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lunedì, aprile 02, 2007

Niente cappucci, niente scosse, niente percosse

E quella la chiamate umiliazione?
Niente cappucci. Niente scosse elettriche. Niente percosse. Questi iraniani sono chiaramente una massa di incivili.
di Terry Jones
sabato 31 marzo, The Guardian

"Condivido l'indignazione espressa dalla stampa britannica per il trattamento del nostro equipaggio accusato dall'Iran di avere sconfinato illegalmente nelle sue acque territoriali. È una vergogna. Noi non ci sogneremmo mai di trattare così dei prigionieri, consentendo loro di fumare, per esempio, pur essendo stato dimostrato che il fumo uccide. E quando hanno obbligato la povera marine Faye Turney a indossare sul capo un velo nero, e poi hanno mandato in giro la foto? Gli iraniani non sanno proprio cosa sia comportarsi civilmente? Ecco quello che facciamo noi, con i musulmani che catturiamo: gli mettiamo un sacchetto in testa, così fanno fatica a respirare. Allora sì che si possono scattare foto e mandarle alla stampa, perché almeno i prigionieri non possono essere riconosciuti e umiliati come è capitato ai poveri marinai britannici.

È inaccettabile anche che gli ostaggi britannici siano stati fatti parlare alla televisione e abbiano detto cose delle quali potranno forse pentirsi. Se gli iraniani gli avessero tappato la bocca con del nastro isolante, come facciamo noi con i nostri prigionieri, non avrebbero parlato. Naturalmente avrebbero fatto fatica a respirare, soprattutto per via del sacchetto sulla testa, ma almeno non sarebbero stati umiliati.

E cos'è tutta questa storia di permettere ai prigionieri di scrivere lettere in cui dicono che stanno bene? Sarebbe ora che gli iraniani si allineassero con il resto del mondo civile: dovrebbero concedere ai loro prigionieri la privacy dell'isolamento. È uno dei tanti privilegi che gli Stati Uniti garantiscono ai loro detenuti a Guantánamo Bay.

Il vero segno di civiltà di un paese è che non ha tutta questa fretta di incriminare persone che ha arbitrariamente arrestato in un posto che ha appena invaso. I detenuti di Guantánamo, per esempio, hanno goduto di tutta la privacy che desideravano per quasi cinque anni, e c'è appena stata la prima incriminazione. Tutto il contrario degli indecorosi iraniani, che non vedevano l'ora di sfoggiare i loro prigionieri davanti alle telecamere!

Inoltre è chiaro che gli iraniani non concedono ai loro prigionieri britannici sufficiente esercizio fisico. L'esercito degli Stati Uniti assicura ai suoi prigionieri iracheni un allenamento fisico adeguato, sotto forma di magnifiche 'posizioni stressanti' da tenere per tempo indefinito, così da migliorare il tono muscolare degli addominali e dei polpacci. Un tipico esercizio è quello in cui devono stare in punta di piedi e poi accucciarsi fino ad avere le cosce parallele al pavimento. Questo produce intenso dolore e alla fine il cedimento del muscolo. È tutta salute e divertimento, e ha il vantaggio che i prigionieri confesseranno qualsiasi cosa pur di uscirne.

E questo mi porta all'ultima considerazione. È chiaro dall'apparizione televisiva che la soldatessa Turney è stata messa sotto pressione. I giornali hanno chiesto a esperti di psicologia comportamentale di esaminare il filmato e tutti hanno concluso che è 'infelice e sotto stress'.

Quello che stupisce è il modo subdolo in cui gli iraniani l'hanno resa 'infelice e sotto stress'. Non mostra segni di scosse elettriche o bruciature e sul volto non reca tracce di percosse. È inaccettabile. Se i prigionieri devono essere fatti oggetto di violenza, per esempio costringendoli a posizioni sessuali compromettenti o a subire scariche elettriche ai genitali, vanno fotografati come è stato fatto ad Abu Ghraib. Le fotografie poi devono essere fatte circolare nel mondo civile, così tutti possono sapere cos'è successo.

Come ha rilevato Stephen Glover sul Daily Mail, forse non sarebbe giusto bombardare l'Iran per vendicare l'umiliazione dei nostri soldati. Però chiaramente il popolo iraniano va fatto soffrire: o con delle sanzioni, come suggerisce il Mail, o semplicemente dicendo al Presidente Bush di sbrigarsi a invadere, cosa che intende fare comunque, e a portare nel paese la democrazia e i valori occidentali come ha fatto con l'Iraq".

Terry Jones è regista, attore e Python.
www.terry-jones.net
Link

Tradotto dall'inglese all'italiano da Mirumir, un membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questa traduzione è in Copyleft per ogni uso non-commerciale: è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne l'autore e la fonte.


giovedì, giugno 08, 2006

Svegliatevi!

Segnalazione: il sito di Tlaxcala è pronto e funzionante.

Mi sento come il mio ex vicino di casa, testimone di Geova, che il primo sabato mattina del mese passa a lasciarmi la rivista dal titolo "Svegliatevi!" (mai titolo fu più azzeccato: a quell'ora mi trova sempre in pigiama e con i rotoli del Mar Morto impressi sulla guancia).

martedì, febbraio 28, 2006

Per coloro che non se ne fossero accorti

"Per coloro che non se ne fossero accorti, Israele si oppone alla soluzione dei due stati. Ha fatto tutto quello che era in suo potere per impedire a uno stato Palestinese di sorgere e continuerà a farlo finché potrà contare sulla complicità dei suoi potenti amici e sull'estesa indifferenza dell'opinione pubblica.

In tali circostanze spetta a noi chiederci perché ad Hamas sia stato ordinato ­ da Israele e da quegli stessi potenti amici ­ di accettare la "soluzione dei due stati", soprattutto tenendo conto del fatto che, diversamente da Israele, ha dichiarato chiaramente e ripetutamente che avrebbe accettato uno stato palestinese sui territori occupati da Israele nella guerra del 1967, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. E questo è stato ribadito esplicitamente da tutti i suoi principali rappresentanti: Zahar, Haniye, Meshal, e Yassin e Rantisi prima di essere assassinati.

La Giudea e la Samaria, che costituiscono (o costituivano) la Cisgiordania settentrionale e meridionale, sono state suddivise e spartite nei vari decenni tra centinaia di migliaia di coloni ebrei perché vi insediassero le loro case, i loro frutteti e i loro giardini. Sono attraversate e circondate da strade riservate esclusivamente agli ebrei che collegano la terra, le case, i frutteti e i giardini a Israele. Vi sono stati schierati guardie, soldati, carri armati e bandiere israeliane che difendono e proteggono i coloni ­ le loro case, i loro frutteti e i loro giardini ­ dando loro la certezza di essere israeliani appartenenti ad un unico stato ebraico."

Tratto da un articolo di Jennifer Loewenstein, disponibile su 2.0.

martedì, febbraio 21, 2006

Ecco a voi Tlaxcala


Tlaxcala, la rete dei traduttori per la diversità linguistica, la conoscete già (sì, è l'attività che da quasi tre mesi anima le mie giornate, mi fa tirar tardi la sera, prende orgogliosamente a pugni il mio lavoro, mi dà quell'aria svagata e digiunante e mi rende invisibile su tutti i sistemi noti di instant messaging: se questo non è amore, ci si avvicina parecchio).
Però oggi, 21 febbraio 2006, Tlaxcala è nata ufficialmente, con un sito internet, http://www.tlaxcala.es, e un indirizzo di posta elettronica permanente (tlaxcala@tlaxcala.es). Il sito è ancora in costruzione, ma era importante nascere proprio oggi, come leggerete nel Manifesto.
Mary riassume bene il senso e l'entusiasmo dell'impresa sul suo blog peacepalestine e ne parla anche Miguel su Kelebek.

Se non adesso, quando? Grazie e tutto il mio affetto agli infaticabili, adorabili, generosi tlaxcalteca: Manuel, Ernesto, Fausto, Nancy, Mary, Miguel, Davide, Valerio, Mauro, Gianpiero, Caterina, Marcel, Maria, Yves, Agatha, Ahmed, Eva, Elaine, Ramez, Alex, Kristoffer, Vera, Ernesto, Carlos, Germàn, Juan, Rocìo, Ulise, Antonia, José, Zaki, Juan e tutti coloro che ci hanno offerto aiuto, incoraggiamento e collaborazione.

Manifesto

Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica, è stata fondata nel dicembre del 2005 da un piccolo gruppo di cyber-attivisti che, dopo essersi conosciuti su Internet, hanno scoperto di avere interessi, sogni e problemi in comune. La rete si è ampliata rapidamente ed oggi vanta numerosi membri che traducono in più di dieci lingue. Questo manifesto, approvato da tutti loro, rappresenta la loro visione comune:

Tutte le lingue del mondo contribuiscono, e devono contribuire, alla fratellanza tra gli uomini. Contrariamente a quanto molti erano soliti credere, una lingua non è solo una struttura grammaticale, una trama di parole interconnesse secondo un codice sintattico ma anche, e soprattutto, una creazione di significato basata sui nostri sensi. Infatti noi osserviamo, interpretiamo ed esprimiamo il nostro mondo dall'interno di uno specifico contesto personale, geografico e politico. Per questo motivo, nessuna lingua è neutrale ed ogni lingua reca un "codice genetico", il sigillo della cultura cui appartiene. Il latino, ad esempio, la prima lingua imperiale, raggiunse il suo apogeo calpestando le vestigia delle lingue che aveva distrutto, man mano che le legioni romane espandevano la loro presenza all'Europa meridionale, all'Africa settentrionale ed al Medio Oriente. Non c'è da meravigliarsi se, all'inizio del Rinascimento, fu proprio la lingua spagnola, figlia biologica del latino, a farsi portatrice di nuove devastazioni, stavolta tra i popoli assoggettati del continente americano.

Un impero e la sua lingua avanzano sempre uniti e sono predatori per definizione. Negano l'alterità. Ogni lingua imperiale si costituisce come soggetto della Storia, la racconta dal suo punto di vista ed annienta (o tenta di annientare) i punti di vista delle lingue considerate inferiori. La Storia ufficiale di qualsiasi impero non è mai innocente, ma motivata dallo zelo di giustificare, oggi, le sue azioni di ieri, al fine di proiettare la propria versione sul domani.

Nessuno conosce le sofferenze patite dai popoli assoggettati dall'impero romano, perché non ci è stata tramandata nessuna testimonianza scritta della sconfitta che segnò la scomparsa delle loro culture. Per converso, le lingue del continente americano, conquistato dall'impero spagnolo, ci hanno lasciato le loro testimonianze. Verso la seconda metà del sedicesimo secolo, poco dopo la conquista del Messico, Fra Bernardino de Sahagún compilò ciò che oggi è noto come Codice Fiorentino, un insieme di racconti náhua (náhuatl è la lingua degli aztechi più antichi, ancora parlata in Messico) ed illustrazioni che descrivono la società e la cultura pre-ispanica. La seconda testimonianza, che contraddice la prima, è il Lienzo de Tlaxcala, anch'esso trascritto durante il sedicesimo secolo, del meticcio Diego Muñoz de Camargo, che basò la sua storia su alcune pitture murali dei suoi avi, la nobiltà tlaxcalteca, che raffiguravano l'arrivo di Hernán Cortés e la caduta di Tenochtitlan, la capitale dell'impero azteco distrutta dai conquistadores che la rimpiazzarono con Città del Messico. Tlaxcala era allora la città stato rivale dell'impero azteco di Tenochtitlan e collaborò con Cortés alla sua distruzione, una condotta che equivaleva a scrivere la propria condanna a morte perché l'impero spagnolo, nato proprio sulle ceneri di quella sconfitta, avrebbe poi soggiogato tutti i popoli indigeni, i cosiddetti pre-colombiani, sia che fossero alleati della corona spagnola, sia che fossero suoi nemici, con la conseguente, quasi totale scomparsa delle loro rispettive lingue e culture.

Ai nostri giorni, il potere imperiale è basato negli Stati Uniti d'America, la cui lingua ufficiale è l'inglese. Fedele alle caratteristiche comportamentali di tutti gli imperi, la lingua inglese adesso impone la sua legge. Sotto l'influsso dell'inglese, interi paesi, o territori, hanno perso, o stanno perdendo, le loro lingue colloquiali. Le Filippine o Porto Rico sono soltanto due esempi tra tanti altri. Nell'Africa sub-sahariana, secondo l'UNESCO, il prestigio erroneamente attribuito a inglese, francese, portoghese a alle lingue locali parlate dalla maggioranza sta annientando ogni due settimane un'altra lingua locale.

È vero che nell'era della comunicazione globale non c'è nulla di male nell'avere una lingua franca per agevolare la conoscenza reciproca, ma il male nasce se, consapevolmente o meno, questa lingua veicola l'ideologia di superiorità che la caratterizza, esibendo il suo disprezzo verso le lingue "subalterne", vale a dire, tutte le altre. Il complesso di superiorità, che sempre accompagna una lingua imperiale o impero-dipendente, è così consustanziale alla sua essenza che si manifesta anche tra gli attivisti anglofoni impegnati nella lotta per un mondo migliore: i loro media sono la prova tangibile che le loro pubblicazioni tradotte dalle lingue "subalterne" rappresentano soltanto una percentuale insignificante del loro contenuto complessivo. Il problema non sta tanto nel fatto che le traduzioni dall'inglese in altre lingue, in confronto, siano spaventosamente più numerose, quanto piuttosto nella mancanza di reciprocità nella direzione inversa. Noi tutti siamo colpevoli di avere accettato, sinora, questa disparità.

Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica, nasce come omaggio postmoderno alla omonima e sventurata città stato che commise il tragico errore di fidarsi di un impero, quello spagnolo, per combattere contro un altro meno potente, quello náhua, soltanto per poi scoprire, quando ormai era troppo tardi, che non c'è da fidarsi degli imperi, di nessuno di loro, perché usano i loro subalterni solo come leva per raggiungere i loro obiettivi. I traduttori globali di Tlaxcala intendono riscattare l'antico destino perduto dei tlaxcaltechi.

I traduttori di Tlaxcala credono nell'alterità, nella positività di avvicinarsi al punto di vista degli altri e per questo motivo hanno deciso di impegnarsi a de-imperializzare la lingua inglese pubblicando in tutte le lingue possibili (incluso l'inglese) la voce di scrittori, pensatori, fumettisti e attivisti che oggi scrivono i loro testi originali in lingue che l'influenza dominante dell'impero non permette di ascoltare. Allo stesso tempo, i traduttori di Tlaxcala permetteranno, anche a chi non parla inglese, di confrontarsi con le idee di autori di lingua inglese ancora ai margini, oppure pubblicati in spazi davvero molto limitati e difficili da individuare.

La lingua inglese, nella sua dimensione di apparato istituzionale di conoscenza, funziona come una struttura globale che presenta le lingue e le culture del mondo a propria immagine e somiglianza, senza degnarsi di cercare l'assenso di quello stesso mondo che millanta di rappresentare. I traduttori di Tlaxcala sono convinti che i Signori del Discorso possano essere sconfitti e sperano di neutralizzare un siffatto apparato, fiduciosi che il mondo possa diventare multipolare e multingue, vario come è varia la vita stessa.

Tlaxcala fonda la scelta dei suoi testi sui valori fondamentali della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, perseguendo il pieno rispetto dei diritti e della dignità della persona. I traduttori di Tlaxcala sono antimilitaristi, antimperialisti e contrari alla globalizzazione neoliberista delle multinazionali. Aspirano alla pace ed all'uguaglianza tra tutte le lingue e culture. Non credono né nello scontro delle civiltà, né nell'attuale crociata imperiale contro il terrorismo. Si oppongono al razzismo ed alla costruzione di muri o recinzioni ad alta tensione, sia fisici, sia linguistici, che impediscano la naturale libertà di movimento e di condivisione tra i popoli e le lingue del pianeta. Ambiscono a promuovere stima, riconoscimento e rispetto dell'Altro, così come anche ad esprimere il desiderio che Lei/Lui cessino di essere un oggetto della storia per diventarne un soggetto con pari dignità. Questo impegno è volontario e libero. Tutte le traduzioni di Tlaxcala sono in Copyleft e, pertanto, libere di essere riprodotte a scopo non commerciale, purché ne venga citata la fonte.

Traduttori ed interpreti di tutte le lingue, connettatevi e unitevi! Webmaster e blogger di tutti i colori dell'arcobaleno che condividete le nostre preoccupazioni, contattateci!


* * *

La scelta di rendere pubblico il nostro manifesto il 21 febbraio non è casuale. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, il 21 febbraio veniva celebrato come il giorno dell'anticolonialismo e dell'antimperialismo.

In questa stessa data, nel 1944, Parigi si svegliò con i muri tappezzati di manifesti rossi che annunciavano l'esecuzione, al Mont Valérien, di 23 "terroristi", lavoratori immigrati membri del gruppo Franchi Tiratori e Partigiani-Mano d'opera immigrata, la prima organizzazione di resistenza al nazismo in territorio francese. Il capo del gruppo, Missak Manouchian, un armeno trentaseienne, era un immigrato scampato al genocidio perpetrato nel suo Paese. Ai collaborazionisti francesi, che assistettero a quel processo sommario davanti ad un tribunale militare nazista chiamandolo métèque (meteco), un temine dispregiativo per indicare gli stranieri, Manouchian rispose: "la cittadinanza francese voi l'avete ereditata, io me la sono guadagnata".

"Il tempo dei martiri è venuto e se io sarò uno di loro, ciò avverrà per la causa della fratellanza, l'unica cosa che può salvare questo Paese". Furono queste le ultime parole di Malcom X prima di venire assassinato nel corso di una conferenza ad Harlem, il 21 febbraio del 1965, da membri della Nation of Islam, da cui Malcom X si era separato nel 1963 per creare l'Organizzazione dell'Unità Afroamericana. Nel 1966, i suoi assassini furono condannati all'ergastolo ma, come spesso accade, chi tramò il suo omicidio, i Signori dell'Impero, sono rimasti impuniti.

Malcolm X, alias El-Hajj Malik El-Shabazz, il cui nome originario era Malcom Little, aveva 39 anni. Era tornato da un pellegrinaggio alla Mecca dove aveva incontrato pellegrini di tutte le provenienze scoprendo, in questo modo, l'universalità. Una delle ragioni della sua rottura con la Nation of Islam furono i contatti di quest'ultima con il Ku Klux Klan per negoziare la creazione di uno Stato nero indipendente nel Sud degli Stati Uniti, proprio come aveva fatto il fondatore del sionismo, Theodor Herzl, quando chiese l'appoggio dei peggiori antisemiti per il suo progetto di Stato ebraico. Per Malcom, il cui padre era stato vittima del Ku Klux Klan, una siffatta collaborazione era impensabile.

In questo giorno della memoria, Tlaxcala nasce sotto gli auspici di questi due combattenti per la lotta dei popoli, Missak Manouchian e Malcolm X.

mercoledì, gennaio 25, 2006

Non la testa, non l'anima/Intervista a Marwan Barghouti

Avevo raccolto un po' di materiale su Marwan Barghouti poco più di un anno fa, in due post: questo e questo

Questa è la traduzione della trascrizione completa dell'intervista esclusiva di Lindsey Hilsum a Barghouti per Channel 4 News del 22 gennaio 2006.

Marwan Barghouti: Gli israeliani sono riusciti ad arrestare il mio corpo, ma non la mia testa, non la mia anima. Non ci riusciranno. Non spezzeranno la nostra volontà di indipendenza e di libertà.
Sono rimasto in isolamento per la maggior parte del tempo. Non ho visto nessuno, non ho ricevuto le visite dei miei figli, di mia moglie, né di nessun altro.
Le è la prima giornalista, insieme agli altri che sto vedendo ora. Oggi è il primo giorno della mia vita in prigione in cui incontro qualcuno, dopo quattro anni.

Penso che Hamas faccia parte del popolo palestinese e che abbia il diritto di partecipare alle elezioni, e io personalmente in questi anni e anche l'anno scorso ho cercato di convincerli e di fare pressioni perché partecipassero alle elezioni.

Quindi ben venga questa decisione storica di Hamas, perché che cosa significa decidere di partecipare alle elezioni? Significa che credono nella democrazia, che sono pronti a lavorare secondo le regole della legge e della democrazia, e questo è molto importante.

Lindsey Hilsum: Quindi è la fine della lotta armata, è chiusa l'epoca delle bombe e dei fucili?

MB: Il popolo palestinese, questo dovrebbe essere chiaro, ha comunque il pieno diritto di resistere alle operazioni militari israeliane nei territori occupati.
Pensa forse che gli israeliani avrebbero lasciato Gaza se non ci fosse stata l'intifada, la resistenza? No. Sono rimasti 38 anni. Perché se ne vanno da Gaza? Io penso che sia un grande risultato dell'intifada.
Ma i palestinesi dovrebbero dare una possibilità a ogni genere di tentativo, internazionale e locale, e così faremo.
Mi creda, gli israeliani considerano un terrorista chiunque si opponga all'occupazione. Non è così.

Non credo che gli israeliani siano nella posizione e nella condizione di descrivere le persone, e credo che siano gli ultimi al mondo a poter parlare di terrorismo.

LH: Ma hanno prove specifiche. L'hanno portata davanti a un tribunale, avevano persone che a loro dire erano state assassinate. Hanno dimostrato il suo coinvolgimento, i documenti che dimostravano che lei pagava delle persone perché mettessero in atto attentati suicidi.

MB: Assolutamente no. E io non tratto con il tribunale israeliano. Non riconosco il diritto di Israele a condannare un capo palestinese, un membro palestinese del parlamento.

Gli israeliani non hanno rispettato la democrazia. Sanno benissimo che io non ho diretto attacchi militari qua e là. È la verità. Sono molto esplicito sul fatto che sostengo l'intifada palestinese e la resistenza palestinese.

Io le parlo mentre mi trovo in carcere, non mentre sono fuori. E, anche così, continuo a dirlo.

LH: Dunque cosa pensa adesso degli attentati suicidi che continuano a verificarsi? Ce n'è stato uno giorni fa a Tel Aviv…

MB: Siamo contrari.

LH: Sì, ma cosa pensa dei palestinesi che lo fanno?

MB: Penso che gli israeliani non aiutino i palestinesi a raggiungere una soluzione nelle loro discussioni interne. Più di una volta i palestinesi sono stati vicini a una decisione al proposito. Ma durante l'intifada gli israeliani hanno ucciso 800 bambini palestinesi.

LH: E questo giustifica l'uccisione di bambini israeliani da parte dei palestinesi?

MB: No. In ogni caso nessuno può giustificare l'uccisione di civili – bambini, donne, in qualunque luogo del mondo. Dovrebbero essere tenuti fuori. Questo dev'essere chiaro. In Palestina e in Israele.

Abbiamo bisogno di due capi che siano pronti a prendere decisioni, decisioni critiche, e a correre rischi, dal lato palestinese e da quello israeliano.
E io credo che il mio popolo sia pronto alla pace con il popolo di Israele. Dovremmo agire secondo le categorie democratiche riconosciute in tutto il mondo. Dovemmo costruire uno Stato democratico, e io penso che il popolo palestinese sia perfettamente qualificato a farlo.

LH: Ma a Gaza stanno combinando un disastro. Guardi Gaza, persone che si sparano tra loro, che rapiscono stranieri, è il caos.

MB: Penso che sia un grave crimine rapire un giornalista o uno straniero. Ho mandato un messaggio attraverso i mezzi di informazione alle persone che conosco là e spero che non lo rifaranno.

MB: [A proposito della partecipazione delle donne alla lotta] Hanno assunto un ruolo importante nella lotta contro l'occupazione e spero che nel futuro vedremo un primo ministro palestinese donna.

LH: Pensa che trascorrerà il resto della sua vita in prigione? Cinque ergastoli...

MB: No. Assolutamente no. Sarò libero insieme a tutti questi altri detenuti. Gli israeliani non possono tenerci tutti e diecimila in carcere. E alla fine scopriranno… sa quello che è successo in Sudafrica? Alla fine sono andati da Mandela e hanno negoziato. E cos'è successo, anche in Irlanda?

LH: In Irlanda? Si sono parlati.

MB: Alla fine si sono parlati. E hanno rilasciato tutti i prigionieri. Il governo britannico li considerava dei terroristi. Io penso che noi siamo combattenti per la libertà. Nel futuro, mi vedo come un cittadino palestinese che esercita il proprio diritto in uno Stato democratico palestinese. Questo è il mio sogno.

Originale in inglese: http://www.channel4.com

Tradotto dall'inglese in italiano da Mirumir e rivisto da Davide Bocchi, membri di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (transtlaxcala@yahoo.com). Questa traduzione è in Copyleft.

lunedì, gennaio 23, 2006

Operazione Verdun

Una città trasformata in prigione
di Dahr Jamail
(con Arkan Hamed)

SINIYAH, Iraq – Gli abitanti di Siniyah, un villaggio a 200 km a nord di Baghdad, sono infuriati per il muro di sabbia lungo una decina chilometri costruito dall’esercito americano per tenere sotto controllo gli attacchi da parte dei ribelli.

“La nostra città è diventata un campo di battaglia,” ha detto all’Inter Press Service l’ingegnere trentacinquenne Fuad Al-Mohandis, fermo a un posto di blocco alla periferia della città. "Sono state distrutte moltissime case e gli americani stanno minando aree in cui pensano che possano trovarsi dei combattenti, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di zone vicine ad abitazioni di civili innocenti."

I soldati della 101ma Divisione aviotrasportata hanno subito attacchi pressoché quotidiani per mezzo di bombe sistemate ai bordi delle strade.
Fuad ha detto l’esercito americano ha imposto un coprifuoco dalle cinque del pomeriggio e che “al momento ci sono molte esplosioni che terrorizzano i nostri bambini.”

Il 7 gennaio l’esercito statunitense ha cominciato a usare le ruspe per costruire un’ampia barriera di sabbia attorno alla città nel tentativo di isolare i combattenti che attaccano le pattuglie americane. Gli oleodotti verso la Turchia che si trovano in quest’area sono stati regolarmente sabotati dai gruppi della resistenza.

Queste misure drastiche hanno fatto infuriare molti dei 3000 abitanti della cittadina.
“Pensano che in questo modo riusciranno a fermare la resistenza," ha dichiarato all’IPS Amer, 43 anni, dipendente della vicina raffineria di Beji. “Ma gli americani così facendo stanno provocando una resistenza ancora maggiore. La resistenza non smetterà di attaccarli finché non si ritireranno dal nostro paese.”

Il dipendente ha detto che non era stato in grado di uscire di casa per diversi giorni, e che non aveva potuto recarsi al lavoro né a visitare i suoi familiari fuori Siniyah.

L’esercito statunitense ha battezzato la costruzione del muro di sabbia “Operazione Verdun”, richiamandosi a una battaglia della prima guerra mondiale. Le forze d’occupazione pensano che la città sia diventata la base dalla quale vengono lanciati gli attacchi alle loro pattuglie e i bombardamenti a colpi di mortaio contro la vicina Base di Summerall.

Vicino alla città sono stati installati dei posti blocco, dove le forze di sicurezza irachene e statunitensi perquisiscono tutti i veicoli alla ricerca di armi e di esplosivi.

“Non siamo più in grado di lavorare, i nostri redditi dipendono dalla distribuzione del carburante,” ha detto alla IPS il camionista Abdul Qadr a uno dei posti di blocco. “Ci troviamo in una situazione molto difficile. La città è attualmente isolata e ovunque stanno costruendo barricate per fermare i combattenti. Tutti i giorni fanno incursione nelle nostre case alla ricerca di stranieri, ma non riescono a trovarne.”

Abdul Qadr, che è cresciuto a Siniyah, ha detto all’IPS che lui e i suoi vicini hanno l’impressione di trovarsi in un “campo di concentramento.” Così anche gli abitanti di Fallujah e Samarra hanno descritto le loro città quando le forze statunitensi vi hanno costruito attorno dei muri simili a questo.

A Samarra l’esercito americano ha costruito un muro di 18 chilometri, mentre a Fallujah sono tuttora installati posti di blocco all’israeliana. Le forze d’occupazione hanno imposto misure simili anche in altre città come Al-Qa'im, Haditha, Ramadi, Balad, and Abu Hishma.

Da quando tali misure sono state messe in atto nelle diverse città, gli attacchi contro le forze di sicurezza non hanno fatto che aumentare, fino a giungere a una media di più di cento al giorno negli ultimi mesi.

“Gli americani pensano che i combattenti vengano dall’estero,” ha commentato Qadr. “Ma non è così. Non riescono a capire che la sola vera soluzione è permettere a un popolo di governarsi da solo?”

(Inter Press Service)

Fonte in inglese: http://www.antiwar.com/jamail/?articleid=8424
Traduzione in francese: http://quibla.net/iraq2006/iraq1.htm

Tradotto dall'inglese in italiano da Mirumir, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (transtlaxcala@yahoo.com ). Questa traduzione è in Copyleft.

sabato, gennaio 21, 2006

Non sono gli ulivi, di Amira Hass

11 gennaio 2006

C’è qualcosa di molto umano in queste centinaia e centinaia di ulivi spezzati, i rami amputati tesi verso il cielo come se stessero implorando aiuto. Lo scorso venerdì, a Tawana, nelle colline a sud di Hebron, 120 alberi; a Burin, a sud di Nablus, agli inizi di questa settimana, circa 50 alberi; più o meno altri 100 a Burin il 24 dicembre; e 140 alberi, nuovamente a Burin, il 14 dicembre.

La polizia ha contato 733 alberi sradicati nel 2005. Secondo la lista (incompleta) di 29 casi di sabotaggio agricolo documentati dai gruppi per la difesa dei diritti umani Yesh Din e B'Tselem da marzo a dicembre, sono stati messi fuori uso 2616 alberi: sradicati, rubati, bruciati, spaccati, segati. Solo a Salem in quattro volte ne sono stati sradicati 900. Anche ammettendo che chi ha calcolato i danni abbia esagerato, entrambe le parti concordano sul fatto che gli israeliani stanno compromettendo i vigneti e le piantagioni.

Il moltiplicarsi negli ultimi mesi di immagini di alberi distrutti “da ignoti” è stato abbastanza traumatizzante da indurre il procuratore generale ad attaccare l’immobilismo delle autorità, e il ministro Gideon Ezra a convocare un incontro durante il quale si è deciso di mettere in atto misure di controllo “sugli insediamenti riconosciuti come problematici.”

Il trauma, tuttavia, è selettivo. L’Esercito di Difesa Israeliano ha sradicato migliaia di ulivi e di alberi da frutto, terre coltivate e serre, e continua a farlo – per rendere sicure le proprie strade e per aumentare la visibilità dei soldati; per costruire torri di guardia, posti di blocco e la barriera di separazione; e inoltre per realizzare altre strade e recintare gli insediamenti.

Nel solo villaggio di Qafeen, per esempio, per realizzare la barriera di separazione sono stati sradicati 12.600 ulivi. Migliaia di altri alberi – forse decine di migliaia – e migliaia di acri della Cisgiordania sono rimasti intrappolati dietro i muri, le recinzioni e le zone cuscinetto che circondano gli insediamenti. Solo a Qafeen 100.000 alberi sono imprigionati dietro la recinzione e per la maggior parte dell’anno ai loro proprietari è vietato accedervi. Non possono fare altro che guardarli da lontano e lasciarli in uno stato di completo abbandono. Naturalmente come spiegazione viene citata la “sicurezza”, ma per qualche motivo la sicurezza finisce sempre per causare un’ulteriore efficace sottrazione di territorio palestinese a beneficio dell’insediamento confinante, oppure per ampliare o rendere più confusa la Linea Verde e l’annessione del territorio a Israele.

Le persone che restano impressionate da questi episodi ignorano che le piantagioni di Salem e Tawana sono prossime a strade che sono chiuse al traffico palestinese perché collegano degli insediamenti. È l’Esercito di Difesa Israeliano a chiudere e a bloccare le strade e le centinaia di chilometri di ottimo asfalto della Cisgiordania precluse al traffico palestinese.

Lo sradicamento di 100 alberi sabota la capacità di un’intera famiglia di provvedere al proprio mantenimento. La chiusura delle strade sabota la vitalità economica dell’intero popolo palestinese. L’Esercito di Difesa Israeliano naturalmente dirà che è necessario proteggere i cittadini israeliani. Ma allora perché tutti si sorprendono e si indignano quando quegli stessi cittadini continuano ad estendere la logica del controllo israeliano sui territori occupati?
Secondo quella logica, Israele ha il diritto di istituire un doppio principio legale nei territori occupati: uno per gli ebrei, e un altro per i palestinesi. Se da un lato gli ebrei godono di diritti illimitati per quanto riguarda le abitazioni, la libertà di movimento, i mezzi di sostentamento, le infrastrutture, l’utilizzo dell’acqua e della terra, dall’altro i palestinesi vengono sistematicamente privati dei diritti umani e civili. Secondo quella logica i palestinesi sono costretti a cavarsela con porzioni di terra sempre più piccole di cui devono dimostrare di essere i legittimi proprietari. Le porzioni di terra più ampie, la cui proprietà non è registrata presso l’Amministrazione del Territorio di Israele, appartiene automaticamente a “Israele” e ai consigli dei coloni.

I coloni non dettano le politiche, ne sono il risultato. Vivono tutti in pace e senza scrupoli di coscienza alla faccia di centinaia di comunità impoverite ed efficacemente trasformate in prigioni per permettere all’Esercito di Difesa Israeliano di continuare a proteggere ciò che lo stato d’Israele ha intrapreso: il controllo della maggior parte possibile di territorio, l’espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Una minoranza di israeliani non aspetta che a distruggere siano l’Esercito di Difesa e lo stato; distrugge già da sé. È facile lasciarsi impressionare da una minoranza e dimenticare la responsabilità di tutti.

Fonte in inglese: http://www.haaretz.com/hasen/spages/668697.html
Tradotto dall'inglese all’italiano da Mirumir e rivisto da Davide Bocchi, membri di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (transtlaxcala@yahoo.com). Questa traduzione è in Copyleft.

venerdì, gennaio 06, 2006

Tre chicchi di riso e quattro formiche

Lettera di un operatore di Al Jazeera detenuto a Guantánamo al suo avvocato britannico Clive Stafford-Smith

Punito per tre chicchi di riso e quattro formicheDi Sami Muhydin al Hajj, 6 novembre 2005
Caro Clive,

Permettimi di confessarti una cosa. Non posso fare a meno di continuare a chiedermi: “Perché mi puniscono?” Questa domanda mi ossessiona, non riesco a togliermela dalla testa.
La mia storia di punizioni è cominciata alla prigione di Bagram. Avevamo il permesso di andare al bagno solo due volte al giorno: la prima subito dopo l’alba e la seconda prima del tramonto, e ciascuno doveva attendere il proprio turno.
Ricordo una volta in cui ne avevo veramente l’urgenza, e sussurrai all’orecchio della persona che era davanti a me di lasciarmi passare avanti. Allora il soldato di guardia mi urlò rabbiosamente: “Non parlare,” e mi ordinò di uscire. Mi legò le mani con del filo di ferro e mi lasciò là fuori tutto il giorno a tremare di freddo, tanto che dovetti orinarmi addosso provocando l’ilarità dei soldati e delle puttane.

Poi, a Kandahar :
In piena estate, mentre stiamo sotto un sole bruciante e su un suolo bollente, un soldato grida: “Tu, fermati, e anche il secondo, il terzo e il quarto! Perché parlate? Mettetevi in ginocchio, le mani sulla testa”. Noi obbediamo e ci lascia lì, sotto quel sole torrido, le ginocchia sulle pietre roventi, finché uno di noi non sviene e gli altri vanno a soccorrerlo.

Una settimana dopo il nostro arrivo a Guantánamo un mattino presto i soldati arrivarono e ordinarono ai detenuti di mettere le braccia attraverso l’apertura usata abitualmente per far passare il cibo: dissero che volevano farci l’iniezione antitetanica.
Quando venne il mio turno li informai che prima di partire da Doha mi ero fatto vaccinare contro il tetano, la febbre gialla, il colera e le altre malattie e che secondo il medico questi vaccini erano validi cinque anni. Dunque non dovevo rifarli.
L’ufficiale mi urlò di non mettermi a discutere: “Metti fuori il braccio per il vaccino, o te lo tiriamo fuori a forza,” disse. Io mi rifiutai di farlo. Per il momento mi lasciarono in pace, ma ritornarono dopo aver finito con gli altri. Io continuai a non accettare di rifarmi vaccinare. Allora mi requisirono tutto, dal materasso allo spazzolino da denti, e mi costrinsero a coricarmi sulla rete di ferro per tre giorni e tre notti.

La domanda che torna a tormentarmi è sempre la stessa: “Perché mi puniscono? La medicine sono obbligatorie? Siamo diventati un branco di pecore ammassate? Dobbiamo accettare tutto senza discutere, senza fare la minima obiezione e senza sapere nulla di quello che ci accade?”

Ma mi è successo di peggio. Una sera mi coricai molto presto. Ero esausto dopo essere stato interrogato per ore. Feci l’errore di coprirmi la testa e le mani. Ero profondamente addormentato quando udii le grida e gli ordini di un soldato: “Tira fuori la testa e le mani da sotto la coperta”. Mi svegliai di soprassalto e mi affrettati a obbedire. In effetti ci avevano proibito di dormire con la testa o le mani sotto la coperta.
Mi ero appena riaddormentato quando il soldato venne a picchiare violentemente sulla porta della mia cella e gridò: “Perché hai messo il dentifricio al posto dello spazzolino?” Mi accusò di disobbedire deliberatamente alle leggi e ai regolamenti militari e mi ordinò di raccogliere le mie cose. Fui punito per un’intera settimana.

E mi si ripresenta l’eterna domanda: “Perché mi puniscono? È una ragione sufficiente per punirmi, requisire tutte le mie cose e farmi dormire per una settimana sulla rete di ferro, senza materasso né coperte?”

Un’altra volta stavo consumando la mia colazione, che consisteva in un barattolo di cibo freddo. Quando ebbi finito di mangiare, un soldato venne a raccogliere i resti del pasto e i sacchetti di plastica. Si fermò sulla porta della mia cella e cominciò a contare i pezzi di plastica e a metterli insieme. All’improvviso si mise a gridare: “Dov’è il pezzo che manca?” Io cominciai a frugare tra le mie cose, invano. Allora andò a riferire la cosa ai suoi superiori e ritornò con questa sentenza: meritavo una punizione che servisse da esempio per gli altri detenuti.
E così mi requisirono le mie cose per tre giorni, durante i quali mi scervellai per trovare una risposta a questa bruciante domanda: “Perché mi puniscono, cosa mai avrei potuto fare con quel pezzetto di plastica introvabile?”

Un’altra volta la provvidenza fece sì che finissi nello stesso blocco di detenzione con Jamel dell’Uganda, Mohamed del Ciad e il britannico Jamel Blama. Ci univa non solo la prigionia, ma anche il colore della pelle e l’odioso colore della tuta arancione dei detenuti. La nostra pelle nera era una ragione sufficiente perché i guardiani bianchi si accanissero contro di noi e ci punissero senza motivo. Spesso ci svegliavano nel mezzo della notte con il pretesto di perquisire la gabbia.

Una notte mi svegliarono per un’altra perquisizione. Non trovarono niente di sospetto... a parte tre chicchi di riso per terra che avevano attirato delle formiche. Mi inflissero una punizione di sette giorni. Ancora una volta ne approfittai per chiedermi ossessivamente: “Perché mi puniscono?” Non riuscivo a capire come tre chicchi di riso e quattro formiche potessero costituire un motivo sufficiente.

Un’altra notte due soldati si fermarono davanti alla porta della mia gabbia. Avevano con sé delle catene e delle manette. Quando bussarono violentemente alla porta mi svegliai in preda al terrore. Mi ammanettarono e mi condussero al blocco Romeo, dove mi misero in una gabbia dopo avermi spogliato di tutto lasciandomi con la sola biancheria intima addosso. Nient’altro, nemmeno il sapone o lo spazzolino da denti.

Chiesi inutilmente una spiegazione per quella punizione, ma le mie domande restarono senza risposta fino all’indomani, quando su mia insistenza un responsabile venne a dirmi ero stato condannato a passare due settimane nella gabbia perché un soldato aveva trovato un chiodo sul bordo esterno dell’apertura d’aerazione della mia cella! Allora dissi al responsabile: “Come mi sarei procurato quel chiodo e come avrei fatto a metterlo sul bordo esterno dell’apertura, e perché?” Ma si voltò e se ne andò, ignorando le mie domande.

E così passai là 14 giorni seduto, evitando per pudore di dire le preghiere perché ero seminudo, e dormii per 14 fredde notti invernali sulla rete di ferro, senza coperte né materasso.

I tormenti e le provocazioni dei soldati si moltiplicarono e si diversificarono.
Una volta venimmo a sapere che un soldato aveva calpestato il Sacro Corano, sporcandolo con le impronte delle sue scarpe. I detenuti si ribellarono e decisero di restituire le copie del Sacro libro all’amministrazione americana per evitare che fossero profanate sotto i nostri occhi, tanto più che il generale si era già impegnato a far sì che questo genere di provocazione non si ripetesse. Ma la promessa non fu mantenuta.

I detenuti allora decisero di non lasciare le loro celle, nemmeno per andare a fare la passeggiata e la doccia di cui avevano tanto bisogno, finché tutte le copie del Sacro Corano non fossero state raccolte.

Com’era loro abitudine, i responsabili vennero subito a urlare ordini e minacce. Fecero uscire le valorose forze anti-sommossa, che aprirono le gabbie e si misero a picchiare i detenuti, li incatenarono e li ammanettarono. Tagliarono loro i capelli, la barba e i baffi e li gettarono in gabbie singole.

Arrivò anche il mio turno. Mi spruzzarono del gas negli occhi, poi cinque soldati si misero a picchiarmi, mi portarono fuori e mi gettarono a terra. Uno di loro mi afferrò la testa e cominciò a sbatterla contro il pavimento di cemento. Un altro mi colpì sull’arcata sopracciliare, causandomi un taglio da cui presto cominciò a uscire molto sangue. Tutto questo accadde mentre ero steso a terra, ammanettato e incatenato. Mi tagliarono capelli, baffi e barba e mi buttarono in una gabbia singola, ricoperto di sangue.

Dopo un’ora un soldato venne a chiedermi, attraverso l’apertura della porta, se mi servivano le cure di un medico. Rifiutai l’offerta e mi raccomandai a Dio, mostrandogli l’ingiustizia dei miei carcerieri. A un certo punto mi accorsi che stavo svenendo a causa della perdita di sangue, e allora chiesi di essere medicato. Mi diedero tre punti di sutura all’arcata sopracciliare, mi fasciarono la testa e mi diedero dei sonniferi, dicendo che erano degli antibiotici. Il tutto, attraverso un’apertura di pochi centimetri.
Mi addormentai, oppresso dall’ingiustizia terribile di quegli uomini.

La mattina del giorno dopo avevo appena aperto gli occhi quando mi trovai di nuovo ossessionato dalla stessa domanda: “Perché mi puniscono? La difesa della mia fede e della mia religione è forse un crimine punibile con il carcere? La nostra richiesta di ritirare le copie del Corano perché non siano profanate sotto ai nostri occhi è un crimine? Perché mi trovo qui? Il fatto che io sia partito per l’Afghanistan per trascorrervi quattro settimane con una telecamera per conto di Al Jazeera dopo la guerra d’aggressione contro un popolo disarmato è anch’esso un crimine per il quale devo essere punito con più di quattro anni di carcere? E per il quale devo essere accusato di terrorismo?”
Tante domande si affollavano nella mia mente, tormentandomi lo spirito e andando ad infrangersi contro tutti gli slogan ingannevoli di cui si gloriano i promotori della libertà, i difensori della democrazia e i protettori della pace in terra.

Originale: http://www.aljazeera.netTradotto dall’arabo in francese da Ahmed Manaï, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (transtlaxcala@yahoo.com), dal francese in spagnolo da Juan Vivanco a http://www.rebelion.org, dallo spagnolo in inglese da Ernesto Paramo, membro di Tlaxcala, dal francese in italiano da Mirumir, membro di Tlaxcala. Questa traduzione è in copyleft.
Versione francese: http://quibla.net/guantanamo2006/guantanamo1.htm
Versione spagnola: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=25069
Versione inglese: http://peacepalestine.blogspot.com