accompagnavano la moglie e la suocera. Zoppicava.
Me lo avevano consigliato un paio di librai amici: il più bravo è Congiu, avevano detto, lavora anche nello scolastico. Fa le Tre Venezie.
Delle condizioni avevamo già parlato. Non restò che firmare il contratto, staccare la bolla di consegna e caricare i libri.
"Meglio così. Settore difficile, invece, lo scolastico", commentò, chiudendo il bagagliaio. "E scontistica diversa", aggiunse con fare un po' misterioso.
Ci salutammo con una stretta di mano, mentre moglie e suocera sorridevano da dietro il finestrino.
"Cosa le è successo, alla gamba?"
"Poliomielite da piccolo".
Poliomielite da piccolo furono le sue ultime parole: scomparve con 1520 copie.
Un libraio mi disse "non devi parlare con Congiu, devi parlare con Caselotto", e mi passò un numero di Padova. Io ci parlai anche, con Caselotto. Della CIELLE di Caselotto & C.: non mi restava che sperare che la elle stesse almeno per libri. Comunque Caselotto aveva appena dichiarato fallimento. Dicono che poi abbia riaperto come ELLECI e l'abbia intestata alla moglie.
Perdere 1520 copie così, da subito, non è un buon segnale. Si resta delusi, in ogni caso fa pensare.
Allora decido che d'ora in poi si fa da soli.
E da soli non va male. Tanto fai nicchia, basse tirature. Vai in librerie specializzate, organizzi presentazioni, ti promuovi da solo, osservi, impari. La scontistica, come avrebbero detto Congiu e Caselotto, è fondamentalmente diversa.

Poi arriva lui, con le sue giacche amaranto da croupier sulle navi da crociera e il ciuffo tinto da cantante sentimentale. Zimolo.
"Mi son Vinicio Zimolo, e stago metendo su la più bela libreria de Trieste. Con prestigiosa salèta per presentazioni".
La libreria in effetti era storica, centrale, recentemente rinnovata con gusto. Il gusto di Zimolo, certo, che virava un po' al pompeiano: una Pompei ultimi giorni, con un presentimento di cenere e lapilli. Comunque il negozio contava vari piani, buon assortimento e soprattutto la famosa saletta per presentazioni. Con poltroncine rosse.
Vero, era un po' allarmante che Zimolo dichiarasse orgoglioso a voce troppo alta "sono nato come distributore", come era allarmante la sua storia d'amore con gli stucchi e il cartongesso, potenzialmente fatale in termini finanziari. Però un amico di famiglia si sentì di garantire per lui e il suo assistente era un tizio di buon senso.
In ogni caso calcolai che a questo Frankie Avalon del Carso triestino non avrei mai messo in mano più di cinquanta copie alla volta.
Lui, intanto, dispensava consigli paterni: su tipografia, tiratura, "scontistica", formati e prezzi di copertina.
L'idillio andò avanti per un po'.

Un giorno Zimolo telefonò e mi chiese con urgenza cinquanta copie di un solo libro, il più caro in catalogo. Diceva di aver piazzato un ordine. Perché lui continuava a fare il distributore. "Per passione", aggiungeva con modestia, ma sempre a voce troppo alta.
Cosa sono cinquanta copie. Diamogliele.
Il giorno dopo sfogliavo l'avviso di fallimento della storica libreria, con allegato elenco dei creditori.
Che bello, c'ero anch'io.
Mai più rivisto, Zimolo. Me lo immagino che riempie due valigie di giacche amaranto, cravatte a motivi cashmere, pigiami di seta a righe, fazzoletti di batista e copie di libri che è riuscito a raccogliere con la storia dell'ordine urgente. Cosa farà, le venderà porta a porta, nei mercati, alla moglie di Caselotto? Non si sa, Zimolo quel giorno chiude le valigie, prende l'impermeabile, stacca il quadro elettrico e se ne va.

La storica libreria nel centro di Trieste è diventata un supermercato del libro con allettante scontistica ma deludente assortimento. L'assistente savio si è messo in proprio e ogni tanto ordina qualcosa via fax, pagamento contrassegno e sconto minimo: fingiamo di non conoscerci, con l'imbarazzo di due fidanzate tradite dallo stesso uomo. Ci va bene così.

E Congiu, Congiu.
L'ho rivisto poco tempo fa. Uguale, solo un po' invecchiato. Guidava una vecchia Volvo 240 station wagon color vinaccia.

Non zoppicava più.

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lunedì, maggio 26, 2008

Porte blindate Čikatilo



Dopo il banco dei pegni "Raskol'nikov", la porta blindata modello "Čikatilo" ("il ladro è in agguato"; quella figurina da Far West arrampicata sul palo della luce sarebbe, appunto, un ladro). "I tuoi vicini ti invidieranno!"
Che sarebbe come chiamare un sistema d'allarme per villette "Charles Manson". Mi sa.

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domenica, maggio 25, 2008

Biliv

"Nafing els ken stop me if ai giast biliv/end ai biliv in mi"
Dima Bilan (Viktor Nikolaevič Belan), Believe, 1° posto, 272 voti.



Il video vale la pena, se non altro per l'apparizione del campione olimpionico di pattinaggio su ghiaccio Evgenij Plušenko, con esibizione dall'inconfondibile effetto-Pippero ("ti vedo non ti vedo" e "ballerino spaventato"). E forse anche per il mistico sbottonamento della camicia*, che fa perdonare gli incisivi da leprotto e quel principio di mullet meno autoironico della storia. Sarà anche che non è facilissimo non stonare con quell'archetto nel timpano, ma ho cominciato a trovare sinistramente gradevole questo glabro cucciolo della specie.

Qui la galleria fotografica di Drugoj, dal titolo "A volte ritornano" (tra i tanti perché, mi sono chiesta anch'io cosa ci faccia il degregori giovane con un mappamondo gonfiabile sotto il braccio).

*we can be Badessa, but just for one day.
Vi comunico che io ora credo, fermamente, nell'esistenza degli addominali bassi.

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venerdì, maggio 23, 2008

Umorismo dosto



BANCO DEI PEGNI
"RASKOL'NIKOV"

Vi serve urgentemente del denaro?
Venite da noi! Vi aiuteremo!

[Anche l'accetta. Li amo, li]

(via advertology.ru)

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martedì, maggio 20, 2008

lunedì, maggio 19, 2008

We Read Spazio Azzurro So You Don't Have To/1

Preoccupazioni, ossessioni, paure e sospetti: we read spazio azzurro so you don't have to, nuova serie.

Invece
ho vinto premio giornalistico ma preside non ha dato permesso alla mia prof di venire con me xrchè berlusconiana di ferro e lei invece si dice leninista

L'assicurazione
Perchè non vengono controllate a tappeto tutte le auto degli extracomunitari per vedere se hanno pagato l'assicurazione e se hanno passato la revisione?

Suspense!
CARO SILVIO sono di Catania la citta dimenticata dalle istituzioni solo nel periodo delle votazioni viene ricordata Ieri, mentre tornavo a casa, ho incontrato questi

Metterla in c.
E' VERO CHE LE FORZE DI POLIZIA SONO ESCLUSE DALLA DETASSAZIONE DEGLI STRAORDINARI. SE COSI E' UNA VERGOGNA! QUESTO E' IL PACCHETTO SICUREZZA? METTERLA IN C. ALLE F

Islamizzati nel sonno
ho visto anch'io ANNOZERO e condivido appieno il suo sdegno.Se non reagiamo subito, ci ISLAMIZZANO.Non dobbiamo aver paura di protest.ad ogni offesa.MARIA 4

Idea
sono dell'idea che questo vogliamoci bene non mi piace. A BERLUSCONI il popolo ha dato una forza infinita non si vada a perdere con il grande bugiardo

Ma
MA QUALCUNO CI PENSA ALLA XENOFOBIA NEI CONFRONTI DEGLI ITALIANI?

Saturi
i cittadini europei sono saturi di essere considerati ricettacolo di illegalità da tutto il mondo! Se la legge Shengen non funziona cambiamola Santo Cielo!!!

DNA
PRESIDENTE, NON TENDA TROPPO LA MANO AI SINISTRI !! PRIMA O POI lE AZZANNANO TUTTO IL BRACCIO- E' NEL LORO DNA. E POI LA SFOTTERANNO ANCHE ! STIA ATTENTO AI BOLSCEVIC

Savana
ANNOZERO 15/5 - POSSIAMO NOI ITALIANI ASCOLTARE UN BECERO CAFONE USCITO DALLA SAVANA DARE DEL DELINQUENTE UN NOSTRO MINISTRO, IN TV? MA CHE RAZZA DI PAESE E' QUESTO

Delinguente
ALL'ONOREVOLE CASTELLI VA TUTTA LA NOSTRA STIMA,A NESSUNO E' CONSENTITO DEFINIRE UN MEMBRO DEL NOSTRO GOVERNO (DELINGUENTE); SI E' PASSATA OGNI MISURA.

Bondi, il comunista
Bondi dia prova di non essere ancora un comunista. Abbia il coraggio di togliere i soldi statali a cinema,fiction,teatro.E' ora che i privati investano di loro!

Molto bolscevico
è possibile che se devo staccare un assegno per acquistare un paio di scarpe questo assegno sia segnalato all'ufficio imposte?Mi pare molto bolscevico!!!

Decapitazioni
In Italia un volgare talebano può dare impunemente del delinquente ad un membro del governo,senza scusarsi. La giustizia del suo paese non prevede scuse. Lo decapita.

Tutearse
Cio che piu disturba di RaiTre, è l'instaurazione del tu per tu.

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Rospi

"... come rospi in un pozzo, vedono solo un piccolo lembo di cielo: lo vedono pieno di stelle e strisce e pensano che tutto il cielo sia così".

M. K. Bhadrakumar a proposito dell'auspicabile riavvicinamento tra India e Iran, delle implicazioni geopolitiche del gasdotto iraniano e delle ossessioni euro-atlantiste.

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giovedì, maggio 15, 2008

Il vedovo

- Elio.
- Lina.
- Le cartine non si appallottolano per poi abbandonarle in giro per tutta la casa.
- Sono scontrini parlanti. Magari mi servono.
- Cosa farai quando non ci sarò più?
- ... [fischietta sommessamente]
- A cosa stai pensando?
- Alla mia prossima moglie.
- Ma non la trovi, un'altra che ti butta via le cartine. O che ti sceglie i vestiti da mettere. Ehi, Manu.
- Cosa.
- Pensa che il suo unico contributo alla vestizione è "metto la cravatta rossa?"
- Perché qua non tutte le occasioni sono da cravatta rossa. La gente non è pronta.
- Tranquilla, gli prenderò una badante.
- Non voglio una badante, voglio una seconda moglie.
- E come pensi di convincerla?
- La porto a ballare il sabato e la domenica.
- Sì, e il twist?
- Perché, scusate?
- Il twist lui non lo balla.
- Problemi all'anca. Ma alla seconda moglie non glielo dico.
- E come fai?
- Appena parte guarda-come-dondolo dico che ho il mal di testa.
- E certo.
- Poi mi metto in un angolino ad appallottolare di nascosto scontrini parlanti.
- Elio.
- Cosa.
- Te son proprio un bìghili-bìghili*.

Si amano, penso.

*espressione usata esclusivamente dai mir per riferirsi a un povero di mente, a un uomo dappoco, a un pandòlo decimo dan.

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martedì, maggio 13, 2008

Ogni scarrafone è bello a Vanja suo

Il titolo del tema era "La descrizione di un animale". Gli altri hanno parlato di cani e di gatti, ma il piccolo Vanja no: il suo animale preferito è un altro, il suo compito per casa una ballata trash.
Traduco (l'originale è così sgrammaticato da essere quasi intraducibile, ma sono rimasta fedele allo stile di questa epopea dello scarrafone).

Lo scarafaggio domestico
Lo scarafaggio domestico può vivere da per tutto. Il veleno e le radizioni non li amazzano tutti ma solo alcuni.
Le radizioni non li fanno quasi niente però la gente possono morire oppure restare con dei difetti.
Lo scarafaggio si mangia tutto quello che li capita sotto le zampe grasso di macchina benzina unto roba marcia oggetti.
Esso ha una cosa unica. Se gli stacchi la testa può andare vanti ancora due ore.
Esso può vivere in tutte le situazzioni. Stare nella spazzatura è per lui come stare in paradiso, come noi al ristorante.
Esso è di colore marrone e ha sei zampe.
Esso vive nei buchi nelle fessure e dietro i batti scopa. Si maschera molto bene e allora noi non lo vediamo che si nasconde sotto i barattoli sotto il tavolo vicino al bidone della spazzatura e anche nel mangiare! Gli scarafaggi domestici resistono a tutto, possono stare senza bere per due mesi e si fanno fuori i cadaveri dei loro parenti.
C'è anche chi piace gli scarafaggi, ma essi portano molte malattie come le infezzioni intestinali e i vermi in quanto essi anno i microbi sulle zampe.
E questo è tutto.



Link (in russo).
[via webpark]

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lunedì, maggio 12, 2008

I Simpatici Rimedi della Morozova/3

Bizzarra scrupolosa rassicurante capo-infermiera Morozova, mi sei mancata. Mi chiedevo: quale può essere il rimedio simpatico per guarire da un attacco di singhiozzo?
Vediamo.
"Porre la punta di un coltello alla radice del naso di chi soffre di singhiozzo e far sì che la guardi fisso, senza battere le palpebre. Nel giro di mezzo minuto il singhiozzo si interrompe".
Però prima che lo mettiate in pratica devo controllare se con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani punto 5 stiamo a posto.
[Di solito funziona anche strisciare di soppiatto alle spalle della vittima - magari indossando il casco di Darth Vader o una maschera da clown malevolo - e fare "buh!", ma l'interazione tra i due rimedi va evitata in quanto potrebbe procurarvi il mezzo minuto più tragico della vostra vita, forse anche l'ultimo].

Piccolo problema di sangue dal naso?
Rimedio simpatico: appendersi al collo una piccola chiave di ferro legata a un filo di lana e sistemarla sulla schiena tra le scapole: il sangue si fermerà immediatamente. Se invece continua a scendere diverse volte al dì, tenersi addosso la chiave per 10-20 giorni. Finché si avrà su di sé la chiave, il sangue dal naso si arresterà. Se il problema si ripresenta, indossare la chiave finché il sangue smette di scorrere anche quando la si toglie. Questo rimedio è stato fornito da P. V. Korženevskij da Parigi, che ha provato su di sé la sua efficacia nell'anno 1953.

Chiavetta di ferro tra scapole = no sangue naso.
Lo diceva già il sig. Korženevskij da Parigi nel 1953.
Se il sangue dal naso è un danno collaterale del rimedio contro il singhiozzo (v. sopra) contattare il più vicino pronto soccorso.

La fonte è sempre questa, le morozove precedenti sono qui e qui.

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Per cominciare

Siamo fuori dal poolparty.
Sento che la foto del giorno è:



Chi non lo vorrebbe, un posto tranquillo da "vice-eroe dell'Unione Sovietica"?

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lunedì, maggio 05, 2008

Goodbye Vova, Hello Dima/Insediamento Poolparty

Quello è un Topol-M o sei solo felice di vedermi?
Mentre Medvedev sposta i mobili al Cremlino in attesa di insediarsi ufficialmente il 7 maggio, mentre si mormora che il governo di Putin conterà solo undici vice-premier (neanche una riserva: se uno si rompe il crociato son cazzi), mentre il centro di Mosca è invaso da gioiose macchine da guerra per le prove generali della parata del 9 maggio (un ritorno agli antichi fasti per dimostrare chi ha il missile balistico più lungo), dichiaro aperto l'Insediamento Poolparty, che ci traghetterà alla cerimonia di mercoledì tra curiosità, fun facts, immagini, arditi pettegolezzi, recise smentite, tuffi di mezzanotte, White e Black Russian, panna acida e piccole e grandi emozioni.

[continua]

Larger than life


Ritratto di Dmitrij Anatol'evič Medvedev nel Salone di Sant'Alessandro al Cremlino: 140x73 cm, 5 milioni di rubli. In pratica 136.000 euro.
Per tutte le Madonnine Placcate Oro Zecchino, ma con questo ci giriamo tutti i mercatini del nord-est.

[continua]

VVP e l'ultima volta
Un giorno Vladimir Vladimirovič™ Putin sedeva per l'ultima volta nel suo studio all'interno del Cremlino. Davanti a lui sulla grande scrivania presidenziale c'era un vassoio d'argento con una bottiglia di vodka dal vetro appannato e dei bicchierini di platino che recavano sui panciuti fianchi l'effigie dorata dell'aquila a due teste. C'era inoltre una coppa di cristallo con del caviale nero, un vaso di funghetti marinati e mezza pagnotta di borodinskij.
Vladimir Vladimirovič™ si versò un bicchierino di vodka, lo trangugiò, grugnì e non ci mangiò su.
- Ultimo giorno... - borbottò Vladimir Vladimirovič™, abbracciando con lo sguardo il suo studio presidenziale, - Ultimo giorno, accidenti...
Vladimir Vladimirovič™ sospirò, si levò dalla poltrona e si avvicinò alla piccola e discreta porticina del ripostiglio presidenziale. Vladimir Vladimirovič™ aprì la porta e cercò con la mano l'interruttore. Il ripostiglio presidenziale si illuminò di una luce fioca. Vladimir Vladimirovič™ prese da un angolo due vecchie scatole di cartone che stavano sotto del succo di betulla e le portò al centro della stanza. Poi Vladimir Vladimirovič™ aprì le ante scricchiolanti di un'antica vetrinetta, estrasse il piede di Šamil Basaev e la mano di Ruslan Gelaev e li depose con cura in una delle due scatole.
- Fai i bagagli? - gorgogliò nella testa di Vladimir Vladimirovič™ il suo personale marziano presidenziale.
- Sì, - pensò di rimando Vladimir Vladimirovič™, prendendo dalla vetrinetta una bella scatolina di marocchino con lo stemma russo sul coperchio. La aprì. Nella scatolina c'erano le esche presidenziali: fatte di corno di bisonte, d'oro inca, fabbricate con i denti dei guerriglieri ceceni, con le schegge della sonda europea spedita su Marte e intercettata ancora in volo dalla rete spaziale russa, con pezzi di razzi ucraini precipitati, con il metallo dell'undicesima colonna del Parco Transvaal, con il plutonio estratto dalla testa di Salman Raduev, con l'anello di Giovanni Paolo Secondo e perfino con la piuma dell'araba fenice.
- Volevo tanto andare a pescare… ma non ci sono riuscito...
Vladimir Vladimirovič™ sistemò nell'altra scatola i suoi oggetti presidenziali: il bastone e l'occhio di Aslan Maschadov, l'uovo con la morte di Kaščej, l'uovo con la morte di Šamil Basaev, una custodia contenente la pistola che aveva ucciso il cantante Igor' Tal'kov e il libro Vladimir Vladimirovič™.
- E tu, non li fai i bagagli? - pensò a un tratto con tenerezza Vladimir Vladimirovič™.
- E quali bagagli, - gorgogliò il marziano, - Io viaggio leggero. Tutto il mio bagaglio è il cervello del presidente.
- Dici niente, - pensò Vladimir Vladimirovič™ trascinando gli scatoloni nello studio.
- E in effetti non è roba da poco, - rispose il marziano, - Sapere tutto quello quello che vi gira per la testa a voi...
Vladimir Vladimirovič™ arrossì.
- E va bene, - pensò Vladimir Vladimirovič™, - Sei pronto?
- Che, mi mandi via? - gorgogliò il marziano, - Non ancora, solo con l'Insediamento.
- Beh, allora vedi di dimenticare quello che farò adesso, - disse mentalmente Vladimir Vladimirovič™ avvicinandosi alla presidenziale scrivania che sarebbe stata ancora per poco sua.
Vladimir Vladimirovič™ si guardò attorno, si sedette sul pavimento, stese il suo corpo allenato sotto la scrivania e alzò il capo. Sulla logora superfice inferiore del tavolo si intravedevano delle scritte. Vladimir Vladimirovič™ sfilò dal taschino la presidenziale "Parker", cercò a tastoni tra le altre scritte la parola "Borja", la trovò, si mise comodo e accanto a quelle lettere scrisse lentamente:
“Vova è stato qui”.

Nota dell'autore:
La storia di oggi doveva essere l'ultima.
Vladimir Vladimirovič™ doveva andare finalmente a pescare, cosa che non era riuscito a fare in tutti questi anni. Ma non ci è andato. Ha invece deciso di formare un governo.
Questo non mi lascia alternative: per tutti questi anni ho raccontato ai lettori e ai giornalisti che nell'ultima storia Vladimir Vladimirovič™ sarebbe andato a pescare. Non posso tradire i lettori e i giornalisti, dunque mi tocca scrivere queste storie fino al giorno in cui Vladimir Vladimirovič™ andrà, finalmente, a pescare
.

to be continued

Originale: vladimir.vladimirovich.ru

[continua]

Cosa sono le nuvole
Straziante meravigliosa bellezza del Creato, certo.
Ma niente che un pacifico cocktail di cemento, ghiaccio secco e ioduro d'argento dell'unità-meteo dell'aviazione russa non riesca a disperdere, per la cerimonia di oggi e la parata di venerdì.

La diretta
Sta qui.

Il mio concetto di liveblogging.
Arrivata Mercedes, sceso Meddo, tappeto rosso, musica, discorso finale di Putin.
Giuramento con mano su Costituzione.
Inno con parole sbagliate.
Applausi.
Discorso di Medvedev.
Parata militare.
Scambio di battiti di ciglia tra Tizio Vecchio e Tizio Nuovo.
Fine.

- Cosa guardi?
- Primo Canale russo.
- Oh, no. È di nuovo Pasqua?

Un giorno Vladimir Vladimirovič™ si trovava nella sala del trono del Cremlino.
- Il Presidente della Federazione Russa Dmitrij Anatol'evič Medvedev, - disse una legnosa voce dall'alto.
- Be', allora io vado, - per l'ultima volta risuonò nella testa di Vladimir Vladimirovič™ il suo marziano personale, - Non sentire la mia mancanza.
- Sì, be', allora… - pensò Vladimir Vladimirovič™.
Aveva un groppo nella non più presidenziale gola. Negli occhi semplicemente umani brillarono virili lacrime.
Dmitrij Anatol'evič disse qualcosa e attraversò la sala. Le centinaia di presenti volsero il capo verso di lui.
Vladimir Vladimirovič™ rimase in piedi, sullo sfondo, completamente solo.
Non lo guardava nessuno.

Originale: vladimir.vladimirovich.ru

Georgia on their mind
Sì, e poi il mio tic-tac ormai interiorizzato - e le agenzie di stampa sono d'accordo con lui - mi dicono che con la Georgia si sta mettendo molto male, per via dell'Abchazia.
S'è anche perso un missile nel Mar Nero, ma la Flotta russa nega recisamente.
Va bene.
Va bene, ma non oggi.

VVP e la gavetta
Una mattina Vladimir Vladimirovič™ Putin si svegliò nella sua residenza di Novo Ogarëvo e come sempre allungò istintivamente una mano. La valigetta nucleare non c'era.
Vladimir Vladimirovič™ allora ricordò tutto. In silenzio si alzò, infilò i piedi nelle pantofole, indossò la vestaglia ed entrò in sala.
La consorte di Vladimir Vladimirovič™ stava apparecchiando per la colazione.
- Preparami la gavetta per il pranzo, - disse Vladimir Vladimirovič™, - Vado a cercarmi un lavoro.
E Vladimir Vladimirovič™ andò in bagno a lavarsi i denti.

[*la tentazione di tradurre tormozok con schiscetta mi è venuta :-)].

Originale: vladimir.vladimirovich.ru

9 maggio
[Con voce da cinegiornale:]
Gli aerei dell'aviazione russa si levano in volo per disperdere le nuvole su Mosca.

Parata della vittoria a Mosca, fotoreportaž.

Il video, tutto.

Il video del passaggio sulla Piazza Rossa (quello che ci interessa a noi).

Se ci sbrighiamo siamo ancora in tempo per la diretta della parata di Kaliningrad.

---

Un giorno Vladimir Vladimirovič™ Putin assisteva alla parata della Vittoria. Accanto a lui il presidente della Federazione Russa Dmitrij Anatol'evič Medvedev stava raccontando una barzelletta. Vladimir Vladimirovič™, che pure non stava ascoltando, rideva.
Passò il ministro della difesa Anatolij Eduardovič Serdjukov. Vladimir Vladimirovič™ si sporse in avanti, ma Anatolij Eduardovič non si rivolse a lui, ma a Dmitrij Anatol'evič.
Vladimir Vladimirovič™ digrignò i denti.
Quando il presidente si alzò in piedi e cominciò a leggere il discorso, quel discorso che avrebbe dovuto tenere lui, Vladimir Vladimirovič™ decise che sarebbe tornato.
Non importava come. Ma sarebbe tornato.
Intollerabile, essere il numero due.
Impossibile.
Giammai.

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VVP e i vice-premier

[Continuano a circolare indiscrezioni sulla struttura del governo di Putin, che mercoledì 7 maggio passerà le consegne al presidente eletto Medvedev per assumere l'incarico di primo ministro. Secondo l'edizione di oggi del giornale Gazeta (gzt.ru), i vice-premier potrebbero essere - ehm - undici].

Un giorno Vladimir Vladimirovič™ Putin sedeva nel suo studio all'interno del Cremlino, dal quale prendeva mentalmente commiato per sempre. Sulla grande scrivania presidenziale si mise a squillare il telefono. Vladimir Vladimirovič™ sollevò senza indugio il ricevitore.
- Ascolta, bratello, - nella cornetta risuonò la voce del vice-capo dell'Amministrazione presidenziale di Vladimir Vladimirovič™ Igor' Ivanovič Sečin, - Me dove mi metti, nel tuo governo? A fare il ministro, o che?
- Il ministro? - si stupì Vladimir Vladimirovič™, - E tu cosa sai fare?
- Be'… - Igor' Ivanovič era un po' imbarazzato, - So pilotare le situazioni. Dividere, se serve. Provocare…
- Capito, - disse Vladimir Vladimirovič™, prendendo un appunto sul suo presidenziale bloc notes, - Sarai primo vice-premier.
- Grazie! - rispose gioiosamente Igor' Ivanovič, ma Vladimir Vladimirovič™ aveva già riagganciato.
Il telefono riprese a squillare. Vladimir Vladimirovič™ sollevò il ricevitore.
- Ascolta, bratello, - nella cornetta risuonò la voce dell'addetto stampa di Vladimir Vladimirovič™ Aleksej Alekseevič Gromov, - E me dove mi metti, nel tuo governo?
- Tu cosa sai fare? - domandò Vladimir Vladimirovič™.
- Cosa so fare… - borbottò Aleksej Alekseevič, - Io sono l'addetto stampa, cosa dovrei saper fare?
- Questo significa, - disse Vladimir Vladimirovič™ prendendo un appunto sul presidenziale bloc notes, - che sarai vice-premier.
- Grazie! - si rallegrò Aleksej Alekseevič, ma Vladimir Vladimirovič™ aveva già riagganciato.
Subito il telefono riprese a squillare. Vladimir Vladimirovič™ sollevò la cornetta.
- Ascolta, bratello, - nel ricevitore risuonò la voce del capo del governo Viktor Alekseevič Zubkov, - E me dove mi metti, nel tuo governo?
- Farai il vice-premier, - rispose Vladimir Vladimirovič™, prendendo un appunto sul presidenziale bloc notes, riagganciando e subito risollevando la cornetta.
- Ascolta, bratello, - nel ricevitore risuonò la voce di chissà chi.
- Vice-premier, - disse Vladimir Vladimirovič™, e riagganciò.
- Già undici, ne ho… - borbottò Vladimir Vladimirovič™ sfogliando il bloc notes, - Qua bisogna darci un taglio.
Vladimir Vladimirovič™ chiuse il bloc notes e staccò il telefono.

Originale: vladimir.vladimirovich.ru

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mercoledì, aprile 30, 2008

VVP e le Meraviglie della Russia

Un giorno Vladimir Vladimirovič™ Putin sedeva nel suo studio all'interno del Cremlino intento a escogitare nuovi modi per svillaneggiare il presidente della Georgia Michail Nikolaevič Saakašvili.
Davanti a Vladimir Vladimirovič™ sedeva il vice capo della sua Amministrazione presidenziale, Vladislav Jur'evič Surkov, che lo aggiornava sugli affari correnti.
- Oh, e poi - disse Vladislav Jur'evič, - Si è concluso il concorso sulle sette meraviglie della Russia
- Sette? - si stupì Vladimir Vladimirovič™, distratto dalle sue riflessioni presidenziali.
- Sette, - annuì Vladislav Jur'evič, - Ci sono El'brus, la Madre Patria di Volgograd, la fortezza di Vovnuški
- Vovnuški? - si stupì ancora di più Vladimir Vladimirovič™, - Cos'è, mica una roba dedicata a Lenin?
- Non lo so, - Vladislav Jur'evič si strinse nelle spalle, - Io di questa fortezza non ho mai sentito parlare.
- Neanch'io, - disse Vladimir Vladimirovič™, - Come può essere una delle meraviglie della Russia se nessuno ne ha mai sentito parlare?
- Mah, sta in Inguscezia, - sospirò Vladislav Jur'evič, - Bisogna...
- Sì, ma almeno cecena, dico! - esclamò Vladimir Vladimirovič™, - Con questi risultati fate ridere tutto il multinazionale popolo russo! Che poi, scusa: lo sanno tutti, quali sono le nostre meraviglie!
- E quali? - domandò Vladislav Jur'evič, preparandosi ad appuntarsele.
- Ma è inteso! - si infervorò Vladimir Vladimirovič™, - Al primo posto, io. Al secondo posto, Dima Medvedev.
- E al terzo, Ramzan? - domandò Vladislav Jur'evič.
- Ma quale Ramzan! - tagliò corto Vladimir Vladimirovič™, - Ne bastano due, di meraviglie. Su, adesso via... devo riflettere.
E Vladimir Vladimirovič™ si immerse nuovamente nei suoi presidenziali pensieri.

Originale: vladimir.vladimirovich.ru

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martedì, aprile 29, 2008

Come J.R. ha vinto la Guerra Fredda (sì, vi piacerebbe)

... non so rendervi il senso di liberazione che Dallas ebbe dalla morale progressista. Si fottessero le balene, la pace nel mondo, la giustizia sociale, la solidarietà, voglio la macchina con le corna di mucca davanti.
(Fjodor, aprile 2008)


- Lina.
- Elio.
- Sii la mia Suerli, sarò il tuo Geiart.
(Dal Grande Libro della Famigliamir, 1982 ca.)


Pomeriggio un po' così. Tempo, un po' così.
È una di quelle settimane che finiscono di mercoledì.
Stai lavorando stancamente al computer.
Caffè: già preso.
Pausa sigaretta: andata.
Sito di Repubblica, comprese Gallery: guardato.
Ti stai dicendo che in questo momento ci vorrebbe un blog, magari anche di sinistra, però astenersi arcobaleno. Confinario, bene. Filorusso, perché no. Magari anche quel pochino anarchista. No lit, un po' chick, lievemente žižek, ma che non si noti troppo.
Che ti facesse il riassuntino di un pezzo platealmente celebrativo del Washington Post su Dallas. Intesa come serie televisiva: J.R., quel povero gnampolo di Bobby, le strane proporzioni di Lucy, le sbronze di Sue Ellen, il fisichetto di Victoria Principal, la definitiva consacrazione delle spalle imbottite e del pantalone a vita alta che fecero di noi comparse inconsapevoli di un brutto film sulla vita in un circo.

Fermati. Quel blog sono io.

Domenica scorsa è uscito questo pezzo di Nick Gillespie e Matt Welch, "Come Dallas ha vinto la guerra fredda". Riassumo.
Un minuto di silenzio per il trentesimo anniversario di un fondamentale e ingiustamente dimenticato punto di svolta nella lunga lotta tra il comunismo e il capitalismo. Un evento in tutto e per tutto importante quanto i discorsi di Reagan e la fuga a Ovest di Smirnov: il primo episodio di Dallas, la soap opera che fece tremare il mondo.

Nell'aprile del 1978 gli Stati Uniti volsero per la prima volta il loro amorevole sguardo a Southfork Ranch e al genio diabolico di J.R. Ewing (Larry Hagman): una caricatura tutta sesso e alcol della libera impresa e di uno stile di vita executive che si dimostrò irresistibile non solo per gli americani stagflazione-consapevoli ma anche per gli spettatori di mezzo mondo, dalla Francia all'Unione Sovietica alla Romania di Ceausescu.

Dallas non era semplicemente un programma televisivo ma una forza culturale in grado di cambiare il clima dell'epoca. Durò quasi quanto il secondo fegato di Larry Hagman e contribuì a definire gli anni Ottanta come il "glorioso decennio dell'avidità", aprendo la strada all'epoca del capitalismo fico, peraltro turbata da una serie di dilemmi morali. Dallas divenne il primo o il secondo programma più visto negli Stati Uniti per mezzo decennio: fece capolino nelle canzoni degli Abba e nei video di Ozzy Osbourne, partorì lo spin-off California e ispirò analisi accademiche come Homère et Dallas: Introduction à une Critique Anthropologique, di Florence Dupont.

Dopo tutta una serie di icone controculturali poco ironiche Dallas creò un nuovo archetipo dell'antieroe che amavamo odiare e odiavamo amare: un magnate che non fa che manipolare uomini politici, tradire la moglie bevandela e combinarne di cotte e di crude alla sua famiglia ostinatamente leale. E per quanto i vari traduttori sottolineassero la cattiveria di J.R. e del suo ambiente sociale ("Dallas, universo spietato!" diceva il testo della canzone francese), gli spettatori dei quasi 100 paesi che divorarono la soap - compresi quelli del Patto di Varsavia - si convinsero che anche loro meritavano di possedere auto grandi come barche e una piscina delle dimensioni di un piccolo castello.

Si narra che Stalin abbia fatto proiettare in Unione Sovietica il film americano del 1940 Furore per mostrare i danni del capitalismo sulla vita delle persone. I russi però guardavano le scene finali del film e si meravigliavano che negli Stati Uniti anche i poveri possedessero automobili. Dallas funzionava in modo simile.
E qui, citazione cult:
"Penso che siamo stati direttamente o indirettamente responsabili per il crollo dell'impero [sovietico]", ha detto Hagman alla Associated Press una decina d'anni fa. "Vedevano quei ricconi degli Ewings e dicevano 'Ehi, non non ce l'abbiamo, tutta quella roba'. Penso che sia stata la cara vecchia avidità a portarli a mettere in discussione il potere".
Vabbe', ma allora, se dobbiamo tirar fuori Ceausescu:
In Romania Ceausescu era convinto che Dallas fosse abbastanza anti-capitalistico da poter essere mandato in onda. Quando cambiò idea era troppo tardi: aveva già comprato tutto il ciclo. Nel frattempo il programma forniva un'alternativa lussuosa a un comunismo che costringeva le persone ad aspettare più di dieci anni per acquistare un catorcio di macchina.
Dopo l'esecuzione del dittatore e di sua moglie, il Natale del 1989, il pilot di Dallas - nel quale era stata ripristinata una scena di sesso precedentemente censurata - fu uno dei primi programmi stranieri trasmessi dalla tv romena. Negli anni successivi Hagman divenne il testimonial di varie compagnie come la russa Lukoil ("La scelta di un vero texano").

Ancora oggi è possibile visitare un perfetto ranch "SouthForkscu" nella speduta cittadina romena di Slobozia. O il set originale di Plano, Tex., frequentato almeno quanto il Deposito di Dallas dove Lee Harvey Oswald si nascose per sparare a Kennedy nel 1963.
Bene, adesso passiamo alla visione delle masse:
L'impatto di Dallas sulla visione delle masse ci ricorda che la cultura popolare "volgare" che gli accademici di destra e sinistra amano odiare è importante quanto la politica impegnata nel produrre i cambiamenti sociali: i prodotti culturali usa e getta influenzano la cultura in modi incontrollabili e imprevedibili.

Questa lezione è più che mai rilevante in un mondo sempre più globalizzato. Nonostante tutto questo parlare di boicottaggi e di bombe, se gli Stati Uniti sono interessati a diffondere i valori e la cultura americani, un po' di tivulandia può fare ben più dei carrarmati.

E non dimentichiamo come Dallas ha contribuito a plasmare il nostro mondo. Sarebbe troppo dire che ha reso possibile l'ascesa di George W. Bush, ma è certo che ha contribuito a spostare il centro della cultura americana dalle coste all'interno, decentralizzando le élite del potere sociale e politico. I presidenti texani possono essersi dimostrati catastrofici per il paese, ma rappresentano un paese meno ingessato e stratificato.
Esiterei a vantarmene, comunque eccovi la lezione del self-made man nella terra del big oil e dei cappelli a tesa larga:
Dallas aggiornava al presente l'autobiografia di Benjamin Franklin, offrendo un bella guida su come andavano davvero le cose e mettendo nuovi desideri alla portata delle masse. Demistificando la produzione della ricchezza - con abbastanza sesso, scandalo e whisky da annegare il comunismo, qui e all'estero - Dallas stimolò la nostra economia politica nazionale almeno quanto i tagli alle tasse reaganiani.
Purtroppo, come Gorbačëv, Dallas non sopravvisse alla fine della Guerra Fredda che contribuì a produrre, uscendo di scena con l'ultimo primo ministro sovietico nel 1991. Però ci ha lasciati più ricchi di quanto abbiamo mai osato sognare.
Dicono loro. Ho usato i rientri perché non pensiate che siano idee mie.
Ora: che Dallas abbia avuto moltissimi fans nei paesi del Patto di Varsavia che lo acquistarono (da autentici sprovveduti) è vero. E il fatto che il suo antieroe fosse così ironicamente spietato poteva farlo sembrare una critica al capitalismo, vero anche questo.

Ciò detto: perché i due autori dell'articolo hanno l'aria fiera, sgaia e consapevole di quelli che hanno appena costruito il Canale di Suez? Dallas avrà anche dato una spinta decisa alle ambizioni consumistiche di mezzo mondo città di G. compresa (i machinòni! le babe!), ma l'idea che la cultura popolare sia un efficace mezzo per veicolare e diffondere valori o stili di vita (mica solo quelli del libero mercato) non se la sono mica inventata loro. (Non solo la cultura popolare, tra l'altro, ma anche - e in modo consapevole e organizzato - quella accademica e 'alta': negli anni della guerra fredda gli Stati Uniti destinarono grandi risorse al finanziamento di istituti, musei, biblioteche, conferenze, mostre, concerti: era la strategia della guerra fredda culturale che è stata ben documentata da Frances Stonor Saunders nel suo Gli intellettuali e la CIA).
E comunque, signori del WaPo, guardate che gli ex-sovietici hanno tutto un patrimonio di citazioni e riferimenti a un sistema altro di espressione popolare (cinema, fumetti, musica) altrettanto pervasivo, non meno sentito e non esclusivamente propagandistico. Finisce sempre che mi pensate in piccolo.

Dallas vi avrà cambiato la vita a voi, per il resto (cioè, modestamente, il disastro) sarebbero bastati una buccia di banana, oppure del chewing-gum sotto le nostre povere suole di plastica, o anche solo i soldi della CIA.

p.s. Voi ve lo ricordate quel motivetto da balera che era la sigla italiana delle prime serie: "Com'è grande l'A/com'è grande l'A/me-ri-ca! ehi ehi ehi ehi/".
Ve lo ricordate?
Al mio tre, dimenticatelo.
Uno.
Due.
Tre.
Liberi.

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VVP e la Messa di Pasqua

Un giorno Vladimir Vladimirovič™ Putin, l'eletto ma non ancora in carica Presidente della Federazione Russa Dmitrij Anatol'evič Medvedev e il Patriarca di Tutta la Russia Alessio II si trovavano nella Cattedrale del Cristo Salvatore per celebrare la messa di Pasqua.
- Nel nome del Padre... - cantò con voce flebile il Patriarca.
Vladimir Vladimirovič™ sorrise.
- Del Figlio... - cantò il Patriarca.
Sorrise anche Dmitrij Anatol'evič.
- E dello Spirito Santo, - concluse Alessio II.
Vladimir Vladimirovič™ e Dmitrij Anatol'evič guardarono con rispetto il Patriarca.
- Gazprom sia con voi. - disse il Patriarca facendo dondolare il turibolo.

Originale: vladimir.vladimirovich.ru

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