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domenica, dicembre 12, 2004

Democrazia

Marwan Barghouti lascia; è stato convinto, costretto, a lasciare.
La sua candidatura aveva provocato reazioni molto negative e la minaccia di espulsione da Fatah, ma godeva di un ampio consenso popolare: i sondaggi lo hanno dato sempre in testa, e in passato era secondo solo a Arafat.
Sembra che la priorità dei palestinesi (o meglio, della loro dirigenza) sia di dimostrare all'esterno di essere uniti, compatti e capaci di elezioni democratiche, e questo paradossalmente a scapito della democrazia.
Trovo che il commento più lucido e onesto sull'ostilità a Barghouti sia stato quello di Hasan Abu Nimah e Ali Abunimah su Electronic Intifada: "Quello che è davvero irresponsabile, assurdo e difficile da capire è il fatto che un palestinese venga trattato così crudelmente non dai suoi persecutori israeliani ma dai suoi stessi compagni. Marwan Barghouti è criticato così aspramente non mentre vive tra i suoi compagni ma mentre sconta cinque ergastoli in un carcere israeliano per presunti "crimini" commessi per difendere la propria gente quando altri godevano dei privilegi, del falso prestigio e della ricchezza che avevano ottenuto in cambio dei diritti e della dignità del loro popolo".
Resta l'impressione di un'occasione perduta, e la speranza che Barghouti abbia almeno posto delle condizioni (non fare concessioni su Gerusalemme, garantire il ritorno dei profughi e la liberazione dei prigionieri palestinesi): questo dimostrerebbe ancora una volta le sue doti di negoziatore e la sua intelligenza politica.
Intanto Mahmoud Abbas - che piace a Israele, agli Stati Uniti e alla classe media - vincerà le democratiche elezioni palestinesi.

giovedì, dicembre 02, 2004

Sarò noiosa/Marwan Barghouti parte terza

Ne avevo parlato fino alla nausea qui e poi qui.
Poteva bastare.
Però Barghouti ha deciso di candidarsi alla presidenza dell'Autorità nazionale palestinese: "un'opportunità e un rischio", scrive Arab Monitor. Quindi attacco con la terza puntata, che è solo la traduzione di alcune parti di un articolo scritto da Barghouti e apparso sul Washington Post del 16 gennaio 2002.

[...] Per Israele l’unico modo per garantire la propria sicurezza è semplicemente porre fine all’occupazione israeliana del territorio palestinese, durata 35 anni. Gli israeliani devono abbandonare il mito secondo il quale sarebbe possibile avere contemporaneamente la pace e l’occupazione dei territori, e una coesistenza pacifica tra padrone e schiavo. La mancanza di sicurezza in Israele nasce dalla mancanza di libertà dei palestinesi. Israele avrà la sicurezza solo dopo la fine dell’occupazione, non prima.
Quando Israele e il resto del mondo avranno compreso questa fondamentale verità, il seguito sarà chiaro: ponete fine all’occupazione, permettete ai palestinesi di vivere in libertà e lasciate che Israele e Palestina negozino sullo stesso piano di equità e indipendenza un futuro pacifico con stretti legami economici e culturali.
Non dimentichiamo che noi palestinesi abbiamo riconosciuto Israele sul 78% della Palestina storica. È Israele che si rifiuta di riconoscere il diritto della Palestina a esistere sul restante 22% del territorio occupato nel 1967. E tuttavia sono i palestinesi a essere accusati di non scendere a compromessi e di perdere le occasioni di pace. Francamente, siamo stufi di prenderci sempre la colpa per l’intransigenza israeliana quando tutto ciò che vogliamo ottenere è l’attuazione della legge internazionale.
E non abbiamo fiducia negli Stati Uniti, che forniscono ogni anno miliardi di contributi per finanziare l’espansione da parte di Israele di colonie illegali, che “combattono il terrorismo” fornendo a Israele gli F-16 e gli elicotteri militari usati contro la popolazione civile inerme, che “difendono la libertà e gli oppressi” coccolando Sharon nonostante sia stato accusato di crimini di guerra per la sua reponsabilità nel massacro dei profughi palestinesi nel 1982. Il ruolo dell’unica superpotenza mondiale si è ridotto a quello di un semplice spettatore che non ha nulla da offrire se non lo stanco ritornello del “Ponete fine alla violenza”, e che non fa niente per affrontare le radici di quella violenza: la negazione della libertà dei palestinesi.
[…]
E così noi ci difenderemo. Se Israele si riserva il diritto di bombardarci con gli F-16 e gli elicotteri, non dovrà sorprendersi quando i palestinesi ricorreranno ad armi difensive per tirarli giù. E se io, e il movimento Fatah al quale appartengo, mi oppongo fermamente agli attacchi ai civili israeliani, nostri futuri vicini, mi riservo il diritto di proteggere me stesso, di resistere all’occupazione del mio paese e di combattere per la mia libertà. Se ci si aspetta che i palestinesi negozino sotto l’occupazione, allora bisogna aspettarsi che Israele negozi mentre noi resistiamo a quell’occupazione.
Io non sono un terrorista, ma non sono nemmeno un pacifista. Sono un semplice palestinese, un uomo della strada, e chiedo solo ciò che ogni oppresso ha sempre chiesto – il diritto di aiutarmi da solo in assenza di qualsiasi altro aiuto.
Questo principio può portare anche al mio assassinio. Per questo, chiariamo la mia posizione, perché la mia morte non venga accantonata con leggerezza dall’opinione mondiale come un altro dato statistico nella “guerra al terrorismo” di Israele. Per sei anni sono stato rinchiuso come prigioniero politico in un carcere israeliano, dove sono stato torturato, dove sono rimasto appeso e bendato mentre un israeliano mi colpiva i genitali con un bastone.
Dal 1994, però, quando ho creduto che Israele fosse veramente intenzionata a terminare l’occupazione, sono stato un instancabile sostenitore di una pace basata sull’equità e la lealtà. Ho guidato delegazioni di Palestinesi in incontri con parlamentari israeliani per promuovere la comprensione reciproca e la collaborazione. Perseguo ancora la coesistenza pacifica tra i paesi uguali e indipendenti di Israele e Palestina, sulla base di un completo ritiro dai territori palestinesi occupati nel 1967 e di una giusta soluzione al problema dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni dell’Onu. Non voglio distruggere Israele ma soltanto porre fine all'occupazione del mio Paese.

martedì, novembre 16, 2004

Sarò noiosa/Marwan Barghouti parte seconda

Si tratta, dicevo, di estrarre un po' di cose che avevo archiviato negli ultimi tempi, di tradurle e di aggiornarle con fatti più recenti. È per lo più un lavoro di compilazione; come al solito, cito le fonti più rappresentative e sintetiche, questa volta incorporandole nel testo per comodità.

Marwan Barghouti fa parte della cosiddetta nuova guardia, costituita da coloro che sono cresciuti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e hanno avuto una formazione ben diversa dai capi di Oslo: sono persone più povere ma anche più colte e istruite, e conoscono Israele meglio dei loro predecessori, soprattutto i “tunisini” che hanno trascorso lunghi anni in esilio; alcuni, come Barghouti, parlano l’ebraico.
C’è poi la questione del potere e dell'autorevolezza: nel giugno del 2003 Barghouti è in grado di organizzare dalla sua cella un periodo di sospensione delle ostilità: Hamas, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa e la Jihad Islamica concordarono di cessare gli attacchi contro Israele per tre mesi (una tregua che però non regge). In quell’occasione l’analista politico israeliano Yossi Alpher dichiara: “Questo rafforza la sua posizione come potenziale successore, facendo pensare che in un prossimo scambio di prigionieri possa essere liberato”. E ciò suggerisce che Israele, nonostante la retorica ufficiale e la successiva durissima condanna, possa avere in realtà visto in Barghouti il futuro capo dell’Autorità Palestinese. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui, contrariamente a ciò che lui stesso prevedeva (ai soldati che lo catturarono a Ramallah disse: “siete venuti per arrestarmi o per uccidermi?”), non è stato assassinato. Uno dei motivi, non l'unico: quando viene arrestato e sottoposto a interrogatorio risulta subito chiaro che attraverso di lui si vuole dimostrare che Arafat è direttamente implicato negli atti terroristici. Si ritiene dunque che possa approfittare dell’occasione per denunciare Arafat e aprirsi la strada verso la leadership, ma non è così. Già in un'intervista del 2001 è esplicito: “Gli israeliani sono pazzi. Prima di tutto, pensate davvero che Arafat abbia dato l'ordine di cominciare questa Intifada? Questa Intifada non è cominciata per un ordine, e non cesserà mai per un ordine. Cesserà quando avrà raggiunto il suo obiettivo, che è quello di porre fine all'occupazione israeliana. E, in secondo luogo, queste attività militari [contro l'occupazione] non sono organizzate da Arafat”. Barghouti ha sempre mostrato rispetto per Arafat, anche se molto meno per gli altri capi di Fatah, quei moderati che ora probabilmente impediranno una sua candidatura alla presidenza.
A questo proposito, è degli ultimi giorni la notizia, confermata dalla moglie, secondo cui Barghouti sarebbe intenzionato a candidarsi alle prossime elezioni del 9 gennaio 2005. Il problema è fino a un certo punto la prigionia, soprattutto considerata la natura politica del processo. La storia ci ricorda negoziati condotti con successo da leader in prigionia, come Mandela e Jomo Keniatta. Inoltre, Barghouti è ormai considerato il leader delle migliaia di prigionieri palestinesi, che gli hanno già assicurato il loro appoggio.
Proprio il paragone con Mandela ricorre sempre più spesso negli ultimi tempi.
In “Can Barghouti be the Palestinian Mandela?”, pubblicato oggi su Arab News, Roger Harrison tratta questo aspetto, notando come il tempo trascorso in carcere da Mandela non abbia danneggiato la sua immagine e la sua credibilità: “la sua condanna era il risultato di ciò che lo stato in cui viveva percepiva come terrorismo”. Del resto, aggiunge Harrison, gli Stati Uniti non sono nuovi al riconoscimento di “ex terroristi” nel ruolo di leader politici. Harrison cita gli altri punti a favore di Barghouti, tutti già noti: è nato nei territori, viene dal basso, non si è mai compromesso con figure politiche straniere, parla bene l’ebraico ed è stato in contatto con i diversi strati della società israeliana. Come nel caso di Mandela, i suoi obiettivi sono stati essenzialmente militari e la sua organizzazione ha radici locali. È favorevole alla negoziazione e, facendo parte della generazione che ha raggiunto la maturità politica nel dopo-Oslo, non ha mai parlato di eliminazione di Israele come i suoi predecessori, ma di riconoscimento di due entità uguali e indipendenti.
Zeev Schiff di Ha-aretz ha scritto recentemente che Barghouti crede nella possibilità di una pace con Israele.
Il consenso popolare non dovrebbe mancargli ed è confermato dall'alto numero di voti con cui nel 1996 è stato eletto al Consiglio legislativo palestinese. In un articolo intitolato “Le Cas Barghouti” pubblicato su Le Monde un paio d'anni fa, Gilles Paris riassumeva la posizione di Barghouti e riportava le parole del direttore del Centro palestinese per i diritti umani di Gaza, Raji Sourani: “Marwan ha una forte vena popolare. È sempre a contatto con la gente, sempre in giro nella polvere e nel fango dei campi profughi, con i suoi jeans e con le sue scarpe pesanti. Fatah ha un debito di gratitudine nei suoi confronti. Senza di lui Hamas rischiava di prendersi tutto!”
Anche Dominique Moisi, vicedirettore dell'Istituto francese di relazioni internazionali, è convinto che Barghouti sia l’unico ad avere “carisma e legittimità rivoluzionaria”: “Ci si deve chiedere seriamente se esistano alternative a Barghouti, se si vuole creare un Olp forte che possa resistere a Hamas o a movimenti ancora più estremisti. Un Olp debole non è una buona cosa né per gli israeliani né per la comunità internazionale”.
Così giudica il suo attuale orientamento politico l’analista palestinese Hani Al-Masri (citato qui): "Marwan è ora più vicino al Marwan di prima dell’Intifada. Prima dell’Intifada era un moderato e appoggiava i negoziati con Israele, compresi i governi guidati dal Likud e dallo Shas. Ha preso le distanze dall’alleanza con Hamas e con la Jihad Islamica, anche se è più vicino agli Islamisti di quanto lo sia ogni altro leader di Fatah".
Barghouti potrebbe quindi essere un valido interlocutore per Israele e un leader autentico e popolare per i palestinesi. Il fatto che Israele finora un interlocutore non l’abbia voluto, perché il modo migliore per evitare di negoziare e procedere per decisioni unilaterali è negare che vi sia un negoziatore dall’altra parte, purtroppo è un altro discorso. Così come lo sarà l'eventuale scelta dei vertici di Fatah di non candidarlo.

[la prima parte è qui]

domenica, novembre 14, 2004

Sarò noiosa/Marwan Barghouti parte prima

A proposito del mio breve post su Marwan Barghouti, A. commenta:
"Gli israeliani non lo rilasceranno mai. E poi, il peso politico maggiore è in mano ad al Fatah che si è già ribattezzata 'Martiri di Arafat'; al-Fatah detiene quasi il 50% dell'appoggio palestinese dentro i territori e la stragrande maggioranza al di fuori della Palestina (profughi). È normale che la leadership sia ricoperta da un membro del partito di Arafat. Barghouti è l'unico uomo forte che c'è oggi in Palestina, e i palestinesi hanno bisogno di un uomo forte, ma non rappresenta al Fatah ed è in galera. La questione è molto più complessa di quanto sembra".

Proprio perché la questione è complessa, e non la possiamo riassumere nei mille caratteri consentiti dai commenti vorrei ricostruire quello che so di Marwan Barghouti: mi accosterò all'argomento come persona normalmente interessata e senza pretese di completezza. Quello che scriverò non è indiscutibile e deriva da varie fonti (le principali sono indicate a piè di post, ne ho consultate altre che però non fanno che ribadire concetti già espressi e le ometto perché ridondanti). Precisazioni e interventi che mi aiutino a capire meglio saranno i benvenuti. Non è mia intenzione risultare faziosa, pesante o inopportuna. Se verso la riga numero cinque vi viene il dubbio che lo stia diventando, chiudete e ci vediamo alla prossima.
Questa è la prima puntata.

Innanzitutto, chi è Marwan Barghouti?
Marwan Hassib Hussein Barghouti, nato a Ramallah il 6 giugno 1958, è membro del Consiglio Legislativo Palestinese e segretario di Al Fatah (Fateh) per la Cisgiordania.
Barghouti aderisce ad Al Fatah all'età di 15 anni. Si laurea in storia e scienze politiche all'Università di Birzeit, dove consegue anche un master in relazioni internazionali. All'Università è eletto presidente del corpo studentesco per tre successivi mandati.
Nel 1978 finisce imprigionato per 7 anni nelle carceri israeliane, dove è vittima di torture.
Nel 1987 è costretto a lasciare la Palestina per la Giordania. Durante la prima intifada è ufficiale di collegamento degli uffici dell'OLP ad Amman e Tunisi.
Ritorna in Palestina nel 1994 dopo gli accordi di Oslo, dei quali è convinto sostenitore.
Nel 1996 è eletto nel Consiglio legislativo palestinese, e intraprende una lenta lotta per la democratizzazione di Fatah e contro la corruzione. Il movimento delle donne palestinesi lo considera un valido alleato nella lotta per l'emancipazione femminile.
Convinto che il processo di pace di Oslo possa portare a un totale ritiro di Israele dai territori occupati e alla fondazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme, incoraggia stretti rapporti con i leader israeliani, anche di destra, favorevoli alla soluzione di due Stati separati indipendenti e sovrani. Nel 1998 si rende conto che mentre Israele parla di pace gli insediamenti illegali di ebrei nei territori occupati continuano incessanti, intaccando di fatto proprio quella terra sulla quale vengono condotti i negoziati. Barghouti allora si identifica con il diffuso sentimento popolare che vede in Oslo un processo fraudolento, e guida in tutta la Cisgiordania manifestazioni che chiamano a concentrarsi sull'obiettivo fondamentale: porre fine all'occupazione.
In particolare, vede nell'espandersi degli insediamenti israeliani una chiara indicazione dell'inganno e della malafede di Israele.
In una famosa dichiarazione, Barghouti dice: "abbiamo tentato sette anni di intifada senza negoziati, e poi sette anni di negoziati senza intifada; forse è giunta l'ora di tentare entrambi simultaneamente". Riassume così ciò su cui la maggior parte degli osservatori politici palestinesi è d'accordo: lo Stato di Israele dev'essere costretto ad accettare l'indipendenza palestinese. I negoziati non portano da nessuna parte se non ci sono anche atti di sfida, di resistenza e di espressione della volontà nazionale palestinese.
Barghouti si trasforma così da fautore del dialogo a carismatico sostenitore della lotta contro l'occupazione. Si oppone ai negoziati di facciata, che secondo lui servono solo a prendere tempo per consentire a Israele di appropriarsi della terra palestinese e di compattare e rafforzare l'occupazione.
Il 15 aprile 2002 viene rapito dall'esercito israeliano a Ramallah, detenuto illegalmente e processato per terrorismo e altri reati gravi. La detenzione e il processo appaiono in flagrante contraddizione con varie norme di diritto internazionale, contenute, fra l'altro, nella IV Convenzione di Ginevra del 1949 e negli accordi fra Israele e Palestina. L'arresto è illegale, in quanto avvenuto in violazione degli accordi ad interim tra Israele ed Olp. In base agli Accordi di Oslo, del 1993, Ramallah rientra infatti sotto la denominazione di area A, ovvero zona sottoposta a giurisdizione palestinese; in quanto membro eletto del Consiglio legislativo palestinese, Barghouti avrebbe dovuto godere dell'immunità parlamentare. Immediatamente dopo l'arresto, è stato condotto da Ramallah a Gerusalemme e successivamente trasferito in Israele, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, dove è stato prima detenuto a Petak Tikva e poi a Tel Aviv.
La giustizia israeliana gli ha notificato 37 accuse di omicidio nei confronti di civili israeliani, morti per attentati suicidi ed esplosivi, attribuendo a Barghouti la responsabilità e la paternità delle morti. La maggior parte delle accuse cadono durante le udienze del processo, tuttavia per cinque di questi omicidi, tutti avvenuti nel 2002, è indicato come il mandante, e per questo condannato, nel luglio del 2004, a cinque ergastoli.
Fin dall'inizio del processo a suo carico, Barghouti si è sempre definito leader politico del popolo palestinese e non capo di una fazione di guerriglieri; la sua attività politica è sempre stata centrata sulla rivendicazione dei diritti inviolabili del popolo palestinese e sulla denuncia dell'occupazione militare israeliana nei territori occupati: "non mi interessa essere condannato a uno, o dieci, o cinquanta ergastoli; il giorno in cui sarò libero sarà quello in cui finirà l'occupazione".
Nel corso degli interrogatori e della sua detenzione, Marwan Barghouti è stato sottoposto a torture di tipo fisico e psicologico, e a un regime di isolamento. La sua salute è gravemente compromessa dalle condizioni della prigionia: una sola ora d'aria al giorno, confinamento in una cella umida e senza ventilazione di tre metri quadrati incluso il bagno, infestata da insetti. Al Comitato per la sua liberazione a Ramallah dicono che negli ultimi tempi ha sofferto di forti dolori al petto e alla schiena e di insufficienza respiratoria. Oltre a non somministrargli le cure mediche di cui ha bisogno, le autorità israeliane non concedono che le sue condizioni di salute siano accertate da medici indicati dai familiari, né che sia trasferito in ospedale.

[continua]

Fonti:
Palestine History
Giuristi Democratici
bbc
"Profile: Marwan Barghouti, radical pragmatist", di Graham Usher, Al Ahram Weekly
"Interview with Marwan Barghouti" di Jefferson Fletcher, Media Monitors
Campaign to free Marwan Barghouti
"Political show trial for Marwan Barghouti", di William Hughes, Counterpunch
"The trial of Marwan Barghouti", di Uri Avnery, Counterpunch