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giovedì, settembre 16, 2010

Un fallimento chiamato allegria

E allora io pensai di nuovo a Estridentópolis, ai suoi musei e ai suoi bar, ai suoi teatri all'aperto e ai suoi giornali, alle sue scuole e ai suoi dormitori per poeti erranti, a quei dormitori dove avrebbero dormito Borges e Tristan Tzara, Huidobro e André Breton. E rividi sua eccellenza il generale mentre parlava con noi, lo rividi mentre beveva appoggiato alla finestra, lo vidi ricevere Cesárea Tinajero che arrivava con una lettera di raccomandazione di Manuel, lo vidi leggere un libricino di Tablada, forse quello in cui don José Juan dice: "Sotto il celeste tremore / delira per l'unica stella / il cantico dell'usignolo". Come dire, ragazzi, dissi, che vedevo gli sforzi e i sogni, tutti confusi in un unico fallimento, e che questo fallimento si chiamava allegria.
Roberto Bolaño, I detective selvaggi, Sellerio 2003. Traduzione di Maria Nicola.

Incongruamente e fuori tempo massimo, esigo il mio fallimento fatto di sogni e sforzi, il mio personale comma 22, il tonfo allegro da circo o comica o cartone animato con braccia roteanti e piedi che pedalano nel vuoto prima della caduta, e la gente che fa oh e subito dopo però si mette a ridere. Lo voglio così tanto da rischiare il peggio che mi possa capitare: non fallire affatto.

sabato, maggio 01, 2010

Nessun muro a cui appoggiarsi: l'intervista di "Lateral" a Roberto Bolaño

Intervista a Roberto Bolaño
Testo pubblicato su Lateral. Revista de cultura, numero 40, aprile 1998

È stato la rivelazione letteraria dello scorso anno. È cileno, è nato nel 1953 e dal 1977 vive in Spagna. Prima di allora ha viaggiato a lungo. A quindici anni si trasferisce in Messico, dove diventa poeta, vive di giornalismo e si converte al trotzkismo. Nel 1973 fa ritorno in Cile, in tempo per assistere al golpe militare. Arrestato, per un colpo di fortuna viene scarcerato. Nel Salvador conosce i futuri assassini di uno dei maggiori poeti latinoamericani. Di queste ed altre cose parla nell'intervista. In Spagna ha fatto tutti i mestieri. A 43 anni compiuti pubblica il suo primo libro di narrativa, La letteratura nazista in America (La literatura nazi en América, Seix Barral, 1996), acclamato dalla critica spagnola. Poi vengono Stella distante (Estrella distante, Anagrama, 1996), romanzo che consolida la sua reputazione, e i racconti di Chiamate telefoniche (Llamadas telefónicas, Anagrama, 1997), che lo consacra come uno dei migliori scrittori contemporanei di lingua spagnola. Da alcuni anni vive in un paesino della Costa Brava.

Come capita a Blanes un cileno?
Per caso. A Blanes sono arrivato per metter su un'attività; all'epoca facevo il negoziante. Era un negozio di bigiotteria e abbigliamento, un negozio per turisti, e così sono rimasto a vivere lì.

Vive ancora di questo?
No, dal '93 vivo esclusivamente di letteratura. Quell'anno vinsi tre o quattro premi che mi portarono molti più soldi dei libri pubblicati in seguito. Avevo quarant'anni.

Deve essere stata una svolta miracolosa...
Non lo considero né una svolta né un miracolo. Scrivo da quando avevo 18 anni e a 22 in Messico già vivevo di letteratura. Tutto il denaro che guadagnavo veniva dalla scrittura: giornalismo, articoli... Ricordo che il biglietto aereo per l'Europa me lo comprai con due articoli pubblicati su una rivista messicana.

E perché venne in Spagna?
Venni in Spagna nel '77. In realtà me ne andai in Svezia, dove più o meno mi ero rimediato un lavoro, ma mia madre viveva in Spagna da due anni e quando arrivai era molto malata. Poi mi misi ad aspettare che si rimettesse, insomma ad aiutarla. Barcellona, nel '77, era una vera bellezza, una città in movimento con un clima gioioso in cui tutto era possibile. La politica si mescolava con la festa, con una grande liberazione sessuale, una vera esplosione sessuale, un desiderio di fare costantemente qualcosa, che probabilmente era artificiale, non mi faccio troppe illusioni al riguardo, ma artificiale o autentico che fosse era tremendamente seducente. Per me fu una scoperta, e mi innamorai della città. A Barcellona imparai cose che credevo di sapere ma che in realtà non sapevo.

Per esempio?
Il vivere al di fuori della letteratura. In Messico vivevo molto a contatto con la letteratura. Vivevo in mezzo ad altri scrittori e mi muovevo in un mondo dove chi non era scrittore era artista. E a Barcellona cominciai a muovermi in un mondo dove non c'erano scrittori. Avevo amici scrittori, ma un po' alla volta mi feci amici di altro tipo. Ovviamente ho fatto di tutto: il lavapiatti, il cameriere, la guardia notturna, il netturbino, lo scaricatore di porto, il vendemmiatore, a Barcellona, in Francia, in un sacco di posti. E lo trovavo magnifico. E poi all'epoca non c'era ancora la disoccupazione che ci fu in seguito e la mobilità lavorativa era davvero grande; il mio corpo me lo chiedeva, sapere che lavoravo, conoscevo gente, guadagnavo soldi e quando mi stufavo cambiavo lavoro e nel giro di una settimana ne trovavo un altro. Per me era fantastico.

Ma allora perché ritirarsi in provincia?
Questo succede quando passa l'euforia del '77. In Spagna il disincanto viene fatto risalire al 1979-80, però io lo sperimentai un po' più tardi. Me ne andai a Girona perché ero stanco di Barcellona, anche se vivevo in una strada molto centrale, Tallers, dietro a La Vanguardia. Ci passavano migliaia di persone. Avevo avuto mille storie e avevo bisogno di uscirne, significava vivere con persone e con fantasmi. Avevo bisogno di andarmene in un posto dove non conoscevo nessuno.

E come finì in Messico a 15 anni?
Per via dei miei genitori. Mia madre era professoressa e mio padre trasportatore. Un giorno hanno deciso di andare a vivere in Messico. Ciascuno di loro è arrivato con un ideale e poi, come sempre accade, non ne è uscito niente.

Nel 1973 decide di tornare in Cile...
A vent'anni torno in Cile solo per fare la Rivoluzione. All'epoca ero di estrema sinistra, vicino al MIR [Movimiento de Izquierda Revolucionaria], ma la mia ideologia era trotzkista. In realtà il MIR non ebbe mai buoni rapporti con la politica dei paesi dell'Est. Ora, quella di Cuba è sempre stata un'eccezione abbastanza infantile perché è una malattia dei latinoamericani. I cubani possono essere prosovietici ma sono latinoamericani...

Come con Cortázar, che era critico nei confronti dell'URSS ma appoggiava il regime cubano che censurava i suoi libri.
Credo che in quel caso Cortázar e la stragrande maggioranza abbiano toppato, e toppato in modo bestiale. Il fatto che fossero latinoamericani non li giustificava più degli altri. È una faccenda complicata, perché per esempio ci furono molti trotzkisti che si esiliarono a Cuba, e i cubani non si comportarono male con loro. Ci furono molte forme di guerriglia fatte da chi non stava con il socialismo reale e che furono appoggiate anche da Cuba. Inoltre l'atmosfera di quegli anni era apocalittica nell'accezione di San Giovanni, nell'accezione cristiana. Aspettavamo tutti che scoppiasse la rivoluzione o la controrivoluzione. Si respirava un clima da Giorno del Giudizio. In quei giorni la paura ti faceva cercare, almeno mentalmente, un muro a cui appoggiarti, per pura paura. Alla fine non trovammo nessun muro a cui appoggiarci ed è andata come è andata, evidentemente, però credo che solo così si possa spiegare la faccenda di Cuba e di Cortázar...

Si dice che i mesi che precedettero il colpo di stato di Pinochet furono terribili, pieni di odio e di scontri.
Gli ultimi mesi del governo di Allende furono spaventosi. Però io non mi facevo molte illusioni; ero ingenuo, ma non mi aspettavo la rivoluzione suprema degli uomini puri né niente di tutto questo. E credo che in fondo cercassi l'avventura per l'amore dell'avventura in sé. Trovai tutta l'avventura che volevo e molta di più. Soprattutto dopo il colpo di Stato.

Ricorda il giorno del colpo di Stato?
Vivevo a casa di Jaime Quesada, che oggi è un poeta quasi ufficiale e a quel tempo era un poeta giovane, amico di mia madre. Mi svegliò tutto tremante e mi disse: “Roberto, i militari hanno fatto un golpe”. La prima cosa che ricordo di aver detto è: “Dove sono le armi, che vado a combattere?”. E Jaime che mi diceva: “Non uscire, non andare, cosa dirò a tua madre se ti succede qualcosa?”.
Io non conoscevo il quartiere e Jaime era pronto a restare chiuso in casa tutto il giorno. Andai a casa di un ragazzo di quindici anni che sapevo essere di sinistra. E gli domandai: “Chi sta organizzando la resistenza nel quartiere? Perché io voglio offrirmi volontario”. E questo ragazzo mi disse: “Anch'io voglio andare volontario”. Io avevo vent'anni, ma lui ne aveva quindici. E andammo insieme alla cellula comunista, che era l'unica a essere organizzata. Lì c'era gente di tutti i partiti. Era la casa di un operaio comunista, che era molto, molto spaventato. E ricordo che aveva i romanzi western di Marcial Lafuente Estefanía, dei libriccini di cowboy che teneva nella credenza. Fu tutto molto dolce, molto desolante e molto dolce.

Ma la resistenza era davvero organizzata, in caso di golpe?
Arriviamo lì e diciamo: “Cosa bisogna fare?”. Siamo qualcosa come venti o trenta persone e ciascuno di noi riceve il compito di controllare una strada. In realtà ci danno un piano pensato per uno scenario di guerra civile, non di colpo di Stato. Io mi accorgo che il compito che mi assegnano è di una stupidità sovrana. Perché dovevo controllare la casa di un civile, di una persona che si sapeva essere di destra, nel caso ci entrassero delle armi, insomma, tener d'occhio quella casa. Una cosa demente, perché le strade erano deserte e quando passavano pattuglie militari se non ti sparavano ti arrestavano. Mi danno un falso nome e una parola d'ordine da dare a un compagno che sarebbe passato a controllare. Vado nella via che mi hanno assegnato. Non c'è nessuno, ci sono solo io. Comincio ad avere paura, cosa ci faccio qui? Ti trovi solo in una strada e la prima cosa che pensi è che ti stanno guardando da tutte le finestre. Poi passarono quelli che facevano i controlli e io mi ero già dimenticato la parola d'ordine; ci parlai, tornai alla cellula. A quel tempo parlavo con accento messicano e credettero che fossi straniero. E siccome si pensava che tutti gli stranieri avessero una grande esperienza nella lotta armata, chiesero a me, che potevo benissimo essere un infiltrato, di andare a contattare la cellula principale.

I telefoni non funzionavano?
Doveva essere un contatto diretto. Mi danno una bicicletta perché faccia non so quanti chilometri fino a una città che non conosco perché ho vissuto solo a Santiago. Lì capisco: se obbedisco di sicuro mi ammazzano. Fu divertentissimo. Come un film dei fratelli Marx. Ordini, contrordini, nessuno capiva niente.

Ma alla fine riuscirono a fare qualcosa?
Verso mezzanotte o l'una ci giunse la notizia che il generale Prats stava arrivando con un contingente di truppe lealiste. Decidemmo di andare ad accogliere Prats, ma militarmente, cioè per offrire protezione e vedere che armi avevamo. Così andammo in un quartiere lì vicino, un quartiere di chabolas, come si chiamavano all'epoca quelli del movimento dei “senzatetto”: occupavano terreni e ci costruivano su. Una di queste case era piena di bombe molotov. La logica era distruggere una serie di ponti pedonali per impedire il transito delle prime avanguardie dei pinochetisti fino all'arrivo delle truppe di Prats. Poi si seppe che in quel momento Prats era già stato catturato. Non c'erano truppe, non c'era niente, il generale Prats era agli arresti. E comunque come si fa a colpire i ponti pedonali con le molotov? Era una pazzia totale. Perché non avevamo né armi leggere né niente... solo bombe molotov. Era impressionante. Quel giorno andò così.

E poi? Cosa avvenne il giorno dopo il golpe militare?
Poi ci fu il colossale doposbronza. Un quartiere resistette al golpe, erano preparati meglio, attaccarono un commissariato, riuscirono a sopraffare i carabinieri e isolarono il quartiere. Ma era come entrare nella fossa dei leoni. Li bombardarono dal cielo.
Si sentiva sparare tutto il santo giorno. Quando bombardarono La Moneda, dal quartiere in cui stavo sentivo e ogni tanto riuscivo a vedere gli aerei.

Sì, ma come è riuscito a cavarsela, in una situazione simile?
Quando mi fermarono per la strada e il tenente del posto di blocco si mise in contatto con Concepción per riferire sull'accaduto, mi spaventai: “Sono fritto, mi ammazzano”. Mi presentò come uno dei dieci uomini più ricercati del Cile, nientemeno. Stava cercando di gonfiare la sua cattura, ovvio. Vennero a prendermi in un veicolo speciale con due armadi, due tizi giganteschi; in vita mia non avevo mai visto carabinieri più grandi. Poi mi portarono al commissariato e lì c'era un altro tenente che era tutto il contrario di quello che mi aveva arrestato, era un tipo ragionevole e si rese conto che io non avevo niente del terrorista, non ero straniero e non avevo fatto nulla. Non poteva lasciarmi andare, ma almeno non mi lasciò lì.
Nello stesso giorno passai per i carabinieri, per un altro posto che non ricordo sotto quali ordini stava e poi finii all'investigativa, dai poliziotti in borghese. E fui molto fortunato.

Cosa accadde in realtà? Come riuscì a cavarsela?
Mi scarcerarono due poliziotti che erano stati miei compagni di scuola quando avevo cinque anni. Uscii dopo otto giorni perché c'erano quei due; altrimenti sarebbero potuti passare uno o due mesi. Un giorno invece incontrai un poliziotto che mi disse: “Non ti ricordi di me? Eravamo compagni di scuola”. Io non mi ricordavo niente. Fu straordinario.

Ma in Chiamate telefoniche c'è un racconto che narra esattamente questo! Io pensavo che si trattasse di pura invenzione, di un gioco letterario. Mi ha anche fatto pensare a una poesia di Nicanor Parra, in cui alcuni personaggi popolari cileni, “compari”, se non ricordo male, instaurano lo stesso dialogo assurdo dei detective del racconto.
No, è in gran parte autobiografico. Io incontrai davvero questi due ex compagni di scuola quando ero in prigione, e loro mi scarcerarono. Ma anche la cosa di Nicanor Parra è vera. Imposto tutti i miei testi fondandoli sull'intreccio, ma esiste un rovescio, un contrario. In questo caso il contrario era la poesia “Saranguaco” di Nicanor Parra, con il suo schema basato su un dialogo impossibile, una specie di dialogo pazzo. E fa anche parte del folklore cileno.

E perché questa necessità di un rovescio, di un'ombra letteraria?
Per una questione di economia. Ciascun racconto ha un suo rovescio, ma governato da una disciplina di ferro. Perché altrimenti non avrei potuto scrivere i quattordici racconti di questo libro, avrei scritto quattordici romanzi. E probabilmente quattordici romanzi infiniti. Per esempio, “Vita di Anne Moore”, l'ultimo racconto di Chiamate telefoniche, è, nel suo riflesso, un romanzo-fiume di circa seicento pagine. Succedono cose che si possono raccontare in seicento pagine, ma in tutta tranquillità.

Queste ombre o guide letterarie risultano più visibili nei racconti de La letteratura nazista in America. Forse perché lì c'è stata la necessità di esemplificare con opere la biografia degli autori immaginari presentati... Credo che La letteratura nazista sia un romanzo, con un'esposizione, uno svolgimento e una conclusione. Il classico romanzo...
Già, ma in definitiva è un insieme di biografie unite tematicamente ma indipendenti. È un'altra cosa: un romanzo che non va letto come romanzo. Si può aprire dove si vuole, malgrado abbia i tre stadi classici del romanzo. Per esempio credo che si possa cominciare dall'epilogo. È assai probabile che abbia fallito, ma l'idea era questa e secondo me non era del tutto malvagia. Ora, ripeterò fino alla morte che è un romanzo.

Perché è stato ossessionato dalla cultura dell'estrema destra in America Latina?
Il mondo dell'estrema destra è un mondo smisurato, ed è interessante in sé. Quello che accade è che io colgo il mondo dell'estrema destra, ma molte volte quello di cui sto veramente parlando è la sinistra. Prendo l'immagine che è più facile parodiare per poi parlare d'altro. Quando parlo degli scrittori nazisti in America in realtà sto parlando del mondo a volte eroico ma più spesso miserabile della letteratura in generale.
Certamente non furono solo i fascisti a commettere orrori in America Latina. Per esempio c'è quel poeta del Salvador assassinato dai suoi compagni, Roque Dalton. Io conobbi alcuni di quelli che uccisero Roque Dalton. Vissi nel Salvador prima dell'inizio della Guerra Civile, e dei dieci comandanti principali quattro erano scrittori. Due li conobbi. Uno che si chiamava Cienfuegos e un altro che non so come diavolo si chiamava. E conoscevo molti scrittori e...

Uomini sicuramente affascinanti...
Alcuni sì, affascinanti. Altri non tanto. Inoltre mi feci tutta la costa del Pacifico dell'America Latina per arrivare in Cile nel 1973, e questi avevano la mia età: vent'anni, ventidue, ventitré... O qualcosa di più. A presentarmeli fu Manuel Sorto, che era il regista ufficiale della guerriglia, quello che rischiando la vita girava i film che poi venivano proiettati in tutto il mondo. Era una persona con un alto senso etico. Cienfuegos invece era uno di quelli che diedero l'ordine di uccidere Roque Dalton, ma nel suo caso mi chiedo se dietro non ci fosse una rivalità letteraria.

Perché? Era un cattivo poeta?
No, Cienfuegos non era un cattivo poeta, ma niente a che vedere con Roque Dalton. Credo che fondamentalmente abbiano assassinato Dalton mettendo in atto il rituale dei figli che ammazzano il padre.

Ma anziché un assassinio letterario fu un assassinio letterale.
Sì, sì, letterale. E poi lo ammazzarono mentre dormiva. Non lo svegliarono; non seppe mai che stavano per ucciderlo. Discussero per tutto il giorno, perché Roque Dalton si opponeva alla rivolta armata e i comandanti dicevano che era giunto il momento e che si doveva cominciare la rivoluzione. Non giunsero a nessun accordo; Roque Dalton andò a dormire, i comandanti continuarono a discutere e dissero: bisogna ucciderlo. Come se fossero una banda di gangster. E dissero, uccidiamolo adesso che dorme, perché è un poeta, perché non soffra. Parole letterali.
Il mio prossimo libro dovrebbe essere La letteratura bolscevica in America Latina... Ma forse non affronto l'argomento in modo diretto perché mi fa soffrire molto.

Originale: http://www.sololiteratura.com/bol/bolanoentlateral.htm
Traduzione di M.V., revisione di A.S.

martedì, marzo 16, 2010

sabato, marzo 13, 2010

Una passeggiata per la letteratura

Una passeggiata per la letteratura

di Roberto Bolaño

per Rodrigo Pinto e Andrés Neuman


1. Ho sognato che Georges Perec aveva tre anni e veniva a trovarmi. Lo abbracciavo, lo baciavo, gli dicevo che era un bambino molto bello.

2. Siamo rimasti a metà, padre, né cotti né crudi, persi nella grandezza di questa discarica interminabile, a sbagliare ed equivocare, a uccidere e chiedere perdono, maniaci depressivi nel tuo sogno, padre, il tuo sogno che non aveva limiti e che abbiamo sviscerato mille volte e poi mille volte ancora, come detective latinoamericani persi in un labirinto di vetro e di fango, a vagare sotto la luna, a vedere film in cui apparivano vecchi che urlavano tornado! tornado!, a guardare le cose per l'ultima volta, ma senza vederle, come fantasmi, come rane sul fondo di un pozzo, padre, persi nella miseria del tuo sogno utopistico, persi nella varietà delle tue voci e dei tuoi abissi, maniaci depressivi nella grande sala dell'Inferno in cui si cucina il tuo Umorismo.

3. A metà, né crudi né cotti, bipolari capaci di cavalcare l'uragano.

4. In queste desolazioni, padre, dove della tua risata rimanevano solo resti archeologici.

5. Noi, i nec spes nec metus.

6. E qualcuno ha detto:

Sorella della nostra memoria feroce,
del valore è meglio non parlare.
Chi ha saputo vincere la paura
è diventato coraggioso per sempre.
Balliamo, poi, mentre passa la notte
come una gigantesca scatola di scarpe
sopra la scogliera e la terrazza,
in una piega della realtà, del possibile,
dove la gentilezza non è un'eccezione.
Balliamo nel riflesso incerto
dei detective latinoamericani,
una pozzanghera d'acqua piovana che riflette le nostre facce
ogni dieci anni.

Poi è arrivato il sonno.

7. Ho poi sognato che visitavo la casa di Alonso de Ercilla. Io avevo sessant'anni ed ero tormentato dalla malattia (cadevo letteralmente a pezzi). Ercilla ne aveva una novantina e agonizzava su un enorme letto con baldacchino. Il vecchio mi guardava con disprezzo e poi mi chiedeva un bicchiere di acquavite. Io cercavo e cercavo l'acquavite ma trovavo solo finimenti.

8. Ho sognato che camminavo sul lungomare di New York e che vedevo in lontananza la figura di Manuel Puig. Portava una camicia celeste e dei pantaloni di tela leggera, azzurro chiaro o azzurro scuro, dipende.

9. Ho sognato che Macedonio Fernández appariva nel cielo di New York in forma di nuvola: una nuvola senza naso né orecchie, ma con gli occhi e la bocca.

10. Ho sognato che stavo su una strada africana che presto si trasformava in una strada messicana. Seduto su uno scoglio, Efraín Huerta giocava a dadi con i poeti mendicanti del DF.

11. Ho sognato che in un cimitero dimenticato dell'Africa trovavo la tomba di un amico di cui non riuscivo più a ricordare la faccia.

12. Ho sognato che una sera bussavano alla mia porta. Stava nevicando. Io non avevo né stufa né soldi. Credo che stessero anche per tagliarmi la luce. E chi c'era, dietro la porta? Enrique Lihn con una bottiglia di vino, un pacchetto di cibo e un assegno dell'Università Sconosciuta.

13. Ho sognato che leggevo Stendhal nella Stazione Nucleare di Civitavecchia: sulla ceramica dei reattori scivolava un'ombra. È il fantasma di Stendhal, diceva un giovane con gli stivali nudo dalla cintola in su. E tu chi sei?, gli ho chiesto. Sono il tossico della ceramica, l'ussaro della ceramica e della merda, ha detto.

14. Ho sognato che stavo sognando, avevamo perso la rivoluzione prima ancora di farla e avevamo deciso di tornare a casa. Mentre cercavo di mettermi a letto trovavo De Quincey addormentato. Svegliati, don Tomás, gli dicevo, già albeggia, deve andarsene. (Come se De Quincey fosse stato un vampiro.) Però nessuno mi ascoltava e uscivo nuovamente nelle strade buie di Città del Messico.

15. Ho sognato che vedevo nascere e morire Aloysius Bertrand nello stesso giorno, quasi senza una pausa, come se entrambi vivessimo in un calendario di pietra perduto nello spazio.

16. Ho sognato che ero un detective vecchio e malato. Così malato che cadevo letteralmente a pezzi. Seguivo le tracce di Gui Rosey. Camminavo per i quartieri di un porto che poteva essere Marsiglia oppure no. Un vecchio cinese affabile mi portava infine in uno scantinato. Questo è ciò che resta di Rosey, diceva. Un mucchietto di cenere. Così com'è potrebbe essere Li Po, rispondevo.

17. Ho sognato che ero un detective vecchio e malato e che cercavo gente scomparsa da tempo. A volte mi guardavo casualmente in uno specchio e riconoscevo Roberto Bolaño.

18. Ho sognato che Archibald McLeish piangeva — solo tre lacrime — sulla terrazza di un ristorante di Cape Cod. Era passata la mezzanotte e nonostante non sapessi come tornare finivamo a bere e a brindare per il Nuovo Mondo Coraggioso.

19. Ho sognato i Morti e le Spiagge Dimenticate.

20. Ho sognato che il cadavere tornava alla Terra Promessa cavalcando una Legione di Tori Meccanici.

21. Ho sognato che avevo quattordici anni e che ero l'ultimo essere umano dell'Emisfero Sud che leggeva i fratelli Goncourt.

22. Ho sognato che incontravo Gabriela Mistral in un villaggio africano. Era un po' dimagrita e aveva preso l'abitudine di dormire seduta in terra con la testa appoggiata sulle ginocchia. Perfino le zanzare sembravano conoscerla.

23. Ho sognato che tornavo dall'Africa su un autobus pieno di animali morti. A una frontiera qualsiasi appariva un veterinario senza volto. La sua faccia era come un gas, però io sapevo chi era.

24. Ho sognato che Philip K. Dick passeggiava per la Stazione Nucleare di Civitavecchia.

25. Ho sognato che Archiloco attraversava un deserto di ossa umane. Si faceva coraggio da solo: «Su, Archiloco, non perderti d'animo, dai, dai.»

26. Ho sognato che avevo quindici anni e che andavo a casa di Nicanor Parra per dirgli addio. Lo trovavo in piedi, appoggiato a un muro nero: Dove vai, Bolaño?, ha detto. Lontano dall'Emisfero Sud, gli ho risposto.

27. Ho sognato che avevo quindici anni e che in effetti me ne andavo dall'Emisfero Sud. Mentre mettevo nello zaino il mio unico libro (Trilce, di Vallejo), questo prendeva fuoco. Erano le sette della sera e gettavo dalla finestra il mio zaino bruciacchiato.

28. Ho sognato che avevo sedici anni e che Martín Adán mi dava lezioni di pianoforte. Le dita del vecchio, lunghe come quelle di Mr. Fantastic, l'Uomo di Gomma, sprofondavano nel pavimento e tasteggiavano su una catena di vulcani sotterranei.

29. Ho sognato che traducevo Virgilio con una pietra. Ero nudo su una grande lastra di basalto e il sole, come dicono i piloti di caccia, fluttuava pericolosamente a ore 5.

30. Ho sognato che stavo morendo in un cortile africano e che un poeta di nome Paulin Joachim mi parlava in francese (capivo solo frammenti come «il conforto», «il tempo», «gli anni che verranno») mentre una scimmia impiccata dondolava dal ramo di un albero.

31. Ho sognato che c'era la fine del mondo. E che l'unico essere umano che contemplava la fine era Franz Kafka. Nel cielo i Titani lottavano a morte. Da una sedia di ferro battuto del parco di New York Kafka vedeva il mondo bruciare.

32. Ho sognato che stavo sognando e che rincasavo troppo tardi. Nel mio letto trovavo Mario de Sá-Carneiro che dormiva con il mio primo amore. Alzando le coperte mi accorgevo che erano morti e mordendomi le labbra fino a farle sanguinare tornavo sulle strade di campagna.

33. Ho sognato che Anacreonte costruiva il suo castello sulla cima di una collina spoglia e poi lo distruggeva.

34. Ho sognato che ero un detective latinoamericano molto vecchio. Vivevo a New York e Mark Twain mi assoldava per salvare la vita a una persona senza volto. Sarà un caso maledettamente difficile, signor Twain, dicevo.

35. Ho sognato che mi innamoravo di Alice Sheldon. Lei non mi amava. Così io tentavo di farmi uccidere in tre continenti. Passavano gli anni. Alla fine, quando ero molto vecchio, lei appariva all'altro capo del lungomare di New York e a gesti (come quelli che si fanno sulle portaerei per guidare i piloti all'atterraggio) mi diceva che mi aveva sempre amato.

36. Ho sognato che facevo un 69 con Anais Nin sopra un'enorme lastra di basalto.

37. Ho sognato che scopavo con Carson McCullers in una camera in penombra nella primavera del 1981. E ci sentivamo entrambi irrazionalmente felici.

38. Ho sognato che tornavo al mio vecchio Liceo e che Alphonse Daudet era il mio professore di francese. Qualcosa di impercettibile ci indicava che stavamo sognando. Daudet guardava tutto il tempo fuori dalla finestra e fumava la pipa di Tartarino.

39. Ho sognato che mi addormentavo mentre i miei compagni di Liceo tentavano di liberare Robert Desnos dal campo di concentramento di Terezin. Quando mi svegliavo una voce mi ordinava di muovermi. Rapido, Bolaño, rapido, non c'è tempo da perdere. Uscendo incontravo solo un vecchio detective che scavava tra le macerie fumanti dell'assalto.

40. Ho sognato che una tempesta di numeri fantasma era tutto ciò che restava degli esseri umani tremila milioni di anni dopo che la Terra aveva cessato di esistere.

41. Ho sognato che stavo sognando e che nei tunnel dei sogni incontravo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei valorosi che morirono per una chimera di merda.

42. Ho sognato che avevo diciotto anni e che vedevo il mio amico di allora, diciottenne anche lui, fare l'amore con Walt Whitman. Lo facevano su una poltrona, guardando il tramonto burrascoso di Civitavecchia.

43. Ho sognato che ero in prigione e che Boezio era mio compagno di cella. Guarda, Bolaño, diceva allungando la mano e la penna nella semioscurità: non tremano!, non tremano! (Dopo un po' aggiungeva con voce tranquilla: però tremeranno riconoscendo quel cornuto di Teodorico.)

44. Ho sognato che traducevo il Marchese de Sade a colpi d'ascia. Ero impazzito e vivevo in un bosco.

45. Ho sognato che Pascal parlava della paura con parole cristalline in un'osteria di Civitavecchia: «I miracoli non servono per convertire, ma per condannare», diceva.

46. Ho sognato che ero un vecchio detective latinoamericano e che una Fondazione misteriosa mi incaricava di trovare i certificati di morte dei Sudamericani Volanti. Giravo il mondo: ospedali, campi di battaglia, pulquerías, scuole abbandonate.

47. Ho sognato che Baudelaire faceva l'amore con un'ombra in una camera in cui era stato commesso un crimine. Ma a Baudelaire non importava. È sempre la stessa cosa, diceva.

48. Ho sognato che un'adolescente di sedici anni entrava nel tunnel dei sogni e ci svegliava con due tipi di bastone. La ragazzina viveva in un manicomio e diventava a poco a poco sempre più pazza.

49. Ho sognato che nelle diligenze che entravano e uscivano da Civitavecchia vedevo il volto di Marcel Schwob. La visione era fugace. Un volto quasi trasparente, con gli occhi stanchi, impregnato di felicità e di dolore.

50. Ho sognato che dopo la tempesta uno scrittore russo e i suoi amici francesi sceglievano la felicità. Senza chiedere né pretendere nulla. Come chi si abbatte privo di sensi sul suo tappeto preferito.

51. Ho sognato che i sognatori erano andati a combattere nella guerra fiorita. Nessuno aveva fatto ritorno. Sui tabelloni di caserme dimenticate sui monti riuscivo a leggere alcuni nomi. Da un luogo remoto una voce trasmetteva ripetutamente gli ordini in base ai quali erano stati condannati.

52. Ho sognato che il vento muoveva l'insegna logora di un'osteria. All'interno James Mathew Barrie giocava a dadi con cinque uomini minacciosi.

53. Ho sognato che mi rimettevo in viaggio sulle strade, però questa volta non avevo quindici anni ma più di quaranta. Possedevo solo un libro, che tenevo nel mio zainetto. All'improvviso, mentre stavo camminando, il libro si incendiava. Albeggiava, e non passava quasi nessuna macchina. Mentre gettavo in un fosso lo zaino bruciacchiato ho sentito che la spalla mi pizzicava come se avesse le ali.

54. Ho sognato che le strade dell'Africa erano piene di gambusinos, bandeirantes, sommisti.

55. Ho sognato che nessuno muore la vigilia.

56. Ho sognato che un uomo si voltava a guardare il paesaggio anamorfico dei sogni, e che il suo sguardo era duro come l'acciaio ma si frammentava anche in sguardi multipli sempre più innocenti, sempre più indifesi.

57. Ho sognato che Georges Perec aveva tre anni e piangeva sconsolato. Io cercavo di calmarlo. Lo prendevo in braccio, gli compravo ghiottonerie, libri da colorare. Poi andavamo sul lungomare di New York e mentre lui giocava sullo scivolo io mi dicevo: non servo a niente, ma il mio unico scopo sarà prendermi cura di te, nessuno ti farà del male, nessuno cercherà di ucciderti. Poi si metteva a piovere e tornavamo tranquillamente a casa. Ma dov'era la nostra casa?


Blanes, 1994

Originale: "Un paseo por la literatura", Tres, 2000.

Traduzione: Manuela Vittorelli.

sabato, marzo 06, 2010

La stupidità non è il nostro forte

Nel 1975 il giovane poeta messicano Mario Santiago Papasquiaro conosce il cileno Roberto Bolaño. L'incontro avviene al caffè La Habana, che diventerà poi il ritrovo degli infrarealisti. Lì Mario Santiago consegna a Bolaño un fascio di poesie che il cileno leggerà fino all'alba. È l'inizio di una stretta amicizia che andrà oltre la morte di Papasquiaro nel 1998 e che è in parte anche l'origine e il nucleo del movimento infrarealista.

Una mattina del 1975, all'alba, Mario Santiago porta uno dei suoi compagni del seminario di poesia dell'UNAM, Ramón Méndez, a conoscere Roberto Bolaño. Durante questo incontro nasce l'impulso di creare un nuovo movimento poetico. Così Ramón Méndez ricorda quel giorno: “Quando Santiago e io lasciammo la casa di Bolaño lo avevamo convinto della nostra sovversione vitale contro l'ufficialità della cultura, e lui ci aveva paragonato ai beatniks: “Tu sei Ginsberg – aveva detto a Santiago – e questo è Corso: i beatniks del Messico”.

Tra la fine del 1975 e gli inizi del 1976 irrompe nel panorama culturale messicano il movimento infrarealista. Il vagabondare, l'alcol e una passione incorruttibile per la poesia sono i principi fondamentali che danno coesione a questo gruppo di giovani che cercarono in ogni gesto e in ogni verso un nuovo modo di spiegare il mondo e di esprimerlo in una poesia lontana dalla burocrazia, dagli spazi del potere e da anchilosate legittimazioni.

Andrea Cobas Carral, "La estupidez no es nuestro fuerte". Tres manifiestos del infrarrealismo mexicano .

Come sognare l'utopia e svegliarsi urlando, ancora una volta.
Il fondamentale saggio di Andrea Cobas Carral sulle linee guida dell'infrarealismo e le avanguardie latinoamericane degli anni Settanta è tradotto integralmente su 2.0 a questo indirizzo.

[Un grazie a Carmelo di archiviobolano.it per i suggerimenti preziosi e puntuali, l'entusiasmo e l'instancabile lavoro di ricerca e a tutti i bolañani che leggono e condividono appassionatamente questi materiali.]

sabato, febbraio 27, 2010

Mollate tutto, di nuovo

"Mai troppo tempo in uno stesso posto, come i guerriglieri, come gli ufo, come gli occhi bianchi degli ergastolani."

Roberto Bolaño, Primo manifesto infrarealista, 1976.

Ho fatto un primo imperfetto tentativo di traduzione di "Déjenlo todo, nuevamente": sta su mirumir 2.0 a questo indirizzo.

domenica, gennaio 31, 2010

Godzilla in Messico

Godzilla in Messico

di Roberto Bolaño

Ascolta, figlio mio: cadevano le bombe
su Città del Messico
ma nessuno se ne accorgeva.
L'aria portò il veleno attraverso
le vie e le finestre aperte.
Tu avevi appena finito di mangiare e guardavi
i cartoni alla TV.
Io leggevo nella camera accanto
quando mi resi conto che saremmo morti.
Malgrado le vertigini e la nausea mi trascinai
in cucina e ti trovai sul pavimento.
Ci abbracciammo. Tu mi chiedesti cosa succedeva
e io non ti dissi che stavamo nel programma della morte
ma che saremmo partiti per un viaggio,
ancora uno, insieme, e di non aver paura.
Quando se ne andò, la morte
neanche ci chiuse gli occhi.
Cosa siamo? mi domandasti una settimana o un anno dopo,
formiche, api, numeri sbagliati
nella grande zuppa marcia del caso?
Siamo esseri umani, figlio mio, quasi uccelli,
eroi pubblici e segreti.

"Godzila en México", Los perros romanticos, Lumen 2000.

Traduzione: Manuela Vittorelli.

venerdì, gennaio 08, 2010

Bolaño in Messico

Nel suo Manifesto infrarealista Bolaño scriveva:

I borghesi e i piccoli borghesi passano da una festa all'altra. Ce n'è una ogni fine settimana. Il proletariato non ha feste. Solo funerali con ritmo. Le cose cambieranno. Gli sfruttati faranno una gran festa. Memoria e ghigliottine.

Bolaño aveva ragione, letteralmente, a proposito delle feste (ma fortunatamente la profezia giacobina non si realizzò). Il mondo letterario era piccolo e coeso, e noi passavamo davvero da una festa all'altra, se si contano tutti i reading, le conferenze, le inaugurazioni e gli incontri nei caffè. Ci vedevamo sempre. Ricorderò cinque di queste feste, svoltesi tra il 1973 e il 1976.
Carmen Boullosa, "Bolaño in Mexico", The Nation, 23 aprile 2007.

Il clima letterario di Città del Messico alla metà anni Settanta, le feste, la guerra tra pooeti octaviani ed efrainiti e le incursioni degli Infrarealisti nei ricordi della scrittrice Carmen Boullosa, amica di Roberto Bolaño. La traduzione integrale è qui.

sabato, gennaio 02, 2010

Stella distante. L'ultima intervista di Roberto Bolaño

[Come promesso. Buon anno, m.]

L'ultima intervista di Roberto Bolaño

Stella distante

di Mónica Maristain

Sabato 19 luglio 2003

Martedì scorso è morto a cinquant'anni lo scrittore e poeta cileno Roberto Bolaño. Per molti era il migliore scrittore latinoamericano dei nostri tempi. Autore di culto per buona parte della sua vita, a partire dal Premio Rómulo Gallegos al romanzo I detective selvaggi nel 1998 la sua opera si è trasformata in oggetto di devozione per più di una generazione. Negli ultimi tempi, oltre agli elogi entusiastici ricevuti da giornali come “Libération” e “Le Monde” e da personalità come Susan Sontag, alcuni hanno perfino fantasticato di vederlo premiato con il Nobel. Nella settimana della sua morte, la giornalista Mónica Maristain ha pubblicato per l'edizione messicana di Playboy questa lunga intervista nella quale Bolaño parla di tutto: della letteratura, degli anni passati in povertà, della sua fiducia nei lettori, della grammatica dei disperati, del paradiso immaginario e dell'inferno tanto temuto.

Nel confuso panorama della letteratura in lingua spagnola, dove ogni giorno che passa appaiono nuovi scrittori più preoccupati di vincere borse di studio e incarichi nei Consolati che di contribuire in qualche modo alla creazione artistica, spicca la figura di un uomo magro, zaino blu in spalla, occhiali dalla montatura enorme, eterna sigaretta tra le dita, sottile ironia a bruciapelo sempre pronta in caso di necessità.
Roberto Bolaño, nato in Cile nel 1953, è quanto di meglio sia accaduto al mestiere di scrivere da molto tempo. Da quando il suo monumentale I detective selvaggi, forse il grande romanzo messicano contemporaneo, è diventato famoso e ha ricevuto i premi Herralde (1998) e Rómulo Gallegos (1999), la sua influenza e la sua figura sono andati crescendo: tutto quello che dice con il suo umorismo tagliente e la sua raffinata intelligenza, tutto quello che scrive con la sua abile penna, di grande audacia poetica e profonda complessità creativa, è degno dell'attenzione di coloro che lo ammirano e, naturalmente, di quelli che lo detestano. L'autore appare come personaggio nel romanzo Soldati di Salamina di Javier Cercas e viene omaggiato nell'ultimo romanzo di Jorge Volpi, El fin de la locura. Come tutti gli uomini di genio fa discutere, genera acerrime antipatie malgrado il suo carattere affettuoso, la voce tra l'acuto e l'aspro con cui risponde – con cortesia da bravo cileno – che non scriverà un racconto per la rivista perché il suo prossimo romanzo, che tratterà degli omicidi di donne a Ciudad Juárez, pur essendo arrivato già a 900 pagine non è ancora finito. Roberto Bolaño vive a Blanes, in Spagna, ed è molto malato. Spera che un trapianto di fegato gli permetterà di vivere con l'intensità celebrata da chi ha avuto la fortuna di conoscerlo in privato. I suoi amici dicono che a volte si dimentica di andare alle visite mediche per continuare a scrivere. A 50 anni, quest'uomo che ha girato l'America Latina in sacco a pelo ed è sfuggito alle fauci del regime di Pinochet perché uno dei suoi carcerieri era stato suo compagno di scuola, che ha vissuto in Messico (e forse un giorno un tratto della calle Bucareli prenderà il suo nome), che conobbe i militanti del Farabundo Martí che sarebbero poi diventati gli assassini del poeta Roque Dalton a El Salvador, che fece il guardiano in un campeggio catalano, il venditore di bigiotteria in Europa e fu ladro di buoni libri perché leggere non è solo un problema di atteggiamento, quest'uomo, possiamo dirlo, ha cambiato il corso della letteratura latinoamericana. E l'ha fatto senza avvertire né chiedere il permesso, come avrebbe fatto Juan García Madero, l'antieroe adolescente dei gloriosi Detective selvaggi: “sono al primo semestre di giurisprudenza. Io non volevo studiare giurisprudenza, bensì lettere, però mio zio insisteva e alla fine ho dovuto cedere. Sono orfano. Diventerò avvocato. Fu questo che dissi a mio zio e a mia zia e poi mi chiusi in camera e piansi tutta la notte”. Il resto si trova nelle restanti 608 pagine di un romanzo la cui importanza è stata paragonata dai critici a Il gioco del mondo di Julio Cortázar e persino a Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Di fronte a una simile iperbole, lui direbbe: non esiste. Meglio allora passare a quello che conta in questo momento: l'intervista.


L'essere nato dislessico ha avuto una qualche importanza nella sua vita?
Nessuno. Problemi quando giocavo a calcio, sono mancino. Problemi quando mi masturbavo, sono mancino. Problemi quando scrivevo, sono destro. Come vedi, nessun problema importante.

Enrique Vila-Matas è ancora suo amico dopo la lite con gli organizzatori del Premio Rómulo Gallegos?

La mia lite con la giuria e gli organizzatori era dovuta principalmente al fatto che pretendevano che avallassi, da Blanes e alla cieca, una selezione alla quale non avevo partecipato. I loro metodi, che una pseudo-poetessa chavista mi comunicò al telefono, sembravano troppo simili alle argomentazioni dissuasive della Casa de las Américas di Cuba. Per esempio, mi sembrava che fosse un errore enorme eliminare subito Daniel Sada o Jorge Volpi. Dissero che quello che volevo era viaggiare con mia moglie e i miei figli, cosa completamente falsa. Dalla mia indignazione per questa menzogna ebbe origine la lettera in cui li chiamavo neostalinisti e altre cose, temo. Di fatto, fui informato che fin dall'inizio volevano premiare un altro autore, che non era Vila- Matas, il cui romanzo mi pare buono e che era certamente uno dei miei candidati.

Perché nel suo studio non c'è l'aria condizionata?
Perché il mio motto non è “Et in Arcadia ego”, ma “Et in Esparta ego”.

Non pensa che se si fosse ubriacato con Isabel Allende e Ángeles Mastretta valuterebbe diversamente i loro libri?
Non lo penso. Primo, perché queste signore evitano di bere con uno come me. Secondo, perché io non bevo più. Terzo, perché neanche nelle peggiori sbronze ho mai perso una sia pur minima lucidità, un senso della prosodia e del ritmo, un certo rifiuto davanti al plagio, alla mediocrità o al silenzio.

Qual è la differenza tra una scribacchina e una scrittrice? Una scrittrice è Silvina Ocampo.
Una scribacchina è Marcela Serrano. Gli anni luce che le separano.

Cosa le ha fatto credere di essere migliore come poeta che come narratore?
Il mio grado di rossore quando, per puro caso, apro un mio libro di poesia o uno di prosa. Quello di poesia mi fa arrossire di meno.

Lei è cileno, spagnolo o messicano?
Sono latinoamericano.

Cos'è per lei la patria?
Mi spiace darti una risposta molto pacchiana. La mia unica patria sono i miei due figli, Lautaro e Alexandra. E forse, ma secondariamente, certi istanti, certe vie, certi visi o scene o libri che stanno dentro di me e che un giorno dimenticherò, che è la cosa migliore che si possa fare con la patria.

Cos'è la letteratura cilena?
Probabilmente gli incubi del più risentito e grigio e forse più codardo dei poeti cileni: Carlos Pezoa Véliz, morto all'inizio del XX secolo, autore di due sole poesie memorabili, ma – questo sì – veramente memorabili, e che continua a sognarci e a patire. È possibile che Pezoa Véliz non sia mai morto, magari sta agonizzando e il suo ultimo minuto è abbastanza lungo, no?, da contenerci tutti. O almeno da contenere tutti noi cileni.

Perché vuole sempre fare il bastian contrario?
Non faccio mai il bastian contrario.

Ha più amici che nemici?
Ho abbastanza amici e nemici, tutti gratuiti.

Chi sono i suoi amici più cari?
Il mio migliore amico era il poeta Mario Santiago, morto nel 1998. Attualmente tre dei miei migliori amici sono Ignacio Echevarría e Rodrigo Fresán e A. G. Porta.

Antonio Skármeta l'ha mai invitata al suo programma?
Una volta mi ha telefonato una sua segretaria, forse la sua amante. Le ho detto che ero troppo occupato.

Javier Cercas ha spartito con lei i premi vinti da Soldati di Salamina?
No, naturalmente.

Enrique Lihn, Jorge Teillier o Nicanor Parra?
Nicanor Parra su tutti, compresi Pablo Neruda e Vicente Huidobro e Gabriela Mistral.

Eugenio Montale, T. S. Eliot o Xavier Villaurrutia?
Montale. Se al posto di Eliot ci fosse stato James Joyce, allora Joyce. Se al posto di Eliot ci fosse stato Ezra Pound, senza dubbio Pound.

John Lennon, Lady Di o Elvis Presley?
The Pogues. O i Suicide. O Bob Dylan. Però, dai, non facciamo i pignoli: Elvis forever. Elvis con un cappello da sceriffo che guida una Mustang e si impasticca, e con la sua voce d'oro.

Chi legge di più, lei o Rodrigo Fresán?
Dipende. L'Ovest è per Rodrigo. L'Est è per me. Poi contiamo i libri delle nostre rispettive aree e sembrerebbe che li abbiamo letti tutti.

Qual è secondo lei la poesia migliore di Pablo Neruda?
Quasi tutte quelle di Residenza sulla terra.

Cosa avrebbe detto a Gabriela Mistral se l'avesse conosciuta?
Mamma, perdonami, sono stato cattivo, però l'amore di una donna mi ha fatto diventare buono.

E a Salvador Allende?
Poco o niente. Chi ha il potere (anche se per poco tempo) non sa niente di letteratura, si interessa solo al potere. E io posso essere il pagliaccio dei miei lettori, se ne ho veramente voglia, ma mai dei potenti. Suona un po' melodrammatico. Suona come la dichiarazione di una puttana onorata. Però in fin dei conti è così.

E a Vicente Huidobro?
Huidobro mi annoia un po'. Troppo trallallì trallallà, troppo paracadutista che scende cantando come un tirolese. Sono meglio i paracadutisti che scendono avvolti nelle fiamme, o ancor più quelli a cui non si apre il paracadute.

Octavio Paz continua a essere il nemico?
Per me certamente no. Non so cosa penseranno i poeti che all'epoca, quando vivevo in Messico, scrivevano come suoi cloni. È da molto che non so niente della poesia messicana. Rileggo José Juan Tablada e Ramón López Velarde, all'occasione posso perfino recitare Suor Juana, ma non so niente di ciò che scrivono quelli che, come me, si avvicinano a cinquant'anni.

Adesso non assegnerebbe questo ruolo a Carlos Fuentes?
È da molto che non leggo niente di Carlos Fuentes.

Come la fa sentire il fatto che Arturo Pérez Reverte sia attualmente lo scrittore più letto in spagnolo?
Pérez Reverte o Isabel Allende. È lo stesso. Feuillet era l'autore francese più letto della sua epoca.

E il fatto che Arturo Pérez Reverte sia stato ammesso alla Real Academia?
La Real Academia è un covo di privilegiati. Non c'è Juan Marsé, non c'è Juan Goytisolo, non c'è Eduardo Mendoza né Javier Marías, non c'è Olvido García Valdez, non ricordo se ci sia Alvaro Pombo (se sì, probabilmente è per un equivoco), ma c'è Pérez Reverte. Be', anche Coelho è entrato nell'Accademia brasiliana.

Si pente di aver criticato il menù servitole da Diamela Eltit?
Non ho mai criticato il suo menù. Semmai ho criticato il suo umorismo, un umorismo vegetariano, o meglio dietetico.

Le dispiace che Diamela la consideri una cattiva persona dopo quella sfortunata cena?
No, povera Diamela, non mi dispiace. Sono altre le cose che mi danno dispiacere.

Ha versato qualche lacrima per le molte critiche dei suoi nemici?
Moltissime, ogni volta che leggo qualcuno parlar male di me mi metto a piangere, mi rotolo sul pavimento, mi graffio, smetto di scrivere per un periodo di tempo indefinito, mi cala l'appetito, fumo di meno, faccio sport, esco a camminare in riva al mare, che tra parentesi sta a meno di trenta metri da casa mia, e chiedo ai gabbiani, i cui antenati si mangiarono i pesci che si mangiarono Ulisse, perché io, perché io, che non ho mai fatto del male a nessuno?

Qual è per lei il parere più importante sulle sue opere?
I miei libri li leggono Carolina (mia moglie) e poi (Jorge) Herralde (editore di Anagrama) e poi cerco di dimenticarli per sempre.

Cos'ha comprato con i soldi del Premio Rómulo Gallegos?
Non molto. Una valigia, da quel che ricordo.

Al tempo in cui viveva di concorsi letterari c'è stato qualche premio che non è riuscito a incassare?
Nessuno. Gli enti locali spagnoli, sotto questo aspetto, sono di una correttezza al di sopra di ogni sospetto.

Era un bravo cameriere o era meglio come venditore di bigiotteria?
Il lavoro che ho svolto meglio è stato quello di guardiano di notte in un campeggio vicino a Barcellona. Mentre stavo lì non c'è stato nessun furto. Ho evitato delle risse che avrebbero potuto finire molto male. Ho evitato un linciaggio (anche se dopo avrei volentieri linciato o strangolato io stesso il tipo in questione).

Ha mai provato la fame feroce, il freddo che penetra nelle ossa, il caldo che lascia senza fiato?
Come dice Vittorio Gassman in un film: modestamente, sì.

Ha mai rubato un libro che poi non le è piaciuto?
Mai. Il bello del rubare libri (e non casseforti) è che si può esaminarne il contenuto con calma prima di commettere il crimine.

Ha mai camminato in mezzo al deserto?
Sì, e per giunta in un'occasione particolare, a braccetto con mia nonna. La vecchia signora era instancabile e pensai che non se saremmo usciti vivi.

Le è mai capitato di vedere pesci colorati sott'acqua?
Certo. Ad Acapulco, senza andare più indietro nel tempo, nel 1974 o nel 1975.

Si è mai bruciato la pelle con una sigaretta?
Mai volontariamente.

Ha mai inciso il nome della persona amata sul tronco di un albero?
Ho commesso eccessi anche peggiori, ma stendiamo un velo di pietoso silenzio.

Ha mai visto la donna più bella del mondo?
Sì, quando lavoravo in un negozio, sarà stato nell''84. Il negozio era vuoto, quando entrò una donna indù. Sembrava una principessa, e forse lo era. Mi comprò alcuni pendenti di bigiotteria. Io, naturalmente, ero sul punto di svenire. Aveva la pelle ramata, i capelli lunghi, rossi, e per il resto era perfetta. La bellezza atemporale. Quando dovetti incassare provai molta vergogna. Mi sorrise come per farmi intendere che lo capiva, e che non mi preoccupassi. Poi scomparve, e non mi è più capitato di vedere una donna come lei. A volte ho l'impressione che fosse proprio la dea Kali, protettrice dei ladri e degli orefici, solo che Kali era anche la divinità degli assassini, e questa indù non solo era la donna più bella della Terra ma sembrava anche una brava persona, molto dolce e assennata.

Preferisce i cani o i gatti?
Le cagne, ma adesso non possiedo animali.

Cosa ricorda della sua infanzia?
Tutto. Non ho una cattiva memoria.

Collezionava figurine?
Sì. Di calcio e di attori e attrici di Hollywood.

Aveva un monopattino?
I miei genitori commisero l'errore di regalarmi un paio di pattini quando vivevamo a Valparaíso, che è una città costruita sulle colline. Il risultato fu disastroso. Ogni volta che mi mettevo i pattini era come se volessi suicidarmi.

Qual è la sua squadra di calcio preferita?
Adesso nessuna. Quelle che sono finite in serie B e poi in serie C e in D, fino a scomparire. Le squadre fantasma.

A quali personaggi della storia universale avrebbe voluto somigliare?
A Sherlock Holmes. Al capitano Nemo. A Julien Sorel, nostro padre, al principe Miškin, nostro zio, ad Alice, nostra professoressa, a Houdini che era un misto di Alice, di Sorel e di Miškin.

Si innamorava delle vicine più grandi di lei?
Naturalmente.

Le compagne di scuola le prestavano attenzione?
Non credo. O almeno io ero convinto di no.

Cosa deve alle donne della sua vita?
Moltissimo. Il senso della sfida e della scommessa. E altre cose che taccio per decoro.

Loro le devono qualcosa?
Niente.

Ha sofferto molto per amore?
La prima volta molto, poi ho imparato a prendere le cose con maggiore ironia.

E per odio?
Benché possa suonare pretenzioso, non ho mai odiato nessuno. O almeno sono certo di essere incapace di un odio costante nel tempo. E se l'odio non ha costanza non è odio, no?

Come ha conquistato sua moglie?
Cucinandole del riso. Allora ero molto povero e la mia dieta era principalmente a base di riso, e dunque avevo imparato a cucinarlo in molti modi.

Com'è stato diventare padre per la prima volta?
Era notte, poco prima delle 24, ero solo, e dato che nell'ospedale non si poteva fumare mi feci una sigaretta dopo essermi praticamente arrampicato sul soffitto a cassettoni del quarto piano. Fortuna che dalla strada non mi vide nessuno. Solo la luna, avrebbe detto Amado Nervo. Quando rientrai un'infermiera mi disse che mio figlio era nato. Era molto grande, quasi del tutto calvo e con gli occhi aperti, come a chiedersi chi fosse quel demonio che lo teneva in braccio.

Lautaro farà lo scrittore?
Io spero solo che sia felice. Dunque è meglio che faccia qualcos'altro. Pilota di aerei, per esempio, o chirurgo plastico, o editore.

Cosa vede in lui di suo?
Per fortuna somiglia molto di più a sua madre che a me.

La preoccupano le vendite dei suoi libri?
Il minimo indispensabile.

Le capita mai di pensare ai suoi lettori?
Quasi mai.

Tra tutte le cose che le hanno detto i suoi lettori a proposito dei suoi libri, quali l'hanno commossa?
Mi commuovono i lettori e basta, quelli che hanno ancora il coraggio di leggere il Dizionario filosofico di Voltaire, che è una delle opere più piacevoli e moderne che conosco. Mi commuovono i giovani di ferro che leggono Cortázar e Parra, così come li ho letti io e come intendo continuare a leggerli. Mi commuovono i giovani che dormono con un libro sotto la testa. Un libro è il miglior cuscino che esista.

Cosa l'ha fatta arrabbiare?
A questo punto arrabbiarsi è una perdita di tempo. E purtroppo alla mia età il tempo conta.

Ha mai avuto paura dei suoi fan?
Ho avuto paura dei fan di Leopoldo María Panero, che, d'altra parte, mi sembra uno dei tre migliori poeti spagnoli viventi. A Pamplona, durante un ciclo organizzato da Jesús Ferrero, Panero doveva chiudere la rassegna e, man mano che si avvicinava il giorno della sua lettura, la città o il quartiere in cui si trovava il nostro albergo si riempì di freak che sembravano scappati da un manicomio e che, d'altro canto, sono il miglior pubblico cui possa aspirare un poeta. Il problema era che alcuni sembravano non solo dei pazzi ma anche degli assassini, e Ferrero ed io avevamo paura che qualcuno da un momento all'altro si alzasse e dicesse: ho ammazzato Leopoldo María Panero, per poi scaricare quattro pallottole nella testa del poeta e, già che c'era, riservarne una a Ferrero e una a me.

Cosa prova quando critici come Darío Osses la considerano lo scrittore americano con più avvenire?
Deve essere uno scherzo. Io sono lo scrittore latinoamericano con meno avvenire. È invece vero che sono tra quelli che hanno più passato, che dopo tutto è quello che conta.

La incuriosisce il libro critico che sta preparando la sua connazionale Patricia Espinoza?
No. Espinoza mi sembra una critica molto brava, indipendentemente da come mi tratterà nel suo libro, suppongo non molto bene, però il lavoro di Espinoza è necessario in Cile. Di fatto, la necessità di una – chiamiamola così – nuova critica comincia a farsi urgente in tutta l'America Latina.

E il libro dell'argentina Celina Mazoni?
Conosco Celina personalmente e le voglio molto bene. Le ho dedicato uno dei racconti di Puttane assassine.

Che cosa la annoia?
Il discorso vuoto della sinistra. Il discorso vuoto della destra lo do per scontato.

Che cosa la diverte?
Veder giocare mia figlia Alexandra. Far colazione in un bar in riva al mare e mangiare un cornetto leggendo il giornale. La letteratura di Borges. La letteratura di Bioy. La letteratura di Bustos Domecq. Fare l'amore.

Scrive a mano?
La poesia sì. Il resto con un vecchio computer del 1993.

Se chiude gli occhi, tra tutti i paesaggi dell'America Latina che ha conosciuto qual è il primo che le torna in mente?
Le labbra di Lisa nel 1974. Il camion di mio padre guasto in una strada nel deserto. Il padiglione dei tubercolosi di un ospedale di Cauquenes e mia madre che dice a mia sorella e a me di trattenere il respiro. Un'escursione al Popocatépetl con Lisa, Mara e Vera e qualcun altro che non ricordo, ma ricordo le labbra di Lisa, il suo sorriso straordinario.

Com'è il paradiso?
Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e di italiani. Un luogo da usare e consumare e che sa che niente dura, neanche il paradiso, e che questo in fondo non conta.

E l'inferno?
Come Ciudad Juárez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri.

Quando ha saputo di essere gravemente malato?
Nel '92.

Cosa ha cambiato del suo carattere la malattia?
Niente. Ho saputo che non ero immortale, e a 38 anni era ora che lo sapessi.

Cosa vorrebbe fare prima di morire?
Niente di speciale. Be', preferirei non morire, chiaro. Però prima o poi la distinta signora arriva, il problema è che a volte non è una signora né tanto meno è distinta, ma piuttosto, come dice Nicanor Parra in una poesia, è una puttana insaziabile che fa tremare anche i più intrepidi.

Chi le piacerebbe incontrare nell'aldilà?
Non credo nell'aldilà. Se esistesse, che sorpresa. Mi iscriverei subito ai corsi di Pascal.

Ha mai pensato di suicidarsi?
Naturalmente. In qualche occasione sono sopravvissuto proprio perché sapevo come suicidarmi se le cose fossero peggiorate.

Le è capitato di pensare che stava impazzendo?
Naturalmente, ma mi ha sempre salvato il senso dell'umorismo. Mi raccontavo storie che mi facevano ridere come un pazzo. O mi ricordavo situazioni che mi facevano rotolare dalle risate.

La pazzia, la morte e l'amore: quale di queste tre cose ha avuto di più nella sua vita?
Spero con tutto il cuore di aver avuto più amore.

Cosa la fa ridere sonoramente?
Le mie e le altrui disgrazie.

Cosa la fa piangere?
Lo stesso: le mie e le altrui disgrazie.

Le piace la musica?
Molto.

Vede la sua opera come tendono a vederla i suoi lettori e critici, prima di tutto I detective selvaggi e poi tutto il resto?
L'unico romanzo di cui non mi vergogno è Anversa, forse perché continua a essere incomprensibile. Le critiche negative che ha ricevuto sono medaglie guadagnate in combattimento, non in scaramucce a salve. Il resto della mia “opera”, be', non è male, sono romanzi divertenti, il tempo ci dirà se sono qualcosa di più. Per ora mi fanno guadagnare, vengono tradotti, mi servono per farmi degli amici molto generosi e simpatici, mi permettono di vivere, e anche abbastanza bene, di letteratura, e dunque lamentarsi sarebbe gratuito e ingrato. Ma la verità è che non do molta importanza ai miei libri. Sono molto più interessato ai libri degli altri.

Non taglierebbe alcune pagine dei Detective selvaggi?
No. Per tagliarle dovrei rileggerlo e la mia religione me lo proibisce.

Non la spaventa che qualcuno voglia fare la versione cinematografica del romanzo?
Ah, Mónica, mi spaventano altre cose. Diciamo: cose più terrificanti, infinitamente più terrificanti.

“Silva, detto l'Occhio” [1] è un omaggio a Julio Cortázar?
Assolutamente no.

Quando finì di scrivere “Silva, detto l'Occhio” non ha sentito di aver creato un racconto all'altezza, di “Casa occupata”, [2] per esempio?
Quando finii di scrivere “Silva, detto l'Occhio” smisi di piangere o qualcosa di simile. Quanto al paragone con un racconto di Cortázar, non avrei potuto chiedere di meglio, anche se “Casa occupata” non è uno dei miei preferiti.

Quali sono i cinque libri che hanno segnato la sua vita?
I miei cinque libri sono in realtà cinquemila. Nomino questi solo come punta di diamante o perversa ambasciata: Don Chisciotte di Cervantes. Moby Dick di Melville. Le Opere complete di Borges. Il gioco del mondo di Cortázar. Una banda di idioti di Kennedy Toole. Ma dovrei citare anche: Nadja di Breton. Le Lettere di Jacques Vaché. Tutto l'Ubu di Jarry. La vita istruzioni per l'uso di Perec. Il castello e Il processo di Kafka. Gli aforismi di Lichtenberg. Il Tractatus di Wittgenstein. L'invenzione di Morel di Bioy Casares. Il Satyricon di Petronio. La Storia di Roma di Tito Livio. I Pensieri di Pascal.

Va d'accordo con il suo editore?
Abbastanza. Herralde è una persona intelligente e spesso affascinante. Forse mi converrebbe di più che non fosse tanto affascinante. Il fatto è che lo conosco da otto anni, e almeno da parte mia l'amore cresce sempre di più, come dice un bolero. Anche se forse mi converrebbe non amarlo tanto.

Cosa dice di quelli che considerano I detective selvaggi il grande romanzo messicano contemporaneo?
Che lo dicono per pietà, che mi vedono decaduto o mentre svengo nei luoghi pubblici e non gli viene in mente niente di meglio di una pietosa menzogna, che del resto è la cosa più indicata in questi casi e non è nemmeno un peccato veniale.

È vero che fu Juan Villoro a convincerla a non intitolare Tormenta de mierda (“Tormenta di merda”) il suo romanzo Notturno cileno?
Villoro e Herralde.

Da chi altri accetta consigli sulla sua opera?
Non accetto i consigli di nessuno, nemmeno del mio medico. Do consigli a destra e a sinistra, ma non ne ascolto nessuno.

Com'è Blanes?
Un bel paese. O una piccola città di trentamila abitanti, abbastanza bella. Fu fondata duemila anni fa dai romani, e poi passò di qui gente di tutte le provenienze. Non è una spiaggia di ricchi, ma di proletari. Operai del Nord o dell'Est. Alcuni si fermano per sempre. La baia è bellissima.

Le manca qualcosa della sua vita in Messico?
La mia giovinezza e le camminate interminabili con Mario Santiago.

Quale scrittore messicano ammira profondamente?
Molti. Della mia generazione ammiro Sada, il cui progetto di scrittura mi pare il più audace, Villoro, Carmen Boullosa; tra i più giovani mi interessa molto quello che fanno Alvaro Enrigue e Mauricio Montiel, o Volpi e Ignacio Padilla. Continuo a leggere Sergio Pitol, che scrive sempre meglio. E Carlos Monsiváis, che, da quanto mi ha raccontato Villoro, ha soprannominato Taibo 2 o 3 (o 4) “Pol Pit”, il che mi sembra una bella trovata poetica. Pol Pit, è perfetto, no? Monsiváis continua a usare le sue unghie affilate. Mi piace molto quello che fa Sergio González Rodríguez.

Esiste un rimedio per il mondo?
Il mondo è vivo e niente di ciò che è vivo ha rimedio, e questa è la nostra sorte.

Ripone speranze? in che cosa, in chi?
Mia cara Maristain, lei mi trascina nuovamente nei pascoli della pacchianeria, che sono i miei pascoli natali. Io spero nei ragazzini. Nei ragazzini e nei guerrieri. Nei ragazzini che scopano come ragazzini e nei guerrieri che combattono come eroi. Perché? Mi rimetto alla lapide di Borges, come direbbe l'inclito Gervasio Montenegro, dell'Academia (come Pérez Reverte, pensi un po'), e non parliamone più.

Quali sentimenti le suscita la parola postumo?
Sembra il nome di un gladiatore romano. Un gladiatore invincibile. O almeno questo ama credere il povero Postumo per farsi coraggio.

Cosa pensa di quelli che pensano che vincerà il Premio Nobel?
Sono sicuro, cara Maristain, che non lo vincerò, come sono sicuro che lo vincerà invece qualche barbone della mia generazione e che non mi nominerà neanche di sfuggita nel suo discorso di Stoccolma.

Quando è stato più felice?
Sono stato felice quasi tutti i giorni della mia vita, almeno per un istante, anche nelle circostanze più avverse.

Cose le sarebbe piaciuto essere, se non fosse stato scrittore?
Mi sarebbe piaciuto essere un detective della omicidi, molto più che uno scrittore. Di questo sono assolutamente certo. Un piedipiatti della omicidi, qualcuno che può tornare solo, nottetempo, sulla scena del crimine, e non avere paura dei fantasmi. Allora sì che forse sarei impazzito, però questo, essendo un poliziotto, si risolve con un colpo in bocca.

Confessa di aver vissuto?
Be', continuo a vivere, continuo a leggere, continuo a scrivere e a guardare film, e come disse Arturo Prat ai suicidi della Esmeralda, finché vivrò questa bandiera non si ammainerà.

[1] Nella raccolta di racconti Puttane assassine, Sellerio editore, Palermo 2009.
[2] Nella raccolta di Julio Cortázar Bestiario, Einaudi, Torino 1965.

Originale: Estrella distante

Articolo originale pubblicato il 19 luglio 2003

Traduzione: Manuela Vittorelli