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martedì, dicembre 21, 2010

Forse un oltraggio

Lasciamo troppe cose messe in movimento e la loro inerzia così debole ci sopravvive: le parole che ci sostituiscono e che talvolta qualcuno ricorda o trasmette, non sempre confessandone la provenienza; le lettere levigate e le fotografie incurvate e le note lasciate su una carta gialla a colei che va a dormire sola dopo gli abbracci desti, perché ce ne andiamo di notte come miserabili di passaggio; gli oggetti e i mobili che sono stati al nostro servizio e con i quali siamo stati in contatto – una sedia rotta, una penna, una scena indiana, un soldatino di piombo, un pettine –, i libri che abbiamo scritto ma anche quelli che abbiamo soltanto comprato e che una volta abbiamo letto o che sono rimasti rinchiusi fino alla fine nel loro scaffale e proseguiranno rassegnati in un altro posto la loro vita di attesa in attesa di altri occhi più avidi o tranquilli; i vestiti che rimarranno appesi tra la naftalina perché forse qualcuno addolorato si impegnerà a conservarli – anche se non so se c'è la naftalina, le stoffe scolorando e illanguidendo e senz'aria, dimenticando ogni giorno di più le forme che davano loro un senso, e l'odore di quei volumi –; le canzoni che si continueranno a cantare quando noi non le canteremo né le canticchieremo né le ascolteremo, le strade che ci accolgono come se fossero interminabili corridoi e dimore che non badano ai loro inquilini effimeri e commutabili; i passi che non si possono riprodurre e non lasciano traccia sull'asfalto e sulla terra si cancellano, o no, quei passi non rimangono ma vengono via con noi o anche prima, con la loro innocuità o con il loro veleno; e le medicine, la nostra grafia frettolosa, le foto amate che teniamo in vista e che non ci guardano più, il cuscino e la nostra giacca appoggiata su una spalliera; un casco coloniale venuto da Tunisi negli anni Trenta a bordo della nave Ciudad de Cádiz ed è di mio padre e ancora conserva il soggolo, e quel servitore indù di legno dipinto che ho appena portato a casa con una certa esitazione, a sua volta durerà più di me quella figura, probabilmente. E le narrazioni che abbiamo inventate, di cui si approprieranno gli altri, o parleranno della nostra passata esperienza perduta e mai conosciuta facendoci così diventare fittizi. Persino i nostri gesti li continuerà a fare qualcuno che li ha ereditati o li ha visti e senza volere è stato mimetico o li ripete di proposito per invocarci e creare una curiosa illusione di momentanea vita vicaria nostra; e forse si conserverà isolato in un'altra persona qualcuno dei nostri tratti che avremo trasmesso involontariamente, con civetteria o come maledizione incosciente, perché i tratti portano a volte la buona ventura o disgrazie, gli occhi orientaleggianti e le labbra come se fossero dipinte – «bocca a pizzo, bocca a pizzo» –; o il mento quasi separato, le mani larghe e nella sinistra una sigaretta, non lascerò nessun tratto a nessuno. Perdiamo tutto perché tutto rimane, tranne noi. Per questo ogni forma di posterità forse è un oltraggio, e magari lo è anche allora ogni ricordo.

Javier Marías, Nera schiena del tempo, Torino, Einaudi, 2000. Traduzione di Glauco Felici.

mercoledì, luglio 01, 2009

Ljudmila Zykina, 1929-2009



Da luoghi lontani
scorre il fiume Volga.
Il fiume Volga scorre,
e non ha fine.
Per campi dorati di grano, per bianche pianure
scorre il mio Volga,
E ho diciassette anni.

Mia madre mi disse,
tutto può succederti.
Potrai stancarti di vagabondare,
e quando tornerai,
alla fine del tuo viaggio,
immergi le tue mani
nel fiume Volga.

Da luoghi lontani
scorre il fiume Volga.
Il fiume Volga scorre
e non ha fine.
Per campi dorati di grano, per bianche pianure
scorre il mio Volga,
e ho già trent'anni.

Quel primo sguardo,
il primo sciabordio di un remo,
tutto questo è accaduto,
ma il fiume l'ha portato via.
Non mi manca quella primavera lontana,
Perché ho con me il tuo amore.

Tra campi dorati, tra bianche pianure
ti ho guardato, Volga,
per settant'anni.
Questo è il mio porto, qui stanno i miei amici,
e tutto ciò che serve per restare vivi.
Lontano da qui nel silenzio stellato
un altro ragazzo canta insieme a me.

Da luoghi lontani
scorre il fiume Volga.
Il fiume Volga scorre
e non ha fine.
Per campi dorati di grano, per bianche pianure
scorre il mio Volga,
e ho diciassette anni,
ho diciassette anni,
ho diciassette anni.


"Течет река Волга", "Scorre il fiume Volga" (Mark Fradkin-Lev Ošanin), 1962.

venerdì, novembre 12, 2004

12 novembre

Oggi ho bisogno di Walt Whitman. Non quello su di giri che ha contagiato la poesia americana di un vitalismo quasi insopportabile (pur liberandola una volta per tutte dalla staticità e dall'accademismo), ma il Whitman dei versi in memoria di Lincoln: altro presidente, altro secolo e diversa stagione dell'anno, quella in cui dolcemente e crudelmente fioriscono i lillà. Esprimono il rispetto per un capo, il dolore dei suoi soldati, l'amore per una terra, e la forza della poesia: così parlano al mio cuore.

1
Hush'd be the camps to-day;
And, soldiers, let us drape our war-worn weapons;
And each with musing soul retire, to celebrate,
Our dear commander’s death.

No more for him life’s stormy conflicts;
Nor victory, nor defeat no more time’s dark events,
Charging like ceaseless clouds across the sky.

2
But sing, poet, in our name;
Sing of the love we bore him because you, dweller in camps, know it truly.

As they invault the coffin there;
Sing as they close the doors of earth upon him one verse,
For the heavy hearts of soldiers.

giovedì, novembre 11, 2004

Quando le cose finiscono

Quando le cose finiscono ormai hanno un loro numero e il mondo dipende allora dai suoi relatori, ma per poco tempo e non del tutto, non si esce mai del tutto dall'ombra, gli altri non finiscono mai e c'è sempre qualcuno per cui si racchiude un mistero. [...]
E quanto poco rimane di ogni individuo nel tempo inutile come la neve scivolosa, di quanto poco rimane traccia, e di quel poco tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo solo una parte minima, e per poco tempo: mentre viaggiamo verso il nostro sfumare lentamente per transitare soltanto alla schiena o al rovescio di quel tempo, dove non si può continuare a pensare se non si può continuare a prendere commiato: "Addio risate e addio oltraggi. Non vi vedrò più, né voi mi vedrete. E addio ardore, addio ricordi".

Javier Marías, Domani nella battaglia pensa a me



(un paio di sere fa D. mi chiedeva come mai non avessi mai acceso la candela di Gerusalemme. Eccola.)

venerdì, ottobre 29, 2004

Il leone è vivo

"Oggi, mentre Arafat spera forse in una diagnosi in un grande ospedale francese, è davvero il suo sangue a essere colpito da una malattia misteriosa o è il cervello di una crescente parte del mondo a essere contagiato da una patologia sempre più grave? Per non parlare dell’anima, del cuore..."

Pietro Mariano Benni, Misna.org

domenica, giugno 27, 2004

Quelli che scrivevano sui monti

La scritta Nas Tito sul monte Sabotino l'altro ieri è scomparsa.
Per non buttare via niente, è stata solo in parte distrutta: quel che avanzava è stato ricomposto in SLO.
Ovvero, come la Slovenia decise di chiudere con il passato e diventare un grande, entusiasta, europeo, soleggiato e verde agriturismo (con tanti tanti casinò).
Mi hanno detto che un Nas Tito è riapparso pochi giorni fa sul Monte Concusso, a Basovizza, vicino a Trieste.
Ma la storia facciamola finire qui.

mercoledì, giugno 09, 2004

Il sacro feretro

Settanta chilometri di code, attese di otto ore, 105mila persone già in visita al feretro di Ronald Reagan alla biblioteca-museo di Simi Valley, in California. Qualcuno pensa già di mettere la sua immagine sulla banconota da 10 dollari. In Italia c'è chi ha mostrato segni di delirio.
Radio Reloj di Cuba così ha salutato la sua dipartita: "è morto colui che non avrebbe mai dovuto nascere". Chiamatemi sentimentale.

sabato, febbraio 14, 2004

23.30

There is a wisdom that is woe; but there is a woe that is madness. And there is a Catskill eagle in some souls that can alike dive down into the blackest gorges, and soar out of them again and become invisible in the sunny spaces. And even if he for ever flies within the gorge, that gorge is in the mountains; so that even in his lowest swoop the mountain eagle is still higher than other birds upon the plain, even though they soar.

[c'è una saggezza che è dolore; ma c'è un dolore che è pazzia. E in certe anime c'è un'aquila dei Catskill che può sia tuffarsi nelle gole più oscure, sia risalirne fuori e librarsi invisibile negli spazi del sole. E anche se voli per sempre nella gola, quella gola è tra le montagne, sicché perfino nel suo tuffo più fondo l'aquila montana è sempre più alta degli altri uccelli della pianura, per quanto possano salire]
Herman Melville, Moby Dick

domenica, febbraio 01, 2004

M.

Chi l'ha conosciuta – anche per le sue intemperanze e il suo carattere, per i morsi sulle mani o per le Nike nuove di zecca graffiate con soddisfazione – sa che sono stati dodici anni bellissimi di assoluta felicità.
In primavera, la sua stagione preferita, c'è a mezzogiorno un quadrato di pavimento, vicino alla libreria, illuminato dal sole nelle giornate serene. Questo - che ha l'equivalente in una zona del mio cuore dove è sempre primavera, e mezzogiorno, e c'è il sole - resterà sempre il suo posto.

mercoledì, novembre 12, 2003

Come neve sulle spalle

"Così sopportiamo i secoli e così niente diminuisce né finisce mai, tutto si contagia, niente ci lascia andare. E questo tutto ci va scorrendo come neve sulle spalle, sdrucciolevole e placida, solo che è neve che viaggia nel tempo, e più in là di noi, e che forse mai si ferma".

Javier Marías, Il tuo volto domani