martedì, gennaio 09, 2007

Nostra Signora delle Isobare

Don Mario era piccolo, magro, occhialuto e aveva una strana carnagione rossastra, come se qualcuno lo avesse buttato nell'acqua bollente per pochi secondi e poi spellato con cura. Antonia lo aveva squadrato con diffidenza prima di commentare a bassa voce:
- Maria Vergine, un gambero. Deve anche esser cattivo, statènta.

Con don Mario però andavamo abbastanza d'accordo. Capitava che mi pizzicasse le guance o le orecchie con le chele, quando mi vedeva distratta, ma si trattava di gesti affettuosi e tutto sommato sopportabili. Mi aveva anche regalato un piccolo collage di fiori secchi, ricordo del suo recente viaggio di gruppo in Terra Santa.
– Antonia, guarda cosa mi ha dato don Mario.
– Belli, proprio belli i fiorellini, amore.
– Sono dell'orto del Getsemani.
– Fiorellini de un orto, bravo il don Bairo.
– Don Mario, nonna.
– Uguale.

Finché un giorno la Sgorza aveva fatto la spiata della sua vita:
– Padre, io conosco una bambina che ha una nonna e questa bambina e sua nonna bestemmiano.
– Sgorza, in piedi e parla bene senza mangiarti le parole.
– Conosco una bambina e sua nonna che bestemmiano la Madonna, padre.

Sgorza Flavia, una creatura magruzza con grandi occhi azzurri e un'espressione costantemente attonita: in un film si sarebbe guadagnata la parte della piccola paralitica, della monachella orfana o della fiammiferaia, nella vita reale sognava di cambiare il proprio nome in Ondina e di aprire un salone di parrucchiera. La fissai con gli occhi sgranati, mentre lo sguardo incendiario e vagamente spiritato di don Mario si spostava su di me, l'incredulità amplificata dagli occhiali spessi con la montatura di celluloide.
C'era solo una nonna famosa, tra i bambini di quarta A: Antonia. Non poteva trattarsi che di noi. Due o tre pomeriggi alla settimana Sgorza Flavia passava a casa nostra con la scusa dei compiti, beveva il nostro cacao con panna, mangiava i nostri biscotti, addentava pizzette e brioches, trangugiava patatine e aranciata senza mai smettere di parlare di acconciature e permanenti, e intanto tramava nell'ombra come una spia del cardinale Richelieu.
Ma cosa aveva sentito o creduto di sentire, Sgorza Flavia?

Di quell'inverno ricordo il gran freddo, e il fatto che ci sembrava interminabile. Con Antonia ci alzavamo prestissimo, all'insaputa dei miei genitori: lei accendeva la radio, io mi mettevo a leggere i libri della biblioteca di classe, solitamente fiabe nordiche piene di neve, gelo, mutazioni e complicati incantesimi.
Prima di uscire ascoltavamo con assorta concentrazione le previsioni del tempo e le temperature, che rievocavamo durante il tragitto a piedi verso la scuola.
"Heeeelsinki, meno sei".
"Stokkolma, meno due".
"Perlino, zero gradi".
"Moooska, meno undici".
"Venezia".
"Due".
"Santa Maria di Leuca".
"Dieci".
Scivolavamo sul marciapiede leggermente ghiacciato, già sveglie da ore. Il babbo ci aveva regalato due piccoli scaldamani a pile da tenere in tasca (due, perché sospettava che Antonia sarebbe riuscita a impadronirsi del mio, magari barando a rubamazzetto). Li accarezzavamo entusiaste, mentre dagli alberi del viale ci cadevano in testa piccole stalattiti rumorose.

E poi ci fu l'incresciosa faccenda della Sgorza.
– Nonna, la Sgorza ha detto a don Mario che bestemmiamo la Madonna.
– La Sgorza!
– Adesso don Mario ti manda a chiamare, vedrai.
– Santa Maria Vergine, il gambero.
– Santa Maria di Leuca, Antonia!
E in quel momento capimmo, mentre ci sfilava davanti agli occhi il pomeriggio di due settimane prima: Sgorza Flavia che disegnava sul diario audaci capigliature femminili, io intenta a separare la panna montata dal cacao e Antonia accanto alla finestra.
– Orco, nevica.
– Nonna, la neve!
– Speremo che duri.
– Se non butta in piova, – puntualizzò la Sgorza ridestandosi dal suo mondo di fantasia fatto di bigodini e di méches.
– Oh, Santa Maria di Leuca, – esclamò Antonia volgendo gli occhi al soffitto.
– Fa' che no piovi! – implorai io.
Era chiaro: la zelante Sgorza aveva scambiato per una bestemmia l'invocazione a una stazione meteorologica. Questo fu spiegato a don Mario, che però da allora conservò una certa diffidenza nei confronti di Antonia, sospettata di suscitare nella nipote istinti pagani o poco ortodossi: i due si evitarono sempre, tenendosi a distanza come due isobare sulla carta meteorologica.

Fu lunghissimo, quell'inverno di fiabe e di albe ghiacciate votato alla Madonna delle Perturbazioni.
– Che zìma, nonna.
– Non parlare che ti entra l'aria fredda in bocca.
– Ho tre giri di sciarpa intorno alla faccia.
– Entra lo stesso. Lo usi, lo scaldino?
– Certo che lo uso!
– Bòn, chiedevo.
– Oh, Santa Maria di Leuca!
– Pazienza, ghe vòl.
– Non spingere!
– Chi spinge! Heeeelsinki!
– Meno due!
– Stokkolma!
– Non pervenuta!

Talvolta ci capitava di incontrare don Mario, che con la sua faccia rosea e i capelli bianchi spiccava contro il grigiore del mattino come un lugubre fiore esotico in una cella frigorifera.
– Buongiorno padre.
– 'Giorno padre.
– Buongiorno. Bambina, di' arrivederci alla nonna.
– Arrivederci nonna.
– Un momento. Qua lo scaldino.
– Nonna!
– Che poi lo perdi. Compermesso, padre.
Antonia mi consegnava alle chele del gambero e si fermava a fissare per un po' il portone della scuola, facendo scricchiolare la ghiaia sotto i piedi. Poi si allontanava con un'espressione soddisfatta, muovendo impercettibilmente le mani nel tepore simmetrico delle tasche.

Nella mia fantasia Santa Maria di Leuca è sempre incoronata da un robusto campo di alta pressione, segnalato da estremi climatici molto confortevoli.
Sgorza Flavia ha aperto un salone di parrucchiera, dimostrando una formidabile capacità di tener fede ai propri sogni.

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