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domenica, dicembre 10, 2023

Chiamare qualcuno


Non c’erano solo le splendide dive sfigurate da carambole devastanti, ripescate da un fosso, incollate alla bell’e meglio (la pelle presa là dove è più morbida) e rimesse in circolazione, una ciocca di capelli a nascondere gli orrori.

C’erano anche gli sceneggiati Rai. Antonia gli sceneggiati li spiegava bene, soprattutto dal punto di vista medico-chirurgico.
La moglie del protagonista si ammalava, finiva all’ospedale, giaceva sofferente con una liseuse sulle spalle. Vai vai, gli diceva con un eroico sorriso, vai a lavorare che io sto bene.
Poi si veniva a sapere che, rigorosamente in silenzio e fuori campo, non ce l’aveva fatta.
Di cosa l’avevano operata, nonna?”
“Di pendicite, si inventava, ancora distratta.”
“Ma allora come è morta.”
“E si è piegata, è rotolata giù dal letto” e qui subito si concentrava, lo sguardo fisso sullo schermo “e si è aperto tutto.”
“Tutto, nonna?”
“Tutto.”
“Madonna.”
“Mai piegarsi. Sempre chiamare qualcuno.”

I morti non mancavano mai: come piaceva a noi. Il signor Curie, la madre di David Copperfield, la dolcissima e Dora, la troppo giovane Beth, e poi minatori, tisici con e senza famiglia, cardiopatici, incompresi, eroi, pavidi, tonsillitici.
Poteva succedere nel modo più banale. Ti mettevano i punti, te ne stavi comoda con la tua liseuse sulle spalle, vai vai a lavorare caro, vai mio eroe che io sto bene, poi ti piegavi per raccogliere una matita – mai piegarsi, sempre chiamare qualcuno – e rotolavi nel baratro tra il letto e il comodino. Ti trovavano lì, un sorriso pallido da una parte e un mucchio di budella dall’altra.
Perché è facile che il corpo si svuoti. La pelle è misera cosa, misera cosa è sempre stato il filo da sutura della Rai radiotelevisione italiana.

martedì, febbraio 05, 2019

Il grande Antonius e la piccola Nensi Drev

A un certo punto papà viene travolto dalla passione per la "pesca al sievolo", nella quale si cimenta le domeniche d'inverno in quel bayou monfalconese che sono i canali della bisiacarìa, terra di brume e di fanghi. Lo schema tattico è il seguente: papà si apposta in un luogo selezionato in base a maree, direzione del vento, condizioni meteorologiche, fiuto, tradizione orale, testimonianze più o meno fuorvianti; mamma consuma nella 128 gli schemi liberi della Settimana Engimistica; Antonia e io partiamo in ricognizione.
La tradizionale simbiosi nonna-nipote vorrebbe che la prima approfittasse del contatto con la natura per impartire preziose nozioni di base alla seconda. Fauna, flora, folklore inoffensivo in cui le fate si limitano a pettinarsi, edificanti ricordi d'infanzia.
Noi però ci troviamo in una landa di brume e di fanghi e puntiamo alle macabre scoperte.
Siamo il grande Antonius e la piccola detective Nensi Drev.
– Cosa vedono i miei occhi!
– Orco tocio, un cadavere!
– Attenzione, l'assassino potrebbe non aver abbandonato la scena del crimine.
– Propongo di nasconderci dietro quell'albero.
Inganniamo così l'attesa sgranocchiando biscotti Bucaneve e bevendo succhi Fructal con la cannuccia come insetti panciuti e rumorosi, gli occhi spalancati a scrutare la torbiera.
– Via libera, Antonius!
Antonius pungola il cadavere con un bastone e formula un'ipotesi.
– È un tocco di legno.
Va più o meno sempre così, l'eccitazione evapora tra mucchi di terra e fogliame.
C'è poi la variante Cicuttini. Carlo Cicuttini ha appena tentato di dirottare un aereo a Ronchi per chiedere un riscatto e la liberazione di Freda, è in fuga, è ricercato.
– Cosa vedono i miei occhi!
– Orco tocio, Cicuttini!
– Attenzione, potrebbe essere armato!
– Propongo di nasconderci dietro quell'albero.
E giù Bucaneve e Fructal, mentre papà carica già le canne nel bagagliaio e mamma finisce sospirando il Bartezzaghi.

Cicuttini non è mai Cicuttini, ci sfugge, è di volta in volta un albero, un palo della luce, un'ombra, un addensarsi di foschie, papà appostato immobile tra le canne in conversazione telepatica con i sievoli. Si saprà poi che in quei giorni Cicuttini è già in Spagna a collaborare con i franchisti e a farsi operare le corde vocali con i soldi che gli ha mandato Almirante. Si saprà che Cicuttini è anche quello di Peteano, è lui che ha fatto la telefonata ai carabinieri di Gradisca, "A Peteano c’è una Fiat 500 abbandonata con due fori di pallottola”, e bum. Questo si saprà.
Per ora è solo il 1972, l'anno più lungo della mia infanzia, l'anno della pesca al sievolo, di Antonius e Nensi Drev a caccia di cadaveri e di terroristi neri nel bayou.

giovedì, gennaio 24, 2019

Il Mazariol

È nel languore di un pomeriggio di pioggia, durante una di quelle chiacchierate tra femmine in cui ci confrontiamo sconsolate “il petto” e la Sgorza descrive le elaborate cotonature montate nella sua fantasia parrucchiera come albumi a neve, che mi invento il fratello morto.

Non per cattiveria. Per noia.
Perché sono la sola figlia unica di tutta la classe insieme al Montrani Andrea, che in aula calza le pantofole di lana, vomita in un angolo pallette d’ansia e poi se ne torna a casa con l’autista.
Perché una piccola misteriosa tragedia familiare non si nega a nessuno.
Mai sottovalutare il fascino che i fratelli morti esercitano sulle compagne di classe. Eccole lì, la Raffaella, la Claudia e la Sgorza (in arte Ondina Acconciature), tutte subito a sparare domande. No, mio fratello non era come quello della Franzica Cristina, quello caduto dritto nel limbo senza passare per il via. Il mio era un fratello completo, carne e ossa, viziatino e non simpatico. E poi è morto.
Ma come, come è morto?
Come?

“El xe cascà dae scale.” Entra in cucina Antonia reggendo un vassoio di cacao e frollini. “Dae scale”, ripete.
Tutte zitte, e zitta anch’io che sento arrivare una grossa storia.
“Povero Giancarlo. Scampava da qualche cosa, sicuro. Perché non correva mica come un stupido, Giancarlo. Scampava. Per dopo rompersi l’osso del collo. Lì.” E con il dito indica un punto ai piedi delle scale, nel vestibolo, là dove il marmo delle mattonelle è ingiallito.
“Povero Giancarlo”, butta lì un’ultima volta Antonia. Poi esce dalla cucina e fa per salire le scale maledette.
“Il cacau” dico debolmente io. “Si fredda il cacau.” Ma la Claudia, la Raffaella e la Sgorza tutte dietro Antonia, e poi ferme sullo scalino più basso a guardarla di sotto in su mentre sosta nel punto in cui le scale curvano, e aggrappata al corrimano si gira a metà, con il grugno di quando giochiamo a Rebecca e lei fa la governante: una governante passata per le campagne venete, i fossi e i sassi del Piave, tra rospi e denti di leone.

“Cosa è successo non si sa. Ma mi lo so.”
Silenzio, sguardo periscopico. La Claudia, la Raffaella e la Sgorza a bocca aperta.
“Scampava dal Mazariol.” 
E riprende a salire le scale. La seguiamo tutte nella sua camera, la vediamo chiudere gli scuri, la sentiamo cercare a tentoni l’interruttore, dando manate spazientite sul muro. Quando la luce si accende ce la ritroviamo vicinissima, immobile, le labbra serrate fino a scomparire in una sottile linea retta tra le guance infossate. Che ancora un poco e mi spavento anch’io.

“Io da piccola l’ho visto il Mazariol, correva pei campi come una bestia, guai metter il piede sulla sua orma, ti porta via e sei il suo schiavo morto. Non esiste più mamma, papà o casa. Non esiste. Sei un morto prigioniero del Mazariol e mangi radici e vermi.”
“Che schifus” si lascia sfuggire la Sgorza.
“In eterno” la fulmina Antonia. “Il Mazariol l’ho rivisto qua intorno, anni fa, che veniva su dal buco di viale Virgilio, strisciava su come una bestia. E gli ho detto a Giancarlo di non andare nel buco di viale Virgilio a giocare. Gli ho detto ‘Guai sei vai nel buco che ti prende il Mazariol’.”
“Ma lui era curioso”, butto lì io.
“Era curioso. E quel giorno che è tornato con le scarpe tutte piene di fango ho capito che era andato nel buco e aveva messo il piede nell’orma del Mazariol. E che quando il Mazariol lo prendeva lo trasformava, sicuro.”
“E dopo?” fa la Claudia.
“E dopo bisogna bere il cacau che diventa freddo. Circolare, circolare!” dice Antonia con un gesto da vigile urbano. E noi giù dalle scale. Ma piano piano, non come il povero Giancarlo.

In cucina ce ne restiamo zitte, ognuna presa nei suoi pensieri. Sono assorta anch’io, che mi chiedo quando la storia arriverà alle orecchie della mamma. Perché ormai non è un problema di “se” ma di “quando”, è una storia troppo grossa: la madre annientata dal dolore, la nonna ormai folle che inventa storie di spettri, il padre sempre con la canna da pesca in mano. Menti ottenebrate. Una casa di matti.

“Di questa cosa non si parla, è un segreto tra noi” dico rompendo il silenzio.
“Veramente io in camera di tua nonna ho visto una cosa sotto il letto…” balbetta la Sgorza. “Una roba scura, un’ombra, forse anche si muoveva.”
“Sarà stato il Mazariol” sentenzia Antonia, appoggiata a uno stipite della porta.
La Claudia, la Raffaella e la Sgorza la fissano con gli occhi a palla, mentre gli sbaffi di cacao agli angoli delle labbra disegnano loro finti sorrisi da pagliacci tristi. Quando ci crescerà mai il petto, a noi, mi chiedo osservandole. Quando diventeremo mai “signorine”.

Il pomeriggio scorre via in maniera convenzionale, la Sgorza si offre di farci le acconciature ma non c’è più la spensieratezza di prima, le vedo che tutte e tre allungano il collo per spiare ora il pavimento del vestibolo, ora le scale. Poi se ne vanno, senza altre domande, ma esitando un’ultima volta sulla soglia. “Circolare, circolare” si sente gridare dalla cucina.

Quella sera Antonia mi porta in camera sua. 
“Vien con mi che te presento il Mazariol, amore” fa tutta allegra. Si china accanto al letto, tastando il pavimento.
“Ecco il Mazariol!” dice spingendomi qualcosa contro il petto.
“Che schifus, nonna!”

È un vaso da notte.

martedì, gennaio 15, 2019

Lo Squartatore della Città di G.


Le sedute della mamma dalla parrucchiera di via Brigata Pavia detta La Bionda sono per me occasione di arricchimento culturale. In un angolo del salone improvvisato al pianterreno di una vecchia casa a due piani con cortile – si attende l'apertura della rinnovata sede di viale XX settembre – le clienti della Bionda aspettano il loro turno origliando le conversazioni e pescando secondo gusto e inclinazione da un'appetitosa collezione di riviste e rotocalchi. A quella biblioteca attingo indisturbata anch'io. È lì che scopro la storia di Jack lo Squartatore, assassino di prostitute nelle nebbie di Whitechapel. La parola prostituta, simile a "istituto", accende nella mia mente immagini di camicette bianche, mantelle nere, calze di lana e castigati cardigan. Mi convinco insomma che prostituta voglia dire "educanda" e improvvisamente mi sento un po' educanda anch'io che faccio la seconda elementare, mi si impenna lo spirito di categoria e mi immagino a rientrare in collegio fendendo la notte dopo una visita caritatevole in un orfanotrofio dove ho rifornito di calzerotti di lana bambini neanche tanto belli. A un tratto dal buio spunta la lama mutilatrice di Jack lo Squartatore che...
L'articolo a un certo punto si interrompe perché qualcuno ha avuto la bella trovata di strappare un pezzo di pagina, forse perché il retro riporta stuzzicanti approfondimenti sulla vita di Dalida.

Sento che i prossimi giorni saranno inzuppati di panico, potrebbe esserci un emulo di Jack lo Squartatore che mi aspetta dietro il Convento delle Orsoline; magari è un "biondino insospettabile", quelli sono anni di "biondini insospettabili".
Mentre rincasiamo come si suol dire rimugino, ma la mamma un po' stordita nella sua nuvola di lacca fissaggio forte non ci fa caso. Devo parlarne con qualcuno prima che lo Squartatore esca dalla sua tana, magari su una vetturina sportiva; perché sono quelli sono anni di vetturine sportive.

– Nonna, ho tantissima paura di diventare una prostituta!
Antonia mi lancia uno sguardo distratto e farfuglia qualcosa a proposito di quello sporcaccione di mio nonno e del "benedetto referendum sul divorzio". Ma si vede che non ci mette passione perché ha la mente altrove.
Tra le mani ha un brandello di pagina che contiene tutti ma proprio tutti i saporitissimi dettagli della vita di Dalida.

mercoledì, ottobre 10, 2012

La provvisoria adozione dell'infinito



Metti a bollire do chili de patate intere.
Le tiri su, gli levi la buccia e le passi col passaverdura, 
che vien fuori come tanti vermetti. 
Antonia, Ricetta perfetta degli gnocchi perfetti secondo Antonia [incipit].

I Nocken venivano dall’Austria profonda e ogni estate migravano miti verso il mare, dove mostravano al sole dell’Adriatico le loro pelli bianche e squamate, nuotavano con la canottiera e facevano il pieno di lentiggini.
I miei – tranne Antonia – trovavano che fosse un bene socializzare con i popoli di lingua tedesca, considerati portatori di civiltà, cortesia, strudel di mele e berretti di lana di fattura artigianale. La barriera linguistica? Mio padre sapeva come abbatterla: bastava un dizionario tascabile, e mettere tutti i verbi all’infinito.

I Nocken. Josef, padre. Anna, madre. Figli, 3: Marie, Max, Moritz.
Nel mese di agosto alloggiavano in una specie di ostello familiare simile alle case di villeggiatura sovietiche. Lì, mentre i miei prendevano nota della grazia spartana di quelle vacanze, Marie e i suoi amici mi intrattenevano con un gioco di carte fatto di topi finti e di schiaffoni sulle mani. Mi sembrava divertente come una barzelletta in lingua straniera.

Loro ricambiavano facendoci visita all’ultimo piano di un palazzone moderno in quella che era stata battezzata Lignano City, regno di fontane, luci e piano bar in stile rococò texano.
A Gorizia, invece, i Nocken si commuovevano davanti agli gnocchi al ragù di Antonia mentre mio padre snocciolava infiniti.

Giunse il momento di accettare il loro invito: cerimoniosamente espresso in una lettera in inglese, tedesco e italiano semplificato, tanto per stare sul sicuro.

Andare a Wartberg per festeggiare tutti insieme San Nicolò con la K. Inoltrarsi nell’Austria profonda, la culla imperiale ormai dimenticata dei nostri avi (mai arrivati più in là di Jesenice, dove il bisnonno ferroviere era stato confinato per schiamazzi sindacali).
Due notti. A Wartberg. E poi: tornare.

Partimmo una mattina d’inverno, abbandonando sulla soglia di casa un’Antonia imbacuccata e scontenta. Sospettava che al nostro ritorno le avremmo imposto con silenziosa efficienza uno stile di vita fondato sulla zuppa con i crostini e le vacanze fuori stagione.

Subito dopo il confine ci perdemmo. Mio padre pensava che fosse elegante piantare degli umlaut qua e là, e questo complicò la richiesta di indicazioni stradali. In un paesaggio sempre più innevato e spettrale Wartberg divenne di volta in volta Wärtberg, Würtberg, Wörtberg. Mentre si preannunciava il crepuscolo ed era ormai in corso una disperata mutazione in Wartbürg ci ritrovammo per caso nel posto giusto. Appena in tempo, perché dopo una breve democratica riunione di famiglia i Nocken avevano ormai deciso di rivolgersi al commissariato del luogo per denunciare lo smarrimento di una famiglia di italiani. Ben ghe sta, avrebbe detto Antonia, proprio ben ghe sta.

Fu deciso che avrei dormito nella camera di Marie. Che avrei giocato con Marie mentre Max studiava nella stanza accanto e i miei visitavano il moderno borgo con Anna, Josef e Moritz.

La casa era grande, silenziosa e profumata di brodo. Sul mio letto c’era un piumino rosso. Appeso al muro, un manifesto con la pubblicità di una banca che ritraeva due spennacchiati imitatori di Stanlio e Ollio.
A un tratto, senza motivo, mi venne in mente Antonia.

Marie tirò fuori i suoi giocattoli preferiti, le carte con i topi finti, un puzzle da 500 pezzi. Mi presentò l’albero di Natale, mi prestò le sue muffole, mi trascinò in giardino. Costruì un pupazzo di neve. Convocò Max per sondare i motivi della mia malinconia. Io respiravo a fondo l’odore di brodo, guardavo la neve fuori della finestra e inghiottivo le lacrime. Alla fine Marie e Max si arresero e sedettero muti accanto a me, sotto il poster dei finti Stanlio e Ollio, in attesa dell’ora di cena.

In quei giorni i miei visitarono scuole all’avanguardia, conobbero gente gioviale, sdrucciolarono sulle strade del vicinato. Avevano preso a profumare di vino speziato, mentre l’italiano di mio padre si scioglieva come neve fresca nelle giornate di sole sopra lo strato ghiacciato degli infiniti verbali.

L’ultima sera Anna ci annunciò radiosa che avremmo mangiato gli gnocchi. Lo gnocco era uno solo: grande, insipido e affogato in un brodo paglierino. Io pensavo ad Antonia, seduta davanti alla tv a sgranocchiare Ritz o ad allungare con l’acqua il Rosso Antico del mobiletto bar, e venivo travolta da una quieta nostalgia.

Seduta in macchina in attesa di partire, gli occhi socchiusi per tutta quella neve, pensavo al pallore dei Nocken, alla scomparsa delle lentiggini, allo gnocco in brodo, al piumino rosso e al poster sopra il letto.
Gentili creature di terra e di neve, i Nocken erano come una di quelle conchiglie in cui sembra di sentire il rumore del mare e che finiscono su uno scaffale a prendere la polvere finché un giorno d’inverno non le riporti all’orecchio per accorgerti che il mare non si sente più, e forse non si è sentito mai.

Sulla strada del ritorno telefonammo a casa.

***

Per un po' squillò a vuoto. Poi, al terzo tentativo, rispose la zia Maria. Quella che vedemmo uscire dalla cabina telefonica era una brutta imitazione, spettinata e livida, di mia madre.
"Porco dìs" disse mio padre a bassa voce mettendo in moto.

La casa era calda, profumata e tirata a lucido. Solo la cucina era sottosopra come la scena di un delitto. Mio padre raccolse un mestolo abbandonato sul pavimento. Il vapore ancora appannava i vetri.
"Sono pronta, andiamo" disse mia madre. Teneva stretto un borsone pieno di mutande e di camicie da notte. Ai piedi aveva ancora i doposci.

Antonia era parcheggiata al terzo piano, otorinolaringoiatria. Un dottore molto giovane e dall'aria spaurita aveva detto che ci sarebbero stati esami, accertamenti, ma che bisognava farsi coraggio.
"Vado sola" disse mia madre. La vedemmo allontanarsi lungo il corridoio e sparire dietro una porta.
Uscì un'ora dopo.
Piangeva.
"Porco dìs" sospirò mio padre.

Antonia era stesa sul letto, immobile, gli occhi spalancati. Quando vide mia madre le fece cenno di avvicinarsi, serrò le labbra e coprendosi gli occhi con la mano scoppiò in singhiozzi.
"Perché non hai mai detto niente?" chiese mia madre.
"Uiuiuiuiuiui" fu la risposta in falsetto.
"Per tutto questo tempo."
"Il gnocco, Lina" sibilò Antonia. "Il gnocco. Uiuiuiui."
Fu a quel punto che mia madre si accorse che Antonia non piangeva.
Rideva.

***

Dopo che vi ho salutati e ho visto la macchina che spariva dietro la curva ho chiuso il portone e son tornata su per il vialetto, così, senza premura, con le mani nelle tasche della traversa. Nel mentre che passavo vicino alla casa delle Debegnak ho visto le finestre aperte e allora ho pensato che la Maria aveva brusà la frittata e aveva aperto tutto per lasciare andare fuori la spussa, così ho tirato il collo per guardar dentro e infatti ho visto una gran fumera da per tutto, ma la Maria non si vedeva da nessuna parte. Dopo un po' di tirar il collo son tornata a casa. Ho detto adesso faccio le pulizie, adesso faccio profumar tutta la casa, però prima metto su un bel disco. Ho messo su "Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera, è primavera. Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera l'ora dell'amor!". Sebben che era inverno. Adesso faccio profumar tutta la casa, ho detto, mica come la Maria che impussa tutto. E dopo mi faccio un pranzetto squisito. E dopo il pranzetto un bel caffè, perché mi son una gran caffettona. Un caffé e un Mon Chéri. Due. Due Mon Chéri.

Mi me diverto sempre a guardare la Maria che fa i lavori in giardino, in special modo quando sale sui alberi, come quella volta che è cascata dal caco. Ma certe volte la Maria sta dentro casa con la Graziella che fa andare la Singer tutto il giorno e la cagna che dorme. Allora si mette alla finestra a guardarme a mi. In realtà femo finta de far altro, de guardare il giardino. È come la guerra de trincea. Femo il 15-18. Ogni tanto la Maria si allontana, per esempio va a prender un bicchiere d'acqua, e allora anche mi faccio una pausa, e torno magari con una tazza di cacao. E così anche quel giorno ho guardato un poco la Maria, finché ha fatto scuro, e dopo mi son messa a guardare Avventura. Giusto per aspettare l'ora de cena, perché a mi i documentari sui vulcani e gli animali feroci, in special modo il leone che corre dietro alla bestiolina, me fa tanta fame.

L'ultimo giorno mi son alzata presto e ho fatto tutti i vetri e ho passato sui mobili il Fabello. Poi mi messa in poltrona, comoda come un papa. Dopo un po' ho detto: faccio i gnocchi. Per voi. Allora son andata al mercato a comprar le patate e i ovi, e ho detto adesso me li godo proprio 'sti gnocchi. Per voi.
Così mi son fatta un bagno con la schiuma e mi son coperta tutta de borotalco. E dopo son andata in cucina, ho fatto un bel caffè, perché mi son una gran caffettona, e ho messo la traversa pulita coi fioretti blu. Le patate era bone, proprio quelle giuste, né troppo farinose né troppo acquose.

I gnocchi i faceva una bella figura, tutti in fila sul strofinaccio come tante conchigliette. Allora ho fatto bollire l'acqua e li ho buttati dentro. Quando son venuti su ho detto aspetta che ne assaggio uno. Avevo lasciato aperta la porta di casa, e proprio quando ero lì col gnocco bollente che lo facevo saltar nella bocca ho sentito un rumore, mi son girata e ho visto la Maria immobile come una morta, con le man sui fianchi. Ho pensato che la Maria era venuta giù dal caco un'altra volta e aveva battuto la testa e adesso veniva a trovarme a mi. Invece di sputare il gnocco l'ho mandato giù. Maria Vergine. E son cascata per terra.


Ho aperto i occhi al Pronto Soccorso che c'era questo dottorino tutto preoccupato e non volevo scontentarlo. Me faseva tanto mal la gola, ho pensato Maria Vergine anderò avanti tutta la vita con la cannuccia. Il dottorino ga dito adesso signora la ricoveriamo e andrà tutto bene. Si faccia coraggio, ga dito il dottorino. Ma mi pensavo: mai più patatine fritte, mai più pizze, mai più cotolette panate. Per colpa di un gnocco e di quella sempia della Maria che voleva solo farsi i fatti miei. Ma anche per colpa mia che non chiudo mai la porta. Come se ero nata in barca.

***

Dopo un'ora vedemmo mia madre uscire, chiudere piano la porta e venirci incontro.
"Porco dìs" sospirò mio padre.
Lei allora tirò su con il naso e ci guardò.
Non piangeva, mia madre.
Rideva.

Quella sera telefonammo ai Nocken.
"Tutto per noi andare bene" urlò mio padre nella cornetta. "Tutto andare sehr gut."

giovedì, aprile 26, 2012

L'angelo


"E per la bambina un piatto di capelli d'angelo. In brodo", disse dolcemente mia madre dopo aver ordinato gnocchi al ragù, lubianske e cevapcici per otto persone.

Oggi lei nega che sia mai successo, nega e ride.

Ma io quel giorno fui spedita con mia nonna a lavarmi le mani, e trotterellando davanti alle cucine lo vidi: era grande e paffuto, una testona di capelli biondi che gli si appiccicavano in piccole ciocche bagnate sulla fronte e sulla nuca.
Buongiorno, disse Antonia a mezza voce.
Buongiorno, disse l'angelo passandosi una mano tra i capelli. Con l'altra teneva un piatto fondo.

sabato, febbraio 11, 2012

L'invenzione dei mestieri


In seconda elementare c'era la maestra Wanda: boccoli ramati, denti spalmati di rossetto fucsia e un feroce ombretto perlato che a metà mattina le si ammucchiava nelle pieghe delle palpebre come neve ai bordi delle strade. La maestra Wanda aveva alcune convinzioni incrollabili: riteneva per esempio che i bambini dovessero stare a contatto con la realtà, il sociale, i mestieri, il flusso multiforme della vita.

Accadde così che una mattina d'inverno la maestra Wanda decise di assegnarci il seguente compito per casa, primo di una lunga serie: "Intervista a un commerciante".

Intervista a un commerciante? Dove lo trovo un commerciante, nonna? In un commercio, rispose lei, evasiva. E cosa gli chiedo? Un etto di crudo dolce tagliato fin fin.
Mio padre quel pomeriggio mi trovò in cucina, imbronciata, a maneggiare svogliatamente i pennarelli.
E allora? E allora devo fare un'intervista a un commerciante. Chi lo dice? La maestra Wanda. Ti porto dal Scarel, dice lui, che è mio amico di pesca. Ma io mi vergogno. Gli chiedi mezzo chilo di rosbif tagliato fin fin, buttò lì Antonia. E i fegatini per il risotto che mi me piase tanto.
Restammo assorti per un po': mio padre a segnare il ritmo di un valzer lento battendo i palmi delle mani sulle ginocchia, io a pitturare i vortici dell'esistenza con i pennarelli viola e blu e Antonia a chiedersi se non servisse anche un po' di carne per lo spezzatino.

Va bene, disse mio padre dando la tamburellata definitiva. Sono un commerciante.
Un commerciante, papà? Sì, un commerciante, o meglio un panettiere. Urca. Prendi il notes che cominciamo. Cominciammo. Buongiorno, signor panettiere, la disturbo? Buongiorno, non mi disturba per niente guardi. Come va il lavoro? Bene, perché la gente ha sempre bisogno di pane. Lei ha sempre fatto il panettiere? Sì, perché mio padre aveva un forno. Cosa le piace del suo lavoro? Il profumo del pane la mattina e parlare con le persone. E cosa non le piace tanto? Alzarmi prestissimo. Chiedigli se ti dà anche cinque rosette, gridò Antonia dalla cucina. E un krafen.

La prima intervista ebbe successo. Il compito successivo fu "Intervista a un agricoltore". Lì papà usò la sua infelice esperienza di orticoltore dilettante – sempre a una bustina di sementi dal successo – per scolpire il ritratto di un coltivatore sapiente e illuminato, ugualmente sensibile alla rotazione delle colture e alla manutenzione dei mezzi agricoli. Posso anche essere allevatore, si vantò, ma ce lo teniamo per la prossima volta. Papi, metti che la prossima volta devi fare la parrucchiera. Che problema c'è, disse lui.

Fu così che quell'inverno con mio padre vivemmo più e più vite operose, popolando una città di piccole dimensioni che si svegliava prima dell'alba e la sera puntava la sveglia contenta.

Poi ci fu l'intervista a tema libero. Lui allora raccontò il suo, di lavoro, e si fece anche le domande.

Fu quel pomeriggio, mentre parlava da solo tamburellando l'un-due-tre di un valzer brillante, che capii: nel flusso multiforme della vita mio papà era un uomo moderatamente felice.

martedì, ottobre 09, 2007

Piccola Imperatrice

– C'è qualcuno?
– Te me gà portà i bagigi?
È seduta sul letto, come sempre, davanti al televisore acceso.
– No, zero bagigi.
– Carame'e morbide?
– No. Ciao Antonia.
– Ciao, nevòde.
– Pensavo, oggi.
– Te pensavi.
– Ti ricordi quando sono arrivata nel mezzo di una puntata di Sentieri per dirti che mi avevano invitata a parlare alla radio...
– Sì, entanto quea sporcaciona dea Riva... ben, assèmo pèrdar.
– ... insieme a una professoressa, a una vigilessa e a una poliziotta.
– Come na barze'etta.
– E tu mi hai chiesto: "E ti, cossa situ?" E io ho risposto "Piccola imprenditrice".
– Vero, vero. Parole sante.
– Ma quali parole sante. Ti ricordi come hai commentato?
– Al momento non me o ricordo.
– Hai detto "Lo gò sempre savùo, che te geri una piccola imperatrice".
– La mia stelassa.
– Bòn, vado.
– Imperatrice!
– Dime.
– La prossima storia sarà quea dei austriaci e dei gnocchi.
– Va ben.
– Qua i manda sempre 'e repliche.
– Ciao, Antonia.
– Ciao, nevòde.

martedì, gennaio 09, 2007

Nostra Signora delle Isobare

Don Mario era piccolo, magro, occhialuto e aveva una strana carnagione rossastra, come se qualcuno lo avesse buttato nell'acqua bollente per pochi secondi e poi spellato con cura. Antonia lo aveva squadrato con diffidenza prima di commentare a bassa voce:
- Maria Vergine, un gambero. Deve anche esser cattivo, statènta.

Con don Mario però andavamo abbastanza d'accordo. Capitava che mi pizzicasse le guance o le orecchie con le chele, quando mi vedeva distratta, ma si trattava di gesti affettuosi e tutto sommato sopportabili. Mi aveva anche regalato un piccolo collage di fiori secchi, ricordo del suo recente viaggio di gruppo in Terra Santa.
– Antonia, guarda cosa mi ha dato don Mario.
– Belli, proprio belli i fiorellini, amore.
– Sono dell'orto del Getsemani.
– Fiorellini de un orto, bravo il don Bairo.
– Don Mario, nonna.
– Uguale.

Finché un giorno la Sgorza aveva fatto la spiata della sua vita:
– Padre, io conosco una bambina che ha una nonna e questa bambina e sua nonna bestemmiano.
– Sgorza, in piedi e parla bene senza mangiarti le parole.
– Conosco una bambina e sua nonna che bestemmiano la Madonna, padre.

Sgorza Flavia, una creatura magruzza con grandi occhi azzurri e un'espressione costantemente attonita: in un film si sarebbe guadagnata la parte della piccola paralitica, della monachella orfana o della fiammiferaia, nella vita reale sognava di cambiare il proprio nome in Ondina e di aprire un salone di parrucchiera. La fissai con gli occhi sgranati, mentre lo sguardo incendiario e vagamente spiritato di don Mario si spostava su di me, l'incredulità amplificata dagli occhiali spessi con la montatura di celluloide.
C'era solo una nonna famosa, tra i bambini di quarta A: Antonia. Non poteva trattarsi che di noi. Due o tre pomeriggi alla settimana Sgorza Flavia passava a casa nostra con la scusa dei compiti, beveva il nostro cacao con panna, mangiava i nostri biscotti, addentava pizzette e brioches, trangugiava patatine e aranciata senza mai smettere di parlare di acconciature e permanenti, e intanto tramava nell'ombra come una spia del cardinale Richelieu.
Ma cosa aveva sentito o creduto di sentire, Sgorza Flavia?

Di quell'inverno ricordo il gran freddo, e il fatto che ci sembrava interminabile. Con Antonia ci alzavamo prestissimo, all'insaputa dei miei genitori: lei accendeva la radio, io mi mettevo a leggere i libri della biblioteca di classe, solitamente fiabe nordiche piene di neve, gelo, mutazioni e complicati incantesimi.
Prima di uscire ascoltavamo con assorta concentrazione le previsioni del tempo e le temperature, che rievocavamo durante il tragitto a piedi verso la scuola.
"Heeeelsinki, meno sei".
"Stokkolma, meno due".
"Perlino, zero gradi".
"Moooska, meno undici".
"Venezia".
"Due".
"Santa Maria di Leuca".
"Dieci".
Scivolavamo sul marciapiede leggermente ghiacciato, già sveglie da ore. Il babbo ci aveva regalato due piccoli scaldamani a pile da tenere in tasca (due, perché sospettava che Antonia sarebbe riuscita a impadronirsi del mio, magari barando a rubamazzetto). Li accarezzavamo entusiaste, mentre dagli alberi del viale ci cadevano in testa piccole stalattiti rumorose.

E poi ci fu l'incresciosa faccenda della Sgorza.
– Nonna, la Sgorza ha detto a don Mario che bestemmiamo la Madonna.
– La Sgorza!
– Adesso don Mario ti manda a chiamare, vedrai.
– Santa Maria Vergine, il gambero.
– Santa Maria di Leuca, Antonia!
E in quel momento capimmo, mentre ci sfilava davanti agli occhi il pomeriggio di due settimane prima: Sgorza Flavia che disegnava sul diario audaci capigliature femminili, io intenta a separare la panna montata dal cacao e Antonia accanto alla finestra.
– Orco, nevica.
– Nonna, la neve!
– Speremo che duri.
– Se non butta in piova, – puntualizzò la Sgorza ridestandosi dal suo mondo di fantasia fatto di bigodini e di méches.
– Oh, Santa Maria di Leuca, – esclamò Antonia volgendo gli occhi al soffitto.
– Fa' che no piovi! – implorai io.
Era chiaro: la zelante Sgorza aveva scambiato per una bestemmia l'invocazione a una stazione meteorologica. Questo fu spiegato a don Mario, che però da allora conservò una certa diffidenza nei confronti di Antonia, sospettata di suscitare nella nipote istinti pagani o poco ortodossi: i due si evitarono sempre, tenendosi a distanza come due isobare sulla carta meteorologica.

Fu lunghissimo, quell'inverno di fiabe e di albe ghiacciate votato alla Madonna delle Perturbazioni.
– Che zìma, nonna.
– Non parlare che ti entra l'aria fredda in bocca.
– Ho tre giri di sciarpa intorno alla faccia.
– Entra lo stesso. Lo usi, lo scaldino?
– Certo che lo uso!
– Bòn, chiedevo.
– Oh, Santa Maria di Leuca!
– Pazienza, ghe vòl.
– Non spingere!
– Chi spinge! Heeeelsinki!
– Meno due!
– Stokkolma!
– Non pervenuta!

Talvolta ci capitava di incontrare don Mario, che con la sua faccia rosea e i capelli bianchi spiccava contro il grigiore del mattino come un lugubre fiore esotico in una cella frigorifera.
– Buongiorno padre.
– 'Giorno padre.
– Buongiorno. Bambina, di' arrivederci alla nonna.
– Arrivederci nonna.
– Un momento. Qua lo scaldino.
– Nonna!
– Che poi lo perdi. Compermesso, padre.
Antonia mi consegnava alle chele del gambero e si fermava a fissare per un po' il portone della scuola, facendo scricchiolare la ghiaia sotto i piedi. Poi si allontanava con un'espressione soddisfatta, muovendo impercettibilmente le mani nel tepore simmetrico delle tasche.

Nella mia fantasia Santa Maria di Leuca è sempre incoronata da un robusto campo di alta pressione, segnalato da estremi climatici molto confortevoli.
Sgorza Flavia ha aperto un salone di parrucchiera, dimostrando una formidabile capacità di tener fede ai propri sogni.

giovedì, novembre 02, 2006

L'importanza di non chiamarsi Sandrino

Abbiamo avuto quasi tutti un giocattolo brutto, rotto, sporco e amatissimo. Io ero una vera specialista in pupazzi ripugnanti, tanto che i miei genitori avevano deciso di regalarmi un set di bambole presentabili da esibire in presenza di ospiti in un contesto dignitosamente proletario con aperture piccoloborghesi.
Questo naturalmente era prima che mi appassionassi esclusivamente allo smontaggio e al rimontaggio casuale di vecchie radio a transistor e non meglio identificati apparecchi elettronici. C'è stato un periodo in cui bastava che mio padre impegnato in piccole geniali riparazioni perdesse di vista il trapano per cinque minuti per poi ritrovarselo sventrato, con vitine e pezzetti in bell'ordine sul davanzale della cucina. Io lo aspettavo orgogliosa come un gattino che avesse appena dilaniato il cocorito di casa e l'avesse ricomposto sullo zerbino come pegno d'amore per il padrone. Capitava che Antonia passasse di lì, con un catino pieno di lenzuola da stendere:
- Cos'era 'sta roba, amore?
- Il trapano del papi.
- Brava, stelassa. Come sarà contento, to' pare.
Mi prendevo una carezza all'odor di varechina e annuivo soddisfatta.

Ma prima del cacciavite c'era stato il pupazzo brutto. Sandrino.
Sandrino era un mostro nudo e calvo che in un passato dimenticato da tutti era probabilmente stato una vezzosa bambola bionda vestita. Sandrino si era guadagnato il mio amore sul campo, perdendo pezzi e capelli, talvolta perfino smarrendo se stesso in plateali gesti di eroismo.
In uno di questi incidenti aveva perso un occhio.
A quei tempi, un occhio di vetro mancante al momento della conta serale generava soprassalti d'angoscia e telefonate al pediatra. "Oddio, oddio, la bambina ha mangiato l'occhio di Sandrino". Vaglielo a spiegare che un occhio non è un'amarena Fabbri e che mai avrei privato volontariamente il mio tesoro del prezioso bulbo. La mamma andava a chiamare il dottor Krainer (che arrivava di corsa poco dopo, solitamente con il tovagliolo macchiato di ragù ancora annodato al collo) e intanto Antonia ne approfittava per sussurrarmi all'orecchio le diverse pratiche di estrazione dell'occhio dalla mia pancia, tutte ugualmente terrorizzanti.

Sandrino era il mio doppio e il mio custode, mangiava quello che io odiavo e si ammalava al posto mio. Era anche finito nelle acque del Natisone, durante una sciagurata gita a Pulfero. Un momento prima era accanto a me, un momento dopo la corrente trascinava il povero corpo ignudo e papà lasciava cadere in acqua una canna da pesca per lanciarsi a recuperarlo, mentre urlavo disperata. Eppure quella presenza scomoda e sconcia sembrava garantire la mia incolumità: prima di Sandrino le gite a Pulfero si concludevano con l'accensione di un falò per asciugarmi i vestiti mentre avvolta in un plaid battevo i denti e covavo la quindicesima tonsillite della stagione (Antonia già in macchina, le sicure delle portiere abbassate, che scrutava il crepuscolo mentre l'ora di cena si avvicinava e la cena si allontanava).

Per una straordinaria coincidenza, mio padre aveva un amico di nome Sandrino. Lo avevo visto solo di sfuggita e da lontano, come figura in movimento: una capigliatura biondissima, una camicia a quadretti allegri e i jeans a zampa di elefante che usavano allora. Sandrino mi piaceva, era una versione cresciuta e decentemente vestita del mio amico di plastica. Trovavo l'omonimia straordinaria e fortunata, anche se avevo la certezza che un incontro tra i due sarebbe stato inopportuno.

Una mattina di primavera, mentre contemplavo assorta un arto penzolante del mio pupazzo preferito, notai che Antonia sbirciava il giardino attraverso le tende della cucina.
- Cosa, nonna?
- Eh?
- Cosa.
- Amico di tuo papà.
Seduto di spalle sulla sedia di plastica verde sotto il vecchio ombrellone con la scritta Recoaro c'era Sandrino. Mio padre gli stava evidentemente esponendo le virtù di un mulinello Mitchell di ultima generazione sul quale non ero ancora riuscita a mettere le mani. Osservai incantata la capoccia bionda annuire entusiasta.
- Prendi due bottigliette di gingerino, che io porto i bicchieri. Vediamo com'è fatto 'sto Sandrino.
Seguii Antonia trotterellando, le bottigliette di liquido arancione in mano. Quando mi resi conto che sotto il braccio stringevo ancora Sandrino e non una bambola presentabile era ormai troppo tardi. Dovevo trovargli un altro nome, e subito.
- Ah, grazie. Mia suocera, Antonia. La bambina, Manuela. Il mio amico Sandrino.
Osservai confusamente la nonna metter su la faccia da sfinge di quando si accorgeva di aver dimenticato la dentiera e presi a meditare febbrilmente sulla nuova urgente identità del mio amico di plastica.
- E come si chiama il tuo bambolotto?
- Ehm. Si chiama. Si chiama. Occhietto, si chiama!
Silenzio, turbato da un gemito di Antonia e dallo 'swush' del mulinello di papà.
Alzai lo sguardo.
Il Sandrino di carne e capelli e quello di plastica si fissavano. Camicia contro nudità, chioma bionda contro lustra calvizie. Un solo occhio, in entrambi, il sinistro: nel Sandrino di carne il destro era sostituito da un'immobile pupilla di vetro celeste. Li guardai terrorizzata per un lunghissimo istante in cui tutto sembrò fissarsi sotto i riflessi bluastri dell'ombrellone come plastilina sotto uno strato di smalto trasparente.
Sentii le mani di Antonia appoggiarsi dolcemente sulle mie spalle.
- Compermesso, signor Sandrino. Vien con mi, stelassa.
Mi lasciai condurre via ciabattando sulla ghiaia, voltandomi a tratti verso l'amico di papà e il suo occhio di vetro, incespicando mentre Antonia mi teneva in piedi borbottando.
- Ocio, picinìna. Oh, la mi scusi, signor Sandrino!
Capii che avrei continuato a vedere l'amico di papà solo da lontano, e sempre con un brivido di orrore e di incredulità.
Pochi giorni dopo trovai il Mitchell abbandonato su una mensola e con gusto lo smontai, mentre Antonia faceva il palo.

Documentazione fotografica
Reperto A:
con mamma e sandrino
la mamma, io e Sandrino.

Reperto B:
con mamma, antonia e sandrino
io, la mamma, Antonia e Sandrino. Antonia fissa l'obiettivo con l'espressione 'demenza precoce + lieve sadismo + accenno di pericolosità sociale' con cui ama innervosire papà. Il babbo, dal canto suo, è sempre stato spavaldamente favorevole all'eliminazione dei piedi delle signore dall'inquadratura.

martedì, settembre 19, 2006

Mai dire mi dispiace

A casa non lo sapevano, ma a sei anni ero cresciuta abbastanza da arrampicarmi su una delle sedie imbottite del soggiorno e raggiungere l'Enciclopedia della Famiglia, una sintesi dello scibile domestico in otto volumi che spaziava dall'arredamento allo svezzamento con una disinvoltura e una predilezione per le immagini ammiccanti che ora definirei decisamente pop. Dopo una veloce occhiata a "Casa e Giardino" mi ero subito concentrata sulla sessuologia e sul controllo delle nascite (anche se per molto tempo, a causa di quel primo fatale errore di lettura, avrei detto Ogino-Kneipp). Tutte cose che mia madre avrebbe tentato di spiegarmi anni dopo, seguendo scrupolosamente le linee guida de "I Figli, volume 1: Dalla scuola elementare all'adolescenza". L'Enciclopedia della Famiglia era stata acquistata proprio per questo, trascurando però di sistemarla su uno scaffale più alto per non guastarmi la suspense al momento opportuno.
Comunque stavano cominciando gli emancipati anni Settanta, i cambiamenti erano nell'aria e io mi stavo inconsapevolmente mettendo al passo con i tempi, anche se ancora non mi era evidente il legame tra il malto Kneipp e le dinamiche delle ovaie.

Quando Antonia e la mamma si misero in testa di andare finalmente a vedere Love Story in seconda o in terza visione e dovettero scegliere se lasciarmi dalle zie o portarmi con loro, giudicarono che un po' di melassa non mi avrebbe fatto male e che comunque non ci avrei capito nulla. Si sbagliavano. La parte del sesso - quella che avrebbe dovuto risultarmi oscura - per quanto ingentilita era chiarissima (per lo meno non si parlava di malto). Trovai che l'attrice - che mia madre chiamava Ali Meggràv, non sapendo bene come comportarsi quando si trovava davanti una "a" e una "w" accostate - avesse le sopracciglia troppo folte, mentre lui mi piacque abbastanza. Il meccanismo emotivo a un certo punto mi sfuggì (mamma e Antonia apparentemente inconsolabili, io seduta in mezzo ad accarezzare compiaciuta il velluto rosso delle poltrone e a guardarmi attorno), e naturalmente non piansi. Imparai invece il nome di una grave malattia, leucemia, e mi venne in mente che dopo quell'Accidente di Sesso c'era il temibile Volume Medico.
Passai i giorni successivi a spiare illustrazioni spaventose, a sillabare termini oscuri e a covare una feroce ipocondria che avrebbe accompagnato tutti i momenti insopportabilmente felici della mia vita: ricordo ancora con un brivido d'orrore la sequenza che da una semplice appendice infiammata portava alla peritonite e a una coreografica esplosione finale, stile "Ultimi giorni di Pompei".
Fu dunque un sollievo chiudere "Il Corpo, volume 2: Guida medica" ed entrare nel rassicurante territorio dell'"Igiene", dove imparai le meraviglie della dieta macrobiotica (dunque il pollo alla sbirraglia di Antonia non era "in") e decisi che all'età minima consentita mi sarei depilata le sopracciglia.
La mamma e la nonna nel frattempo smisero il lutto per Ali Meggràv, concedendosi qualche romantica e tardiva lacrima solo quando si trattò di raccontare la trama a zia Graziella. Alla radio ogni tanto andava la versione cantata da Johnny Dorelli del tema musicale ("Grazie amore mio/di aver sfidato tutto il mondo insieme a me") e Antonia gestiva l'emergenza sentimentale commentando tempestivamente che quel Dorelli aveva proprio una gran faccia da smanfaro.

Presto ci dimenticammo di Love Story; io decisi che per il momento non avevo nessuna malattia mortale e archiviai l'Enciclopedia della Famiglia, transitando a più infantili letture nell'attesa di riuscire a tirar giù dallo scaffale I Peccati di Peyton Place, ancora inarrivabile. Poco tempo dopo al cinema uscì Il Padrino, che mi vietarono (versione italiana del tema musicale, "Parla più piano e vieni più vicino a me", cantata sempre dal Dorelli, l'asso pigliatutto delle melodie travagliate di natura medica o mafiosa).

In seguito vi fu un solo momento di imbarazzo, alla presenza di un ignaro ospite a pranzo. Accadde dopo il caffè, quando la mamma si avvicinò spingendo cerimoniosamente il carrello dei liquori, assortito secondo le regole de "La buona tavola, volume 1: cantina, bar e dispensa": dalla solennità dell'incedere avresti detto che seduto sul divano ci fosse Ugo Pagliai o anche quella faccia da smanfaro di Johnny Dorelli, e invece era solo un amico di papà.
– Qualcosa da bere, Tullio?
– Grazie, un amaro.
Antonia lo intese come il la per una battuta lungamente attesa:
– Amaro significa non dover mai dire mi dispiace.
Scosse il capo, si alzò dalla poltrona, si drappeggiò pensosamente un tovagliolo sul braccio sinistro e fece un'uscita di scena legnosa, lenta, memorabile.
Papà rimase a fissare la poltrona vuota, la mamma urtò con la bottiglia il bordo di un bicchiere, Tullio studiò l'orologio a muro con l'espressione stupefatta di uno che avesse appena scoperto la lancetta dei secondi. Sembravamo un gruppo di sospetti in un giallo del tenente Sheridan, tutti riuniti nel tinello prima della rivelazione finale: stessa studiata indifferenza, stessi sguardi sfuggenti, stessa aria vagamente colpevole. Poi dalla cucina arrivò il suono della radio a transistor di Antonia, accompagnato da un canticchiare soddisfatto in vivace arrampicata sulle note alte.
– Va' a chiedere alla signora Duse se per caso gradisce un Cynar, disse mio padre.

lunedì, settembre 04, 2006

Il Baffo e la Bestia

– Antonia, se non stai un po' zitta finisce che ti ammazzo.
– Perfino!
– Ai parenti dico che sei tornata nella tua Lovadina.
– Ah, caro mio...
– Invece ti ammazzo qua in cucina, scavo un buco e ti ci butto dentro.
– E dopo ti tocca cambiare tutte le piastrelle.

Le discussioni tra mio padre e la nonna finivano immancabilmente con un proposito di omicidio e si arenavano sulle piastrelle scompagnate. Io li fissavo con un'espressione di bovino stupore, la mamma lasciava la stanza in lacrime e le zie seguivano tutto con il binocolo dalla casa vicina.

– Mamma, ma papà non ammazza davvero la nonna, no?
– No, sono due stupidi.
– Perché poi quando vengono la Claudia e la Raffaella se ne accorgono, se c'è qualcosa che non va con il pavimento. E le zie? Poi deve ammazzare anche le zie, e non abbiamo una casa tanto grande.
– Non le ammazza, le zie.
– Che strano, poi. Ci sono la legnaia e il sottoscala. Perché vuole seppellirla proprio in cucina?
– Non stare ad ascoltare quello che dice tuo padre.

Era l'agosto del 1973, e il babbo aveva due ossessioni: la Nonna Morta Sotto Il Pavimento (o Almeno Zitta) e La Grande Trota. Per quest'ultima sentiva di essere vicino a una soluzione. Da circa tre mesi all'imbrunire andava a fare la posta alla marmorata gigante che il suo amico d'infanzia Gianni, a tutti noto come Tarzan per lo stile di vita alternativo, diceva di aver intravisto nell'Isonzo dalle parti della Centrale Elettrica.
Con le ferie l'attività di vigilanza si era intensificata: il babbo partiva di buon mattino lasciandosi alle spalle una scia di Autan e di ottimismo, tornava a pranzo (il tempo di litigare con la nonna) e poi si riappostava fino a sera. Dopo una settimana di pesca intensiva aveva già cominciato a stabilire un legame empatico con il pesce ("pensa da trota, sii la trota"), peraltro senza averlo mai visto.

Antonia era scettica.
– Magari non esiste!
– Esiste.
– Magari non la sai pescare. Fa' veder l'esca.
– No.
– Fa' veder l'esca, mica te la mangio!
– Antonia, se non stai zitta...
– Allora chiedo all'Aldo.
– Antonia!

L'Aldo era il vicino vagamente imitativo, pescatore dilettante e sprovveduto, sempre alla ricerca di consigli che non sarebbe mai riuscito a mettere a frutto. Papà ci aveva imposto il silenzio stampa sulla Grande Trota: voleva evitare di trovarsi accanto Aldo con il suo entusiasmo da neofita proprio mentre "pensava da trota" fissando in silenzio il galleggiante.

– Ciao, papà è uscito?
– Per quanto mi consta...
– A pescare?
– No, no.
– A far esca?
– Forse...
– Progressi con il pesce?
– No eh be'...
– C'è la mamma?
– No.
– La nonna?
– Buongiorno signor Aldo!
– Signora, cosa mi dice di suo genero?
– Tanto una brava persona, mio genero.
– Sa se va a pescare, oggi?
– Ne so, di cose...
– Nonna!
– Sul pesce?
– Ah, no, sul pesce non so niente, arrivederla!

Accadde un pomeriggio. Papà pensava da trota, mamma era uscita a fare la spesa, io leggevo un libro e Antonia si stava curando il mal di testa con l'Optalidon e una pezza bagnata sulla fronte.
– Omadonna mi sa che mi gira la testa.
– Nonna!
– Mi stendo per terra solo un momento.
– Chiamo le zie?
– No no, adesso faccio un pisolino.

Poco dopo la mamma aprì la porta di casa, entrò in salotto e trovò me che vegliavo quella che le sembrò la salma di sua madre. Antonia morta davanti alla bambina e suo marito a fissare un galleggiante: ebbe la presenza di spirito di rimandare lo svenimento, di cacciare indietro le lacrime e di chiamare un'ambulanza. In un secondo momento si rese conto che Antonia respirava ancora. O meglio rantolava. O meglio, come si sarebbe chiarito in seguito, russava.

Quella sera papà tornò con la Trota - una marmorata di 14 chili - e una lieve tachicardia. Non potevo crederci.
– Papà!
– Vedi che c'era. Dov'è la mamma?
– All'ospedale con la nonna.
Mettiamoci nei panni di quest'uomo e delle sue coronarie: La Grande Trota tra le braccia e la Suocera all'Ospedale, nello stesso giorno. Sembrava quasi che il silenzio improvviso lo intimidisse. Per fortuna in quel momento qualcuno si attaccò al campanello del portone: Aldo.

Risultò che la nonna aveva esagerato con gli Optalidon. In seguito ebbe anche una reazione allergica che le fece gonfiare le labbra. Fu così che la vidi la mattina dopo, quando entrai correndo nella camerata e mi fermai incespicando davanti al suo letto:
– Nonna, l'ha presa, l'ha presa!
– La Tfota!
– 14 chili. Cos'hai alla bocca.
– Feazione allefgica. Che paufa che go ciapà, Mafìa Vefgine.
Vista così, con la camicia da notte bianca, la nuvoletta di capelli grigi, gli occhi velati, la pelle lentigginosa e le labbra gonfie, Antonia sembrava pure lei un pesce, ma di una specie antichissima e ormai estinta, un fossile vivente. Dovette pensarlo anche il babbo, che rimase a guardarla a distanza prima di avvicinarsi.
– Allofa tanti complimenti per la tfota.
– L'esca era quella giusta.
– O il pesce efa stanco.
– Anche.
– Ti pensavi che mofivo.
– Avevo già scavato il buco in cucina.

Di quel giorno resta una foto, che chiameremo il Baffo e la Bestia. Lui esibisce una camicia caki con le maniche arrotolate, blue jeans a zampa d'elefante con i taschini applicati sul davanti e chiusi da una zip, sandali di cuoio marrone, occhiali da sole con lenti fumè, caratteristica calvizie, baffi generosi, basette lunghe e un innaturale pallore da extrasistole. Sembra uscito da un film di Fernando di Leo, potrebbe essere il poliziotto in borghese ma anche il pregiudicato con precedenti per furto con scasso e ricettazione. E poi c'è lei, enorme, pesante. La Grande Trota stanca di correre.
La foto è miracolosamente a fuoco, ad Aldo per l'emozione tremavano le mani.

giovedì, luglio 20, 2006

L'estate del sub

Erano le due del pomeriggio di un caldissimo sabato di luglio. Tornavamo dal mare.
– Antonia in avvicinamento su vialetto, osservò mio padre con tono piatto.
Mia madre sospirò.
In effetti Antonia, uscita precipitosamente di casa, ci veniva ora incontro ciabattando sulla ghiaia e agitando un mestolo di legno sporco di sugo.
– Nonna!
– A Trieste un motoscafo ha messo sotto un sub!

Poco importava che tornassimo da Sistiana e che nessuno in famiglia facesse il sub o manovrasse motoscafi. Eravamo abituati a queste emissioni quotidiane: Antonia ascoltava alla radio il Gazzettino Giuliano e si impadroniva con entusiasmo degli scarni fatti di nera accaduti nel raggio di almeno cinquanta chilometri. Poi non si limitava a riferirli, ma li imbottiva di particolari lugubri e fantasiosi nello stile di Cronaca Vera e Stop: due pubblicazioni vietatissime a casa nostra, dove pure circolavano di nascosto consentendomi di prendere le misure a un mondo smodatamente bizzarro e crudele che non avrei mai conosciuto.

– Un motoscafo ha messo sotto un sub!, ripeté Antonia agitando il mestolo.
Accogliemmo la notizia assorte, mentre mio padre si toglieva una macchia di sugo dalla maglietta. Un sub investito da un motoscafo come un ciclista da un camion sulla statale?
– Sedici anni, nuotava con la maschera e il tubo, e il motoscafo non l’ha visto.
Seguì, nonostante le proteste di mia madre, la descrizione di un’elica feroce, di giovani membra dilaniate, della macchia di sangue che si allargava sulla superficie del mare: tutti dettagli che il sobrio, cantilenante e burocratico Gazzettino Giuliano aveva di certo omesso. Nessun testimone, del resto. A parte il pilota del motoscafo, fuggito. E i pesci, indifferenti.

Antonia mi seguì fino in camera per assistere alla mia lotta con il costume da bagno ancora umido, e si bloccò sulla soglia per la rivelazione finale:
– E la cosa peggiore. La cosa peggiore è. Che non l’hanno trovato.
Rimasi a guardarla a bocca aperta, le braccia abbandonate lungo il corpo, le spalline del costume attorcigliate sul torace.

Avevo appena imparato a nuotare e a fare le capriole sott’acqua. Avrebbe potuto essere l’estate delle capriole. In quel momento divenne l’estate del sub.
Il sub non si trovava. Del motoscafo ancora nessuna traccia, i soccorsi erano arrivati in ritardo, quel giorno il mare era agitato. E noi intanto bisbigliavamo ipotesi.
– A quest’ora dove sarà.
– Bisognerebbe sapere qualcosa di correnti.
– E di maree.
– Magari la testa è da una parte…
– E un braccio…
– O una gamba.
– Da un’altra.
– Nonna, e il sangue?
– Il sangue, dappertutto.

E dato che un corpo dopo qualche giorno in mare non è un bello spettacolo, diceva Antonia, e pezzi di corpo dovevano esserlo ancora meno, finì che il sub cominciai a sognarmelo la notte. Arrivava mentre nuotavo felice sott’acqua con gli occhi spalancati. A volte era una faccia con la maschera e il tubo, altre era una mano staccata dal resto del corpo, che mi afferrava il braccio impedendomi di riemergere, altre ancora una presenza invisibile. Oppure ero io, il sub: e la macchia scura che si allargava sopra la mia testa era l’ombra del motoscafo, o il mio stesso sangue.

Da quel giorno Antonia sedette silenziosa sulla riva mentre perfezionavo cautamente le mie capriole. Io riemergevo e cercavo con gli occhi il suo costume intero a fiori bianchi e neri e la sua pelle bianchissima; ci guardavamo da lontano e lei mimava con le braccia un gesto che solo io potevo capire. Forse intuiva che per tenermi lontana dai pericoli non serviva evocare crampi, congestioni, brutali testate contro i pedalò, ma erano sufficienti il ricordo e la vaga minaccia di un sedicenne che fluttuava a pezzi chissà dove nell’Alto Adriatico. Forse intuiva tutto questo, o forse accadeva anche a lei che il sub le si parasse davanti in sogno, chiedendo pace o vendetta.

Quell’estate io riemergevo strizzando gli occhi e lei era là, costume a fiori, pelle bianchissima e il gesto a me sola comprensibile: le braccia tese davanti al corpo, il lento movimento alternato delle mani su e giù. Su e giù, Maria Vergine. Le pinne del sub.

In settembre mi iscrissero ai corsi di nuoto della piscina comunale.
Amavo nuotare: mi riconoscevo nella grazia paffuta delle foche viste in un documentario alla tv, mi piaceva scivolare sott’acqua con gli occhi fissi sul fondo geometrico della piscina e le orecchie piene di rumori e di voci distanti.
Poi riemergevo sbuffando e cercavo Antonia con lo sguardo. La vedevo – seduta sulle gradinate, il mio accappatoio sulle ginocchia, la borsa e l’ombrello accanto ai piedi – concentrata nella lettura di Oggi o Gente. Tranquilla, alle prese con i dolori di regine tristi e cantanti affranti.
– Maria Vergine che labbri blu, te me par un cadavere.
– E il sub, nonna, eh?
– Mai più visto.
– E le ossa?
– Conchiglie.
– Gli occhi?
– Perline.
– E il sangue?
– Metti su l’accappatoio, svelta.

Il sub non fu mai trovato. Sbiadì, si disfece, come nei miei sogni acquatici dove ormai si allontanava lasciandomi risalire veloce in superficie: conchiglie le sue ossa, i suoi occhi perle. Non faceva paura. Quasi più paura. Quasi.
– Nonna, il sangue?
Ma avevo già capito, e mi mordevo le labbra fredde.
– Il sangue, dappertutto.
Il sub era diventato il mare.

venerdì, luglio 07, 2006

Marina, la tarantola sasìna

Nella mia vita c'è stata una persona che mi ha insegnato più cose di tutti, e tutte rigorosamente sbagliate: Antonia.

Lei c'era sempre. C'era anche quando mamma e papà per dare una svolta decisiva alla mia vita mi iscrissero a un corso pomeridiano di inglese, certi che fosse la lingua del futuro: mi ci accompagnava lei.

– Sì ma cosa serve l'inglese.
– Serve.
– Ma fa schifo.
– Eh, schifo l'inglese. Son altre le cose che fa schifo.
– I vermi fa schifo.
– I sputi.
– Le pantegane.
– I scorpioni.
– Le scovazze.

L'elenco era già piuttosto lungo quando ci fermammo davanti al portone della scuola.

– Dove vai mentre io sono a lezione?
– Alla Standa.
– Mi compri un gioco che fa schifo?
– Se lo trovo.

Così, mentre io cantavo in coro con altri disgraziati "ui olìv ine ielo sotmarin, ielo sotmarin, ielo sotmarin", Antonia sostava pensosamente nel reparto giocattoli, interrogandosi sul significato di schifo.

– E allora, comprato?
– Sì sì.
– Ce l'hai?
– Ce l'ho in borsa.
– Fa tanto schifo?
– Ho paura di sì.

A casa, dalla borsa di cerata a quadri rossi spuntarono due deludenti scatoline di cartone.

– Gambaletti blu?
– No, aspetta.

Sbucò anche un sacchetto di plastica pieno di una cosa gommosa e nera, indefinibile.

– Cos'è!
– C'è scritto tarantola gigante, sarà un ragnone peloso.
– Uah, Madonna, e come lo chiamiamo.
– Marina, la tarantola sasìna.
– Apriamolo!

Aprimmo. Tutta quella gomma compressa cominciò a muoversi e a uscire dal sacchetto. Prese anche a ingrandirsi spiacevolmente.

– Oh!
– Oh! Come cresce, pensavo più piccolo.
– Ah che schifo, buttalo buttalo per terra.
– Che brutta roba.
– Orco, nonna, cos'hai comprato.
– Sembra vivo, Maria santa.
– È diventato grande.
– Si muove, salta.
– Nonna, adesso viene per di qua.
– Maria vergine, che schifo.
– Nonna, fa' qualcosa.
– Aspetta qua. Salta sulla sedia.

Andò a prendere scopa e paletta e con evidente raccapriccio, cercando di non guardare, raccolse la massa in movimento.

– Chiudi gli occhi sennò ti sogni!
– Chiudo, chiudo, ma tu portalo via.
– Eh, portarlo via...
– Fatto?
– Fatto.
– Faceva tanto schifo.
– Ah sì. Adesso ci facciamo un cacao con la panna e poi tiriamo fuori la dama.

Antonia barava, a dama. Stava vincendo la terza partita, muovendo le sue pedine su percorsi arbitrari, quando sentimmo aprire la porta di casa.

– Ciao mami!
– Ciao, tutto bene?
– Bene.
– Inglese?
– Ielo sotmarin.
– Ancora?
– Sì sì.
– Brava.

La sentimmo salire in camera, scendere, entrare in cucina, aprire il frigorifero.

– Dove l'hai buttato il robo, nonna?
– Nelle scovazze.

Ci guardammo negli occhi, preparando un'espressione mite e assorta: nonna e nipotina intente a giocare a dama, nella luce fioca del crepuscolo invernale.

– Mangio, mangio, mangio.
– Ma non puoi mangiare così!
– Mi pare che hai perso ancora.
– Sì, ma...
– Come fa? Ui olìv...
– ine ielo sotmarin...

Dalla cucina, un urlo come quelli delle attrici nei film di paura, quando aprono la bocca, la coprono con il dorso della mano aperta e spalancano gli occhi. L'urlo disperato poco prima di perdere i sensi.

– ... ielo sotmarin.
– Ielo sotmarin.

Da allora me la cavai inaspettatamente bene con l'inglese, che cominciò a piacermi, e trascurai del tutto le tarantole. Marina si trasformò presto in un grumo di gomma fusa, per tornare di tanto in tanto nei miei incubi dell'alba. Mia madre sviluppò un'improvvisa fobia per i ragni, dai più ritenuta inspiegabile. Antonia continuò a barare a dama, e a vincere.

venerdì, giugno 09, 2006

Estadio Azteca, città di G.

Sia gli italiani sia i tedeschi hanno fatto l'impossibile per perderla.
Vi sono riusciti i tedeschi.
Gianni Brera

A mio papà piace Gigi Riva, e a quei tempi tifa Cagliari. A me sembra strana questa fedeltà estrema al personaggio, perché a Gorizia non si tifa Cagliari ma Juve, Milan, Inter, al limite Pro Gorizia. Lui minimizza: "Non tifo, simpatizzo", oppure: "Sono un amante del bel gioco".
"Abbiamo vinto gli Europei, il Cagliari ha vinto lo scudetto, quest'anno è fatta", è il suo calcolo.

Quella sera di giugno del 1970 mio papà si inventa il carosello preventivo: mette su una bandiera con un lenzuolo bianco e la scritta "FORZA ITALIA FORZA GIGI SON FINITI I TEMPI BIGI", la fissa sul sedile della Cinquecento in modo che sporga dalla cappotta alzata e pare per fare tre giri dell'isolato prima di raggiungere la casa di un amico.

E così l'uomo sul cinquino sgomma sulla ghiaia del vialetto facendo ciao con la mano, esce trionfalmente dal cancello, scala, curva e si allontana accelerando, bandiera svolazzante e clacson allegro.
Alle due e mezzo rientra fischiettando piano, con la bandiera arrotolata appoggiata sulla spalla.
Quando sento aprire la porta di casa salto giù dal letto e vado a controllare la situazione, perché chi mi ferma?, è la notte del secolo, e poi siamo selvaggi, tifiamo Cagliari.

"Elio, ma non hai mica bevuto?", dice mia madre sottovoce.
"No, ho mangiato un boero", fa lui, e posa tre cioccolatini sul tavolo.
Gli ridono anche le orecchie.
Quattro giorni dopo perdiamo la finale. Non importa.