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sabato, dicembre 01, 2012

La bestia

– Sai la famiglia serba che abita nel nostro condominio?
– No.
– Ma sì, padre, madre, due figli. Hanno una vecchia Opel Corsa. Lui forse fa il camionista, ma non lo so.
– L'hai visto girare con un camion?
– No, lo vengono a prendere. Magari il camion ce l'ha verso Padova.
– Perché verso Padova?
– Perché così immagino io. Lo vengono a prendere ora con la Mercedes, ora con la BMW, insomma con macchine diverse.
– E lo portano a Padova.
– Io penso.
– Va bene.
– Allora poco fa lo incontro in garage. Sta lì con un metro in mano che misura il suo posto auto. Mi dice "scusi, sa". E si vede benissimo che vuole parlare.
– Si vede.
– "Mi dica", dico io. "Prendo le misure" fa lui "Perché sa, signora, io ho un sogno".
– Sentiamo.
– "Ho deciso di comprarmi una bestia" dice. Una bestia, penso io, non vorrà mica parcheggiare un cavallo nel posto auto? Però non voglio mettergli delle idee in testa, e allora dico "Prende un pastore tedesco?".
– E lui?
– Lui mette via il metro tutto contento e fa "Mi compro una Jaguar".
– Una Jaguar!
– Usata, però. Quarantamila euro, dalla Germania. "Perché nuova non me la posso permettere" dice.
– Usata, invece?
– Usata si vede di sì, anche se a dirla tutta è indietro con le rate del condominio.
– Mette via i soldi.
– Dice che lui ha un sogno, e che senza sogni tanto vale morire. Mi ha anche scritto l'indirizzo del sito tedesco.
– Il sito di Jaguar usate.
– "Vero, signora, che senza sogni tanto vale morire?".
– E tu?
– E io: "Certamente".
– Hai fatto bene.
– Adesso ho capito chi legge tutte quelle riviste di donne e motori che trovo accanto ai bidoni della spazzatura.
– Il serbo della Jaguar.
– A volte vedo anche robe pornografiche, secondo me è sempre lui.
– Perché lui sogna.
– Cosa siamo, senza sogni?
– Camionisti a Padova, quello siamo.
– ...
– ...
– Però il suo sogno sporge di trenta centimetri.

sabato, giugno 09, 2012

La prossima volta che ti vedo sono due

Sono a Udine con un gruppo di amici. Dobbiamo andare a piedi dal centro (poniamo piazza San Giacomo) alla stazione. A quel punto la città si allarga, le linee rette si spezzano e si biforcano: passaggi, portoni, ristoranti, vicoli ciechi, un Coin, una chiesa sghemba, un ippodromo. A. intanto mi convince che dovrei provare l'equitazione, insomma l'ippica, che è facile, che tutto sommato non costa molto, che lei lo fa. In quel momento mi accorgo che non solo porta un berretto da cavallerizza, ma anche una maschera con il naso a punta e le lentiggini.
Imbocchiamo un passaggio coperto. Io ogni tanto mi giro per controllare se ci siamo tutti.
E poi dico: "Non vi sarà certo sfuggito che uno di noi è stato sostituito da un'altra persona, da cicciottello è diventato alto e magro, anzi è diventato il mio amico Nando".
Loro se ne stanno tutti zitti e a testa bassa, come umiliati.
"Se va bene a voi" aggiungo polemica. "Ma la prossima volta che mi giro cosa vedo, Michael Fassbender?"

Sua Cinicità dice che mica ho scelto Fassbender per caso, visto che è il qualsiasi, l'uomo dai lineamenti regolari ma generici come un identikit, l'Everyman. Fassbender è memory-proof come i Silent del Doctor Who: lo vedi e te lo dimentichi, lo rivedi, te lo ricordi e te lo dimentichi. Ma chi è questo nuovo che fa Jung? Fassbender? Lo conosciamo? Ma che bella dentatura regolare, chi è? Fassbender? A però. È nuovo?
E poi in Prometheus se ne sta sempre a toccare i pulsanti e a fare di testa sua senza mai essere disturbato neanche per sbaglio da uno sceneggiatore, o forse cade dagli occhi del montatore, e quando gli chiedono "riesci a leggere queste scritte" lui dice "credo" e poi le legge ma mica le spiega, come quelli che se gli chiedi "sai l'ora?" rispondono "sì grazie".

Dunque forse ho paura di girarmi una terza volta perché temo che Fassbender prenderà una delle sue stupide iniziative, come incrociare un vermiciattolo alieno con un furlano di Tavagnacco o mescolare acqua e cabernet. E infatti non mi giro, facciamo che quello alle mie spalle ha ancora la fisionomia scettica e affidabile di Nando e stiamo a posto così. Mi sveglio prima di raggiungere la stazione.

martedì, ottobre 04, 2011

La paura della gravità


All'inizio sono a casa con mia madre, nella luce abbagliante di un dopopranzo estivo. Siedo sotto una finestra, un grande rettangolo dai grossi bordi bianchi e arrotondati.
Dico a mia madre che se va tutto bene ci mettiamo sette ore, dunque al suo ritorno dal lavoro sarò nuovamente qui ad aspettarla. E che il pullover lo lascio sotto la finestra.

Mio padre apre la porta del garage, io porto fuori la macchina.
D'un tratto è notte fonda, lui dice "non capirò mai come fai a guidare a fari spenti". "Non tanto per te", aggiunge, anche se la strada è deserta. Sul sedile posteriore c'è Antonia, mi rendo conto che ci aspettava in macchina, stranamente composta, la borsetta sulle ginocchia e una caramella balsamica in bocca.

L'aeroporto è grande, formato da un corpo centrale e da grandi padiglioni circolari. Gli interni sono di legno, naturale o verniciato a colori vivaci: di legno sono i pavimenti, le pareti, le finiture, i pannelli scorrevoli da cui entrano ed escono i passeggeri. D'un tratto sembra di stare in un vecchio albergo di montagna. D'un tratto il presente assomiglia a un futuro immaginato negli anni Cinquanta. Noi tre passiamo da un padiglione all'altro, alla ricerca dei banchi del check-in. Sono in ritardo, so che mi stai aspettando. Il mio telefono segnala cinque tue chiamate perse. Finalmente vediamo una grande insegna verde a forma di freccia irregolare con la scritta ARRIVI e la sagoma stilizzata di uno steward (simile ai cuochi di cartone che salutavano gli automobilisti di passaggio, fuori dei ristoranti). La scritta ci tranquillizza: siamo arrivati. Tu infatti ci aspetti al banco del check-in con il biglietto in mano. Ma come, mi preoccupo, la destinazione sul tuo biglietto è la Georgia, non può essere. Tu spieghi che è una destinazione di comodo. E con un gesto veloce abbracci il viavai di gente nella sala: "qui nessuno va dove sta scritto sul biglietto, dai". Poi mi racconti un sogno che hai fatto, un sogno complicato e pieno di numeri. I numeri me li dici adesso che non possiamo farci niente, dico io. Improvvisamente non ho più borsa né valigia, solo una manciata di oggetti: gli occhiali da vista, piccoli fermagli per capelli.

Entriamo in uno dei padiglioni. Mi dici "spero che la piccola faccia la brava". Io ti rispondo che dobbiamo preoccuparci non della piccola ma di Antonia, anche se oggi è insolitamente disciplinata. Poi ti dico che Antonia ha un regalo per la piccola, un piccolo scheletro di dinosauro. "Sarà contentissima. Sai com'è fatta lei" dici.

Siamo pronti. Mentre davanti a noi sta per aprirsi il pannello scorrevole mi torna in mente un programma che ho visto alla tv, dove due astronauti rispondevano a una domanda sulla paura della gravità e uno di loro diceva: "Quando scendi dall'ultimo piano di un grattacielo altissimo sai che avrai paura, ma che il viaggio in ascensore durerà solo sette minuti. Lo spavento dura poco, passa quando tocchi il suolo. Per noi non è mai il viaggio a far paura, ma la gravità che non ci tiene più". 
Capisco che non ci metteremo sette ore. Sette erano solo i minuti di un viaggio in ascensore, in un programma alla tv.

L'ultima immagine è quella della bambina con il suo bianchissimo scheletro di dinosauro.
L'ultimo ricordo è quello del pullover abbandonato sotto la finestra, in una luce senza scampo.

mercoledì, maggio 20, 2009

Non era la prima volta che non si buttava dalla finestra

Lunedì mattina. Dormo nella stanzetta di pochi metri quadri al terzo piano di un palazzo vicinissimo ai Tolentini. È primavera, ho lasciato le finestre aperte e gli scuri accostati. Sogno.
A un tratto sento gridare il mio nome: Manu, Manu. Ma anche: Natta, Natta.
Apro gli occhi nella penombra acquatica, mi accorgo che non ho sentito la sveglia.
Manu, Manu, Natta, e un vociare confuso.
Mi alzo, schiudo le persiane e sbianco davanti al sole e all'azzurro accecanti e ai panni stesi del palazzo di fronte.
Poi abbasso lo sguardo.
“Natta, Natta”.
Accanto a Michele si è già formato un gruppetto di curiosi. Guardano tutti su.
“Manu, te fa fadìga a alsàrte come Natta, ah?”
Faccio un cenno con la mano, mi sistemo il ciuffetto biondo proprio in cima alla testa e sorrido
“Sì”, cenno e sorriso.
Il gruppetto di curiosi ricambia il saluto. Studenti, un paio di massaie, anziani con il Gazzettino in mano, un tizio in completo grigio, una signora con la carrozzina, un garzone con il carretto. Guardano su e ridono, ridono tutti.
“Àlsite, Natta”.
“Sì, ah, sì”, sbadiglio.
L'ultima volta che ho votato partito comunista, e ho perso.

Questo non è un sogno.




Gli incubi vennero dopo
.

martedì, agosto 21, 2007

Che ti ho portato a fare sopra a Čimgan se non mi vuoi più bene?

Nel sogno io sono proprio io, solo che voglio aprire una pizzeria in Uzbekistan. Nella realtà in Uzbekistan torturano che è un piacere (anche conto terzi), però l'Uzbekistan mio è campi di girasole e kolchoziani allegri dagli zigomi alti e le guance rosse. L'Uzbekistan mio è una repubblica sovietica.
La pizzeria è ricavata da una casetta accostata dipinta d'azzurro e verde, il pizzaiolo ce l'ho, resta solo da issare l'insegna. L'insegna raffigura il mio pizzaiolo bello e baffuto, con un fazzoletto rosso al collo, che porge un'enorme iperrealista pizza appena sfornata.
Solo in quel momento noto il nome della pizzeria, il mio sogno nel sogno:
"Il Maestro e la Margherita".
Mi sveglio ridendo.

[Sul nome della pizzeria ci mettiamo un bel copyright, perché nella vita, come nella fase rem, non si sa mai.]

giovedì, agosto 02, 2007

Mir! (uno, due, tre)

Mentre Mir-1 e Mir-2 toccavano gloriosamente il fondo artico*, più modestamente la Mir vostra toccava il fondo della sua emicrania "yu-uu" e si apprestava a risalire lietamente in superficie.

Questa notte ho sognato che perdevo il treno per Pordenone e che dividevamo nuovamente per 4 un conto di 25 euro, ma stavolta il quarto era Jedi Fëdor.
Nella realtà Jedi Fëdor invece comunica di essere vicino alla zona Playmobil 1 ("un anno avanti a noi"). Potrebbe essere l'effetto del Difmetré, ma a me sembra molto bello. Confermate?

*Frase del giorno: "Il suolo è giallastro e non si vedono abitanti". Anche a volta niente Ufi, sapete.


giovedì, luglio 12, 2007

Vogliamo l'acqua, ma anche le viole

Siamo nella mia cucina, parliamo. Io sono preoccupata per qualcosa e stranamente silenziosa, mentre tu mi racconti del tuo lavoro. Dici: "Sai, ultimamente mi interesso della ricerca nel settore della sicurezza. Tutta questa paura, capisci? Insomma, sto studiando l'antifurto perfetto".
A me sembra strano, però sono contenta perché capisco che il tuo sarà un antifurto speciale: un antifurto che impedisca di rubare le persone, i pensieri e i ricordi.
Allora ti chiedo se anch'io avrò bisogno del tuo antifurto, e tu dici "tutti ne avremo bisogno".
Poi ci abbracciamo, e io comincio a dirti che forse tutto questo discorso sulla sicurezza ha senso, ora che ci penso: "Stranamente, proprio tu, mi dai sicurezza". Ma tu dici piano "parli sempre, invece ascolta qui". Dal rubinetto della cucina insieme all'acqua esce un suono complesso dal timbro profondo, prolungato e struggente. Un quartetto di viole invisibili nel mio lavandino.
"Sarà normale?" chiedi tu, ridendo. "Hai una sola cosa normale, tu?"
"Certo che è normale," rispondo, "Sto sognando. Adesso sei tu che parli troppo".

martedì, agosto 22, 2006

Un sogno normale

– Senti qua che strano, ho sognato che George Clooney mi aiutava a ottenere la liberazione di un attivista innocente rinchiuso in un carcere marocchino.
– Ma tu, sogni normali, mai.
– E non mi piace, George Clooney. Credo di essere l'unica donna a sognarlo a fini vagamente politici o umanitari.
– Invece senti il mio: sono a Milano, devo andare dal dentista. A un certo punto arrivo in Corso Buenos Aires, che però è ricoperto d'erba. E poi mi dico che dovrei andare a trovare Andrea. Così mi avvio verso il Castello Sforzesco, ma il Castello non c'è. E per forza non c'è. È Roma, non Milano.
– Eh.
– Questo è un bel sogno normale.
– La fortuna di un analista, proprio.
– Tu se non ci fai stare anche 22 agenti della CIA e il rapimento di un imam non sei contenta.

Oh, beh.

domenica, ottobre 31, 2004

I miei sogni

Messaggio dalla Miru del futuro. È il 3 novembre del 2023 e non so da dove cominciare.

"Non so se qui da noi i più giovani avvertano in queste ore il nostro stesso turbamento. Per noi Arafat ha rappresentato la scoperta di un'ingiustizia che ignoravamo, venuta prepotentemente alla ribalta grazie a una coraggiosissima guerriglia popolare, intrecciata a una spregiudicata iniziativa diplomatica, a una politicizzazione di massa che ha consentito di evitare i gesti esemplari ed isolati (si pensi alla condanna da parte di Al Fatah del dirottamento degli aerei operato a suo tempo dal Fronte popolare) perché non rendevano partecipi la collettività. Un movimento nato da una costola del nazionalismo ma che rapidamente si era imbevuto della cultura del movimento operaio internazionale col quale si trovò subito consonante. Da quell'esordio sono passati molti anni e la tragica immagine di Arafat prigioniero da due anni e mezzo in un edificio diroccato di Ramallah, costretto a ricevere da Sharon la pelosa libertà di uscirne per entrare in un ospedale di Francia da cui non si sa se potrà mai rientrare nel suo paese, mentre case e uliveti della sua gente vengono divelti dai bulldozer israeliani e i corpi di fratelli e sorelle dilaniati dalle bombe di Sharon che passa per un «eroe» perché ha imposto il ritiro di qualche colono dalla Striscia di Gaza, tacendo su cosa vorrà fare della Cisgiordania - tutto questo rischia di farci morire la speranza nel cuore, di indurci a pensare che i feddayn, che il presidente dell'Olp aveva portato alla ribalta della storia sono stati, anch'essi, un mito del `68. Da seppellire con tutti i sogni del `900".
Luciana Castellina, "La pace non si esilia", Il Manifesto, 30.10.2004.


giovedì, maggio 27, 2004

5 cent. La piccola posta di Miro Van Pelt




"Cara Van Pelt,

non ho visto il documentario sul Che di cui parli, ma ho visto il film. Un'altra volta ancora mi ha colpito come la purezza con difficoltà si disgiunga dalla durezza, e come su entrambe si fondino probabilmente le energie di una rivoluzione, anche minima. Mi chiedo, e ti chiedo, viste le osservazioni sull'umanità in cui ti soffermi, a che cosa valga crescere ed integrare parti sconosciute di noi stessi, nuovi 'io', nuove visioni, che si facciano impiegare come braccia o mani o organi via via più sviluppati, in grado di perfezionare le nostre prestazioni. Se poi, per fare qualcosa, non basti essere vergini e spietati".
un ex buono

Caro ex buono, ti riportertò una frase di Alberto Granado: "La mia lunga esistenza è stata segnata da tre fattori fondamentali: la mia innata capacità di essere fedele ai miei sogni, la mia eterna amicizia per Ernesto Guevara, il mio impegno nella costruzione della Rivoluzione cubana. E sono grato alla vita per quello che mi ha dato".
E subito ti rispondo: no, credo (e spero) che non basti essere vergini e spietati.
Il viaggio in motocicletta di Ernesto e Alberto segna di fatto per loro la fine dell'innocenza e l'inizio della conoscenza.
Rinunciare alla verginità per l'esperienza, perfezionare se stessi e la propria visione è necessario, non ci sono scorciatoie "per fare le cose". Hai ragione, ci sembra a volte di procedere per pesanti accumuli, e ci domandiamo a cosa ci servano tutti questi arti e questi organi nuovi, e se non ci rallentino invece di avvantaggiarci.
Ma non credi forse che quello a cui possiamo realisticamente tendere sia piuttosto una seconda innocenza, questa volta conquistata attraverso la maturità: e cioè una visione semplice, chiara e limpida, fatta di tutte le cose pensate e passate? Io ho in mente l'impegno, il sogno rivoluzionario, tu forse stai pensando alle fatiche della creazione, all'ispirazione, o alle rivoluzioni anche minime della vita quotidiana. Ma in comune non c'è forse la capacità di tener viva dentro di sé un'energia, una visione, passando attraverso la conoscenza e l'esperienza?
Pensa alla semplicità disarmante della frase di Granado, pensa alla laconicità di Music che già anziano così spiegò gli impasti di colori e le atmosfere dei suoi paesaggi in cui la figura umana è sempre assente: "Gorizia vuol dire piccola collina; io sono nato in una piccola collina". Raggiungere questa semplicità fatta di concentrazione, di umanità, di cose raggiunte, di scelte: c'è di che ringraziare la vita molte e molte altre volte ancora.

Facciamo un sogno. Questa sera vai a dormire sapendo che domani mattina ti sveglierai senza il carico del tuo passato, ti metterai a scrivere e ne uscirà qualcosa di bello e selvaggio, completamente svincolato dalla tua vita precedente (dalle tue letture, dai tuoi pensieri di sempre). Oppure: sperimenterai un nuovo atteggiamento, molto più disinvolto e deciso, che si rivelerà efficace nei rapporti con il tuo ambiente di lavoro, portandoti a emergere e in breve tempo a prevalere.
Il prezzo di questa purezza violenta e persuasiva, della tua nuova verginità crudele e vincente, è la rimozione del passato (dimentica esperienza, errori, dubbi; dimentica sensibilità, cose e persone amate, piaceri, eccessi, visioni, sogni).
Cosa fai, spegni l'abat-jour o ti prepari una moka da sei tazze?

mercoledì, aprile 28, 2004

Sogno prima felice, poi dolentissimo e funesto

È l'estate del 1989. Sono nella città di G., in piazza del Municipio, all'uscita di via Garibaldi. Nel sole di giugno osservo i tavolini all'aperto del bar che nel 1989 è ancora il bar gelateria Boni, diretto concorrente del bar gelateria De Rocco. A uno di questi tavoli sono seduti Achille Occhetto e Bettino Craxi. Mi avvicino, chiedo permesso e mi siedo accanto a loro (evidentemente ci conosciamo). Ordino due palline di gelato con la panna e l'amarena (anzi, una "berlina all'amarena", perché è il 1989 e siamo nella città di G.). Poi, con molta calma ("permette, compagno Occhetto?"), espongo freddamente a Bettino Craxi quello che penso di lui e che da anni vorrei dirgli. Il discorso mi riesce bene come solo nei sogni può accadere (quante volte ho socializzato in lingue sconosciute, in fase rem?). Tanto che lui rimane senza parole, si alza e si allontana a capo chino, forse per furbizia. Il compagno Occhetto ed io ci scambiamo uno sguardo stralunato.
Poi lui si alza - solo adesso mi accorgo che indossa un cappotto pesante, nonostante la bella stagione - e dice: "Devo assentarmi per qualche minuto. Sarebbe così gentile da tenermi il colbacco?". "Ma certo", rispondo.
Rimango seduta al tavolino del bar Boni, con il colbacco in grembo, a guardare l'orologio del Municipio. La berlina si sta squagliando, mi sudano le mani. Il tempo passa così, fino al risveglio.

Il racconto di questo sogno suscitò grandi risate tra gli amici di allora, alcuni dei quali odiosamente socialisti, e anche qualche pacca sulla spalla; del resto, poco tempo prima avevo sognato di volare di notte su Porto Marghera come una specie di Superman proletario, e questo non giocava a mio favore.
Qualche volta ci ripenso.
Ho smesso con i voli notturni su Marghera: era una cosa che non poteva durare.
Ma liberarsi del colbacco, capite, è tutta un'altra storia.